Intervista all’attore Lorenzo Richelmy
a cura di Francesca Bruni
5 Lug 2025 - Approfondimenti cinema, Interviste
Francesca Bruni ha raggiunto al telefono l’attore Lorenzo Richelmy che ci ha concesso un’intervista articolata, profonda e di grande sincerità.
L’attore Lorenzo Richelmy, nato a La Spezia nel 1990, inizia la sua carriera fin da bambino nel teatro, per dedicarsi poi alla televisione e al cinema. Il ruolo di Cesare Schifani nella serie TV I Liceali lo farà conoscere al grande pubblico e gli vale il premio come “Personalità Europea Emergente”.
Nel 2009 entra al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma e, l’anno dopo, è protagonista di Fat Cat, un film che gli procura diverse nomination internazionali.
Il 2012 è un anno cruciale: recita in Sposami (Rai), nella serie internazionale I Borgia, e nella webserie comica Kubrick – Una storia porno. Inoltre, partecipa a due opere prime, tra cui Il terzo tempo (2013) di Enrico Maria Artale, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia.
Nel 2014 vince il Premio Biraghi ai Nastri d’Argento per il film Sotto una buona stella di Carlo Verdone.
La sua carriera internazionale decolla nel 2014 quando ottiene il ruolo di Marco Polo nella serie Netflix Marco Polo, che lo porta a girare la seconda stagione in Malesia.
Tornato in Italia, recita in film come Una questione privata (2017) di Paolo e Vittorio Taviani, La ragazza nella nebbia (2017) di Donato Carrisi, Una vita spericolata di Marco Ponti e Ride di Jacopo Rondinelli (2018).
Dal 2018 al 2020 alterna cortometraggi e documentari sull’arte, come Klimt e Schiele – Eros e Psiche.


Nel 2019 è protagonista di Dolceroma di Fabio Resinaro e nel 2020 recita in Il talento del calabrone di Giacomo Cimini, un film con Sergio Castellitto e Anna Foglietta, e partecipa alla serie svedese Sanctuary.
Nel 2022, è al cinema con The Bunker Game di Roberto Zazzara, L’uomo sulla strada di Gianluca Mangiasciutti (per cui vince una Menzione Speciale al Festival di Roma) e Per lanciarsi dalle stelle di Andrea Jublin per Netflix, oltre a essere protagonista della serie Hotel Portofino.
Nel 2023, recita nella serie internazionale Kidnapped e termina le riprese del film Fino alla fine di Gabriele Muccino, presentato alla Festa del Cinema di Roma nel 2024 (da noi recensito a questo link: https://www.musiculturaonline.it/recensione-del-film-fino-alla-fine-di-gabriele-muccino/ n.d.r.).
L’intervista che segue è stata trascritta cercando di mantenere il più possibile lo stile dialogico, per restituire al lettore la spontaneità e l’estrema sincerità di una persona splendida, prima ancora che di un attore bravissimo e molto apprezzato.


INTERVISTA
Mi può parlare della sua prima esperienza nel mondo della recitazione?
Conosco il mondo della recitazione e dello spettacolo grazie ai miei genitori che sono stati – parlo al passato perché adesso sono in pensione – entrambi attori di teatro, principalmente.
La mia primissima esperienza teatrale, proprio intesa come la prima volta che sono salito su un palcoscenico, avvenne mentre ero in tournée con mia madre, in Sicilia, per uno spettacolo teatrale di Arturo Spinelli. Mi ricordo semplicemente che ero con mia madre in giro per questa tournée ed ero un po’ la mascotte di tutta la compagnia; dato che durava diverse settimane, a un certo punto, per non farmi annoiare e soprattutto per non farmi addormentare dietro le quinte, mia madre mi diede il compito di chiudere il primo atto: io praticamente uscivo in scena e l’unica cosa che facevo era avere un piatto vuoto e dire “Il pollo è pronto”. Poi bam, sipario. E questa è stata la mia primissima esperienza. Poi diciamo che il teatro è sempre stato nelle corde familiari; ho incontrato Mario Prosperi, un grande attore di teatro, e non solo, molto noto negli anni ‘70, ‘80, ‘90, con cui feci due repliche dello stesso spettacolo, in due anni diversi, una quando avevo 8 anni e l’altra a 10 anni: si chiamava Zio Mario, e quella è stata un’altra “vasca”, diciamo, nel teatro. Ero un bambino, per me era ovviamente un gioco. In quegli anni feci pure la mia prima esperienza al cinema con un film di Vanzina, Il pranzo della domenica, in cui facevo il figlio di Elena Sofia Ricci e Rocco Papaleo. Come bimbo attore mi sono fermato lì ma poi, anche spinto da mia madre che era un po’ spaventata dal fatto che potevo intraprendere questa carriera così instabile, mi sono fermato e mi sono messo a studiare. Fui poi io a chiedere di entrare in un’agenzia, di riprovarci, più o meno all’età di 15-16 anni. La promessa per mia madre fu quella di non avere debiti, all’epoca, al liceo che frequentavo. Ci riuscii, mi segnai in un’agenzia e lì presi il primo lavoro serio che mi permise di capire cosa potesse essere questo mestiere: era il ruolo ne I Liceali, la serie Mediaset che ebbe un grande successo e grazie alla quale conobbi diversi attori, giovani ragazzi, ma soprattutto Giorgio Tirabassi e Claudia Pandolfi, i protagonisti. Con loro mi confrontai spesso, perché ero uno dei più piccoli, chiedendo se secondo loro aveva senso fare questo lavoro. Furono loro a consigliarmi di studiare, e questa è una cosa per cui gli sarò sempre grato. Essendo stato un grande successo, sarebbe stato facile, dopo I Liceali, entrare nel circolo delle serie tv e delle fiction per un po’ di popolarità; loro invece mi dissero: “Non hai un mutuo, non devi pagare le bollette, che te ne frega di lavorare adesso? Vai a studiare, formati, e poi avrai più possibilità”. E durante le riprese della seconda serie provai a entrare al Centro Sperimentale, con un monologo che peraltro feci correggere proprio da Tirabassi e dalla Pandolfi; venni preso e da lì feci l’Accademia, con il ciclo sperimentale di tre anni, e poi incominciò la mia carriera.
La grande notorietà avviene con il personaggio di Cesare Schifani nella serie televisiva “I liceali”; quanto è cambiato Lorenzo rispetto ai suoi esordi?
Sono cambiato, nel senso che uno cambia a prescindere dalla carriera che fa. Rispetto al ragazzino di 15-16 anni che ero, ho fatto delle esperienze, come tutti, per cui ci si ritrova ad affrontare la vita in modo diverso. Devo dire che io credo molto in quella filosofia, o meglio scienza, secondo cui ogni sette anni facciamo il ricambio cellulare e ci trasformiamo dal punto di vista biologico e non solo. E io ho seguito diverse fasi, quindi sicuramente tra il me attore di quando feci I Liceali e quello che poi sono diventato dopo la scuola c’è stato un bel passaggio, nel senso che prima c’era una sorta di “incanto” nel mondo dello spettacolo; io sono un ragazzino che è nato nel ‘90, quindi sono stato assolutamente travolto dalla televisione, dalla sua potenza. Quando ero piccolino, vedevo la pubblicità delle Bull Boys con i bambini e sognavo, dicevo: “Ma che bellezza, che esperienza fantastica deve essere stata!”… poi in realtà sbagliavo perché la pubblicità non è esattamente un mondo edificante. Io avevo comunque tantissimo slancio verso questo mestiere in una maniera quasi ingenua, se vogliamo, mentre poi, riconoscerlo come un mestiere, come un lavoro fatto di tutte le componenti che hanno quasi tutti i lavori – quindi lo studio, la gavetta, la fatica, il non capire bene le cose finché non si fanno tante e tante volte, ecc. – quando sono riuscito a riconoscerlo come tale mi sono trovato, come dire, più leggero. All’inizio per me era molto un gioco e cercavo di fare quello che mi veniva bene. Con I liceali, inizialmente per me era fare un ragazzo che andava al liceo; ero il giullare della classe e mi ritrovavo a fare la stessa cosa per la televisione, quindi non c’era un grandissimo sforzo. Dopo la scuola, però, è subentrato tutto quell’insieme di fattori che ti fanno capire che vorresti fare questo mestiere in maniera diversa. Quindi, diciamo che se prima mi volevo divertire e volevo divertire gli altri, dai 20 anni in poi per me è stato importante dimostrare agli altri, e a me stesso, di poter fare diverse maschere, diversi personaggi, di cambiare. E quindi è pure una grande ansia, in realtà, perché ti vai a confrontare con un mondo diverso, per cui se prima sognavi guardando la pubblicità dei Bull Boys, dopo la scuola sognavi guardando il cinema americano. Per me lo sguardo si è allargato, gli obiettivi sono diventati un po’ più ambiziosi e quindi la distanza tra il me che faceva quel lavoro lì e il me che mi sarei immaginato di voler diventare era molto più ampia. E quindi sì, ho perso abbastanza velocemente la gioia ingenua di fare questo mestiere ed è subentrata la fatica, ma anche la soddisfazione, ovviamente, perché come tutte le cose uno fa un gran lavoro e poi, quando riesce, la soddisfazione è di un tipo diverso. È come quando si costruisce un tavolo e non si è capaci di farlo: è una soddisfazione più profonda. In tutti i mestieri, quando si inizia c’è soltanto il fatto di farlo, poi uno affina, affina, affina e cerca di trovare la misura in cui si ha più soddisfazione. Per me, in particolare, era qualcosa di grande, anche avendo i genitori attori, perché c’è quasi l’imbarazzo di poter dire “Faccio l’attore”. All’epoca mi ripetevo “Come faccio a dire in giro che faccio l’attore? devo sentirmelo veramente!”; quindi, dopo l’Accademia, e soprattutto dopo il primo film da protagonista, Il terzo tempo (2013), che era molto legato al Centro Sperimentale perché il regista, Enrico Maria Artale, era un mio coetaneo, come me studente del Centro Sperimentale, ricordo che entrambi fummo contenti di dire, a film finito “Beh, adesso se ci chiedono che lavoro facciamo, tu puoi dire regista, io posso dire attore”. Quello è stato un bel momento, un giro di boa.
È sempre stato un attore camaleontico e carismatico; tra tutti i ruoli che ha interpretato, ne ha uno in particolare che ha sentito più affine alla sua personalità?
Allora sì, torno su Il terzo tempo. Dopo quel film, in qualche modo, mi sono sempre cercato di creare delle maschere abbastanza lontane da me o comunque ho cercato di andare altrove. Lì c’era molto di me, più che del personaggio, perché poi il personaggio era uscito di galera, da una storia con un passato travagliato. Il tipo di energia che tiravo fuori all’interno di quel film era forse molto aderente a quello che ero e anche a quello che sono, nel senso al mio passato. Poi, come dicevo, lì c’era stato già un momento di maturazione, ma ero ancora molto netto come persona, anche un po’ radicale, poi crescendo uno diventa più sfaccettato, nel senso che coesistono diverse realtà, diversi punti di vista all’interno di una persona, di un carattere. In quel momento, invece, quello rispecchiava esattamente la persona che ero, nei momenti in cui lo giravo, la mia identità di origine.
Quali sono gli obbiettivi in cui credere per raggiungere i propri sogni e riuscire ad essere un attore amato dal pubblico?
Allora, secondo me sono due cose diverse, nel senso che dipende anche da quali sono i sogni, perché ognuno ne ha diversi. Il sogno potrebbe essere voler fare l’attore, ma poi dipende da cosa ognuno di noi crede significhi essere un attore, in generale.
Molte persone fanno percorsi diversi, poi dipende anche dalle opportunità che ognuno ha; come dicevo prima, però, per me era fondamentale riuscire ad avere quegli strumenti necessari per poter dimostrare a me stesso e agli altri di poter fare questo lavoro in una maniera un po’ “moderna”, nel senso che ho cominciato a fare l’attore in un periodo storico in cui c’erano pochissimi attori di vent’anni, quasi non esistevano – mentre oggi sono ovunque, e a 16 anni magari hanno già fatto una serie e sono delle star. All’epoca era molto importante lo studio, il rispetto per le persone che vedevo già essere in grado di fare quei personaggi lì. Ho sempre guardato con grande ammirazione attori come Savino, come Germano, persone che portavano avanti una visione moderna del fare l’attore; quindi, per me realizzare i miei sogni significava veramente un misto di più cose, perché poi ovviamente questo è un lavoro per cui bisogna avere l’opportunità giusta e serve quella dose di fortuna necessaria in tutto, ma soprattutto in questo mestiere. Quindi, per me il sogno era riuscire ad essere come recitava una bellissima frase di Mel Brooks che avevo al muro nella mia vecchia casa romana: “diventa così bravo da non poter non essere notato”.
A prescindere da quello che pensi, dalle varie paranoie tipo “Eh, però non mi prendono, prendono i bellocci, però non faccio ridere”, eccetera, tu studia, affina il tuo mestiere affinché dovunque tu vada possa essere percepito come un attore bravo e poi, appunto, nel caso in cui arrivi l’opportunità sarai in grado di coglierla. Quindi è fondamentale la determinazione, ma non tanto nello spingere, nel provarci, nel crederci, quello sempre e comunque, ma sempre affiancata da una ricerca, uno studio – che non significa dover essere un intellettuale, basta anche vedersi tanti film – però capire esattamente quello che si vuole fare. In realtà poi ci sono tanti diversi tipi di attori e tu devi capire cosa vuoi fare, perché molto spesso poi le opportunità ti portano a fare delle cose per cui, sì, fai l’attore, ma non sei realmente soddisfatto perché non è esattamente quello che volevi o avresti voluto fare.
E poi il discorso dell’essere anche belli, perché se un attore è bello poi è difficile probabilmente anche riuscire a far capire le proprie capacità; il messaggio che passa è che è un “bell’attore”.
Quella è un’arma a doppio taglio, sicuramente, perché sei percepito come bello; era così soprattutto in passato, adesso la situazione è un po’ diversa e ci sono degli attori bravissimi, con delle facce non canonicamente belle, ma che stanno andando molto avanti. Il cinema si è molto evoluto in questo senso, ma è così, soprattutto quando sei un ragazzino di vent’anni, vale per gli uomini, e vale soprattutto per le donne, ma in realtà è in ugual misura. Penso che ci sia sempre una certa componente narcisista, vanitosa negli attori, ma anche perché viene richiesto o percepito così dagli altri. Prima si capisce quello che si vuole fare e le carte che si hanno a disposizione e meglio è, e per farlo non si può fare altro che studiare e fare ricerca, che vuol dire anche con gli amici, con i colleghi, mettersi lì, provare, prendere una scena di un film che ti piace molto e provare a rifarla in una salsa un po’ diversa. Da lì, poi, bisogna essere amati dal pubblico; io il mio picco di popolarità l’ho avuto con I liceali, perché ero più riconoscibile, ero il ragazzino che andava a scuola, faceva il fesso, il giullare, il simpatico, lo rifacevo lì e quindi quando andavo in giro ero riconoscibilissimo per quel personaggio lì. Poi avendo avuto la fortuna di fare tanti personaggi diversi diventi un po’ meno riconoscibile da un certo punto di vista, quindi sei meno “personaggio”. Quindi per me continua a essere un lavoro quello di essere riconosciuto dal pubblico; è un qualcosa che può essere contaminante, uno non dovrebbe cercare di puntare a quello, perché non c’è, tra l’altro, una formula per riuscirvi. Se un attore cerca di costruirsi il personaggio per essere amato dal pubblico spesso non funziona, non si riesce, mentre se uno spinge sul proprio istinto, sulla propria naturalezza e tratta onestamente il proprio lavoro poi le soddisfazioni arrivano. La fama, di per sé, è una cosa che non mi esalta particolarmente, nel senso che i tanti attori e amici bravissimi, popolarissimi che conosco e che ho anche seguito dagli inizi e poi nella loro parabola ascendente, fanno una vita molto difficile. Io avrei molta difficoltà a vivere così, per questo mi sono anche trasferito a Milano, non perché a Roma mi seguissero le frotte di fan, ma sicuramente il fatto di poter avere una vita civile al di fuori dell’essere attore per me è molto importante.


Anche perché è difficile gestire il successo; uno esce e in qualsiasi momento c’è sempre chi viene lì, chiede l’autografo… penso sia molto difficile. Mi sono sempre chiesta come faccia un attore a gestire psicologicamente il successo.
Io non ho mai trovato nessuno che abbia un buon rapporto con questo aspetto, perché comunque se stai a cena con gli amici è chiaro che se arriva qualcuno a chiederti un autografo c’è una parte di te che è contenta perché è una soddisfazione e fa parte del tuo lavoro, ma la realtà dei fatti è che tu stai a cena con gli amici e il tuo lavoro bussa alla porta. E ti metti quella maschera: mentre stavi parlando dei fatti tuoi con l’amico arriva la persona, e allora grandi sorrisoni e sei un po’ costretto a fare la parte dell’attore per come se lo aspettano gli altri. È molto faticoso, non voglio dire che sia brutto, però l’ho visto in piccolo, l’ho provato su di me, ma l’ho visto anche su attori molto più famosi di me, è quasi un lavoro a sé stante. E infatti molto spesso gli attori finiscono poi per fare delle vite chiuse. Sai, a me piace da morire fare la spesa, e puoi immaginare come la vivo. Mi viene sempre in mente quello che è successo ai tempi del Covid, quando Totti diceva di essere andato liberamente in giro per il Corso con la mascherina e il cappello senza essere riconosciuto, provando una sensazione che non viveva da anni. Pensa a te, uno che ha fatto di tutto, che è un campione internazionale, si è però negato una parte della vita importantissima… Quindi quella parte lì, quella dell’essere amato dal pubblico, non la vedrei come un obiettivo.
Sicuramente quando sul commento del trailer o del film arrivano i complimenti è sempre un piacere, quello assolutamente, ma più per il riconoscimento del proprio lavoro rispetto al fatto che essendo un attore la gente mi chiede un selfie.
Certo, sono due cose diverse, poi giustamente in certi momenti un attore vorrebbe vivere la propria vita con più tranquillità, ma è difficile.
Ci sono delle strategie, Luca Marinelli se n’è andato a Berlino.
Infatti, le stavo dicendo proprio di Luca Marinelli, con cui lei ha fatto un bellissimo film. Anche lui è un attore molto popolare adesso, e infatti ha scelto di andare da un’altra parte, proprio per stare più tranquillo.
Certo, anche lui è uno che non ha voglia di vedere quell’aspetto così preponderante del nostro lavoro, quindi è andato lì dove è un Signor Nessuno, anche se ormai lo conoscono in tanti, ma a Berlino comunque c’è una situazione diversa, le persone sono un po’ più fredde e lui si prende la parte buona di questa cosa.
Certo, perché poi dipende anche dai film che uno fa, per esempio lei ha fatto un film, secondo me bellissimo, Fino alla fine, con Gabriele Muccino come regista…
Mi fa molto piacere. In quel caso, ad esempio, essendo un personaggio molto diverso da quello che sono io, anche fisicamente, non mi ha praticamente ancora mai fermato nessuno per quel film, perché non vengo riconosciuto, cioè in parte sì ma non veramente. Anche perché è un grande pubblico quello di Muccino, che è molto diverso da un certo punto di vista dal pubblico che avevo incontrato negli altri film che ho fatto, è anche un pubblico abituato a vedere degli attori, non dico uguali a se stessi, ma molto riconoscibili. E quindi io devo dire che lì ho fatto un film molto popolare ma non sono stato riconosciuto come per altri film molto più piccoli che ho fatto. È stato comunque un piacere perché appunto fare un personaggio distante da sé vuol dire…


È stato molto bravo, veramente, un’interpretazione eccezionale…
È stato molto molto divertente.
E anche quello me lo immagino, perché è un film di Muccino con uno stile completamente differente dai precedenti.
Ha avuto esperienze lavorative anche all’estero, lo ricordiamo in Marco Polo nella serie americana dal titolo omonimo realizzata dal regista John Fusco, per Netflix; cosa ha significato per lei interpretare un ruolo così importante?
Quella è stata una grande favola, una bella fiaba, perché non avrei mai pensato di poter accedere a una produzione così importante, americana, così velocemente.
Il processo di casting è stato molto lento e faticoso, però poi quando mi sono trovato in Malesia, con una produzione gigantesca, perché all’epoca era la serie più costosa mai fatta, è stato incredibile. In realtà la serie più costosa in quel momento era Il Trono di Spade, ma era già alla terza, quarta stagione, mentre Marco Polo, come prima stagione, era una produzione ricchissima. Vedere quella macchina lì è stata una gioia; fu comunque molto, molto faticoso, perché poi le riprese erano per lo più in Malesia e questo voleva dire trapiantarsi lì. Io per 8-9 mesi sono stato lì, senza poter tornare indietro, nel senso anche contrattuale, perché non potevo tornare a casa finché non avessi finito tutte le riprese. Sapevo pochissimo l’inglese, quindi c’era anche la difficoltà di parlare con tutti; banalmente, anche durante la prima settimana di riprese, a Venezia, c’era l’assistente della regia che mi parlava. Era del Sud dell’Inghilterra, e io non capivo niente: mi dicevo, “Sono qui, vestito da Marco Polo, è tutto bellissimo, ma non riesco a fare il mio mestiere perché non capisco bene le indicazioni che mi si danno!”.
Quella cosa è stata superata velocemente, sono stati molto bravi perché mi hanno seguito tantissimo, hanno molto creduto in me, e io mi stupivo del fatto che potevano dare un ruolo così importante a un ragazzo che sapeva poco la lingua, come me. Poi è chiaro che dovevo interpretare Marco Polo e quindi un italiano… è stato un po’ come essere andato a Hogwarts, io sono andato lì due mesi e mezzo prima dell’inizio delle riprese e mi hanno insegnato di tutto, dall’inglese all’arco, il kung fu, il cavallo, e mi sentivo estremamente fortunato, anzi mi sento ancora estremamente fortunato perché tra l’altro era una di quelle situazioni che ormai quasi non esistono più, si era in un momento di apice, con Netflix agli inizi e questi investimenti gargantueschi sulle serie, con produzioni enormi che adesso sono invece tante e decisamente più ridimensionate. È stato un onore, intanto perché ero molto contento di portare un personaggio storico così importante come quello di Marco Polo all’estero, a maggior ragione perché di solito le serie americane, vedi Leonardo da Vinci o un sacco di personaggi storici molto famosi, fanno parlare gli americani, non prendono mai un italiano; quindi, ero molto contento di portare un po’ di italianità fuori, in un contesto prettamente americano. Per me è stato veramente un sogno ad occhi aperti, mi sono divertito tantissimo: sono stati tre anni assurdi, perché a parte le riprese, poi lì veramente ero riconoscibile. Ho fatto Marco Polo nell’epoca in cui Netflix non era ancora in Italia; quindi, vivevo questa doppia realtà abbastanza distopica per cui andavo a Los Angeles e mi fermava la gente come se fossi chissà chi, ma poi tornavo a Roma e non ero nessuno. Era veramente strano, sommato al fatto che un po’ per filosofia, politica industriale, quelli di Netflix mi trattavano come fossi Di Caprio, volevano che io andassi in giro in un certo modo, fossi visto in un certo modo e quindi mi davano macchine su macchine, qualsiasi tipo di vestiti, cene, mi portavano in giro con l’elicottero… Ho fatto tre anni da star ed è stato bello ma anche un po’ destabilizzante, perché all’epoca loro, soprattutto, erano convinti di fare la serie più grande del mondo. Pensa che il giorno prima di iniziare le riprese, ero a Piazza San Marco, a Venezia, e lo stesso John Fusco mi disse: “Guarda, questa è l’ultima volta che tu puoi camminare per Piazza San Marco così. Sarai così famoso dal prossimo anno che non potrai camminare”. Per me era un’ansia incredibile, forse era una cosa bella che poteva sembrare un complimento, ma per me era un’ansia! Poi alla fine non è successo, nel senso che la serie è andata bene ma non così bene come si aspettavano e quindi quella cosa lì non è successa, ma in quei tre anni ero un po’ tirato per la giacchetta ed ero trattato in quella maniera e in quel contesto è veramente difficile rimanere con i piedi per terra.
Ho vissuto lo star system hollywoodiano, di Los Angeles, ma posso dire che non è un bel mondo, non è proprio il mio mondo. All’epoca, infatti, tutti si sarebbero aspettati, dai manager alla produzione, che mi trasferissi a Los Angeles, ma io ho detto no. Non potevo trapiantarmi in America, andando a fare cose che non sono, perché rimango un italiano, e oltre tutto ero molto piccolo, avevo 24 anni e avevo ancora bisogno di fare serate con gli amici, a dire le minchiate, avevo bisogno di quella semplicità lì. Quella costruzione che si trova molto in America non mi attraeva particolarmente e tutte le persone, anche attori famosi che ho incontrato lì, non mi hanno dato l’impressione di vivere esattamente una vita felice, ecco. Probabilmente è una vita ricca, piena di agi, piena di oggetti belli, macchine, case, ma che ci fai se non c’è il tuo amico con cui confidarti di pomeriggio o quando ti pare a te? Anche lì, poi diventa una prigione dorata.
Infatti, tanti attori poi hanno la depressione…
Ma già Los Angeles è un posto dove non si va per strada, perché non esistono le piazze; quindi, si sta chiusi in casa oppure si va nei locali, nei ristoranti, in più fai l’attore; quindi, cominci a frequentare i posti soltanto con attori… diventa tutto molto chiuso e molto poco stimolante, anche per il mio mestiere. Uno ha bisogno di fare cose diverse per poi riportarle in quello che fa, lì invece diventava tutto un po’ finto, tutto un po’ patinato, diciamo, e quella cosa lì mi ha fatto più che paura. E semplicemente ho detto: “Ragazzi, io vengo qui due, tre, sei mesi all’anno, per lavorare, ma quando non lavoro… punto. Vado con il mio amico Walterino… a fare il vino!”. E così è stato. È stata una grandissima esperienza grazie alla quale sono cresciuto molto, sicuramente.
Ci sono differenze nel lavorare all’estero rispetto al nostro paese?
Allora, ci sono due aspetti; il primo riguarda il tuo mestiere: in realtà, se hai un iPhone davanti o hai quattro macchine da presa da 200 mila euro l’una, quello che fai è la stessa cosa, dentro. Chiaramente, avere un sistema grande ti aiuta tantissimo. La metafora che tiro sempre fuori è quella del ristorante: con 15 euro mangi una buona pizza e puoi fare una bella cena con pizza e una cola; certo, però, che se ne hai 80 di euro, magari le possibilità si ampliano, e vai a mangiare il pesce. Nel cinema è lo stesso: il grande cinema si può fare anche con pochissimi mezzi, certamente un’industria e i soldi fanno la differenza, danno semplicemente il tempo e la possibilità di fare le cose meglio. Poi io quando sono tornato, dagli effetti americani mi sono ritrovato a fare i film degli italiani e per me è stato bellissimo, perché si tornava al nocciolo: c’era Paolo Taviani che si metteva lì, spendeva mezz’ora per spiegarmi la scena, per farmi capire quello che avrebbe voluto vedere in quella scena e c’era una cura che probabilmente il set americano non incoraggia in qualche modo, perché qui c’è una visione più artigianale che è bellissima. Certamente, lì ero con un grande maestro come Paolo Taviani; se il grande maestro non c’è, e quindi non c’è una personalità così fortemente magnetica o anche banalmente raffinata, avere più mezzi ti aiuta.
Esiste un ruolo o un personaggio che vorrebbe interpretare?
Sì, anche se probabilmente non sono più i tempi giusti per farlo… Quando ero al Centro Sperimentale rimasi affascinatissimo da Tootsie, il film con Dustin Hoffman in cui lui interpretava la donna. Ho sempre pensato alla ricerca di maschere che fossero distanti da me, e mi sarebbe tanto piaciuto interpretare un transessuale, un travestito, ma siamo nel momento storico in cui questa cosa probabilmente non è più possibile. Non so neanche dirle quanto sono d’accordo rispetto a questo cambio, perché poi nel mondo americano forse ha senso perché è talmente numeroso…, però se adesso uno deve fare un film su un travestito e ti dicono “no, dobbiamo fare del travestito vero”, dico: “sì, capito? Ma ci devono anche essere gli attori travestiti”, non so come dire… Poi che fa un attore travestito, sta lì ad aspettare una vita prima che arrivi un film che parla di un travestito e poi non lavora? È un controsenso rispetto proprio a quello che è il nostro lavoro in termini più profondi… Però sì, se devo dare una risposta, mi sarebbe piaciuto tantissimo fare quello, proprio per sperimentare. Erano bellissime le interviste di Dustin Hoffman che parlava del lavoro che fece con Tootsie e in una di queste, molto commovente, si commosse pensando al fatto che provando i costumi e il trucco, essendo lui un uomo e non essendo un adone, non risultava una donna piacente, da donna; quando andò in giro e, da personaggio, si rese conto che era una donna poco piacente, per cui i maschi non la guardavano, questo lo turbò tantissimo, perché scoprì una parte del mondo a cui non avrebbe mai avuto accesso, cioè cosa significa essere una donna come quella, un po’ vecchietta, con gli occhialoni, che non è piacente, non viene vista; vedere un uomo come Dustin Hoffman parlare di una cosa del genere, mi sembrò una parte quasi inedita del nostro lavoro, importantissima, perché poi nella migliore delle ipotesi fare l’attore è fare antropologia, cioè veramente scoprire il mondo, personaggio dopo personaggio. Io sono molto convinto che ogni uomo e ogni donna abbia una parte femminile e una parte maschile, più pronunciata, meno pronunciata, più nascosta, meno nascosta e a me poter esprimere appieno la mia parte femminile piacerebbe tantissimo.


Interessante, bellissima questa risposta, davvero.
Bellissimo quello che hanno fatto, speriamo che riescano a trovare una quadra.
Perché in Italia siamo un po’ chiusi, una mentalità un po’…
Ma ormai dappertutto, anche gli americani ormai hanno lasciato stare, cioè sicuramente sono più aperti di noi perché c’è una grande pluralità, però che un attore come me, appunto, bianco, caucasico, si metta a fare la donna è molto difficile, cioè o sei già un grande attore per cui ti presti a certe cose, oppure è una scommessa che vedo difficile fare in questo periodo storico.
La sua recente interpretazione lo vede nei panni di Komandante nella pellicola “Fino alla fine” del regista Gabriele Muccino; cosa le ha lasciato recitare questo personaggio controverso e potente e come è riuscito ad imparare il palermitano?
La potenza del personaggio era assolutamente su carta, quindi quando mi sono sentito con Muccino mi ha subito convinto del fatto che poteva essere un personaggio interessante per me. E poi, dopo anni, da Il terzo tempo, sono tornato a interpretare un cattivo “classico”, che poi cattivo non è neanche giusto dirlo, ma insomma uno di strada “vero”. E fare uno che viene dalla strada vuol dire avere una libertà più ampia rispetto al corpo: hai la possibilità di muoverlo di più, sei più scomposto; se interpreti un personaggio che non è molto chiuso nelle etichette sociali, nelle sovrastrutture che uno si crea, puoi esplorare di più. È più dinamico e quindi quella potenza, quella forza mi ha fatto sentire un grande senso di libertà. Anche perché, poi io sono uno che è cresciuto in periferia, a Roma, quindi sono anche un po’ stato quella roba lì, per me era un po’ ritornare alle origini, anche se non sono mai stato un “cattivo”. Però quel personaggio di strada, il personaggio così ignorante, ma non nel senso di uno che sa poco, ignorante nella misura più bella del termine, ovvero sganciato dalle etichette, non solo è divertente, ma ti fa sentire una libertà a cui uno poi si abitua a non avere. E quindi l’ho un po’ ritrovata, mi sono sentito fresco, mi sono sentito ringiovanito dal personaggio.
Il senso del film poi è quello, la libertà.
La libertà di poter scegliere e fare quello che si vuole nel momento in cui uno vuole: invece di proiettare se stesso sempre al passato o al futuro, che è un problema abbastanza grande dei giorni nostri, complici anche i social e tutta questa roba per cui è sempre il percepito dagli altri che prende il sopravvento, che ha questa importanza enorme, mentre sarebbe bello non doversi più guardare allo specchio così tanto, non poter essere più così tanto artefici della propria immagine, ma della propria personalità, a prescindere da come si viene visti, di come si viene percepiti.
Infatti, lei è stato anche alle Iene. Mi ha colpito molto il suo esporsi anche sul suo problema, che è anche quello, purtroppo, un problema molto attuale. Le auguro di risolverlo il prima possibile, di cuore.
Siamo a processo aperto…
Perché purtroppo è la legge che non funziona purtroppo. Dovrebbero fare delle leggi più importanti.
Eh, purtroppo tutto il mondo dei social è troppo deregolamentato, no?
Lei è stato molto bravo, coraggioso, mi ha colpito molto questa cosa. Mi scusi, non voglio entrare nel merito, poi finiamo il discorso.
No, no, ma non ho difficoltà a parlarne.
Era per farle capire proprio che è stato molto bravo a esporsi e a raggiungere anche gli altri che hanno la sua…
Sì, io lo spero, perché poi è un problema, nel senso che, essendo uomo, sembra che la questione non ci riguardi. Da uomo, non hai questo problema qui. Perché? Perché tanto… ma è un discorso un po’ troppo tagliato con l’accetta, no? Anche questo macismo, questa ferocia che ha la gente; molti dei commenti al video delle Iene dicevano tipo “eh vabbè, ma allora hai aspettato dieci anni? E perché non l’hai fatto prima?”. E quindi effettivamente mi sono ritrovato lì a dire… “Ragazzi, non è così semplice, non è tutto bianco-nero”. E appunto quando trovi qualcuno che cerca di manipolarti dal punto di vista emotivo, soprattutto se sei una persona fondamentalmente buona come credo di essere, cerchi sempre di allontanare, di evitare lo scontro o di alleggerire, far finta di niente, per far finta che non esista. E invece proprio perché siamo nell’epoca dei social e quindi tutto diventa eccessivo, nel senso che tutto può diventare invadente, allora uno deve essere un po’ più sensibile o comunque essere più pronto ad alzar la mano, a dire “No, c’è un problema qui, non va bene, non può essere”.
Sono appunto le leggi italiane che non vanno bene, perché dovrebbero fare proprio leggi più forti anche sullo stalking, perché queste sono cose importanti. È la libertà di una persona.
È una cosa che viene sottovalutata. Molto. E soprattutto da attore… Io le parlo con grande libertà, perché il motivo per cui ho fatto il monologo delle Iene era sicuramente per liberarmi di un peso ma anche per catalizzare una situazione così pesante e riportarla al mio lavoro. Ci ho scritto un monologo, l’ho fatto vedere, è stato anche un momento catartico. Però c’è anche, come dire, lo scopo di sensibilizzazione; quindi, non ho difficoltà a parlarne e vorrei farlo; adesso vedremo quello che succederà.
Le auguro il meglio possibile e che possa risolvere questa situazione, se vuole non la mettiamo nell’intervista.
No, per me può metterla tranquillamente, ripeto, non ho problemi. Proprio perché sono riuscito a fare questo monologo e l’ho portato al pubblico, l’ho fatto anche consapevole del fatto che poi ci sarebbero state domande, eccetera. Me la sono risolta in un modo per cui credo sia giusto parlarne, con tutta la sensibilità del caso, perché sennò si fa finta che o è troppo grave per parlarne o ci sono casi molto più gravi. Il mio è un caso di stalking classico, no? Di violenze e simili, quindi per me parlarne vuol dire, come dico nel monologo “Sì, vai, dillo, dillo agli altri, denuncia e mettiamo i puntini sulle i su questi casi, su queste possibilità, su questi pericoli”, perché se ne parla troppo poco o vengono spesso derubricati un po’ con superficialità… e invece il momento dei social, così come il bullismo; ci sono diverse forme che possono essere molto, molto pericolose. Io ho 35 anni, è giusto che ne parli, proprio per far capire a chi magari ha meno mezzi di quanti ne posso avere io, che bisogna aver coraggio, bisogna uscire fuori, dirlo, denunciare, e per quanto la giustizia non sia esattamente il massimo, comunque è un fatto tirarlo fuori, perché fa bene.
Anche a lei ha fatto bene, perché comunque, oltre a raccontarlo agli altri, si è liberato anche lei, probabilmente, di un qualcosa che…
Assolutamente, è stato veramente un levarsi un macigno dal cuore.
Io le auguro il meglio possibile, veramente, che possa risolvere quanto prima questa situazione.
La ringrazio, però appunto, come dicevo, in parte per me è già risolta. Poi, chiaramente, la giustizia dovrà fare il suo corso, ma per quanto riguarda me e come l’ho vissuta, per me, tirarla fuori è già stato una grande cosa.
Invece volevo finire di parlare del palermitano. Per tornare a Muccino, la cosa che mi ha dato tantissimo questo personaggio, devo dire, è proprio Palermo, nel senso che è una città meravigliosa che non conoscevo, in cui ho passato tre mesi stupendi. Parlavamo prima di Los Angeles, della vita fatta chiusa nei locali; a Palermo è invece tutto all’aria aperta, è tutto per strada, è tutta confusione, e a me questo piace molto. Per il palermitano, in particolare, è stato molto bravo Muccino perché ci ha dato tre settimane di preparazione prima dell’inizio delle riprese; per me era molto importante riuscire a raggiungere un livello di palermitano decente, perché il siciliano forse è uno dei dialetti più maltrattati, nel senso che ne abbiamo sentito in tutte le forme, anche in America. Per me è stato bellissimo andare in giro a Ballarò o negli altri quartieri per parlare con i ragazzi e registrarli. Mi facevo delle serate fino alle due del mattino con i ragazzi per strada a Palermo, a volte “dichiarando” la mia identità, altre volte no, registravo le loro conversazioni, e poi quando tornavo a casa, nell’appartamento in cui stavo, sbobinavo e trascrivevo, copiavo. Quella è una parte del mio mestiere che, quando succede, è veramente stupenda, perché è studio di una cultura diversa, di persone diverse, con cui non hai a che fare normalmente; quindi, per me il palermitano e lo studio del palermitano sono state parti bellissime del mio lavoro, a cui sono molto legato. Sono molto contento di non aver ricevuto critiche, anzi, sono stato ben recepito e sono stati tutti quanti molto contenti; nessuno, tra i siciliani, ha criticato il mio palermitano, e questa è stata una delle mie più grandi soddisfazioni.
Rimanendo a Gabriele Muccino, il senso del film “Fino alla fine” è quello di cambiare la propria vita improvvisamente seguendo i nostri desideri che possono portare a volte anche al rischio; le è mai capitato nella sua carriera di prendere una strada diversa da quella prevista?
Allora, in parte ho già risposto, nel senso che, appunto, nel periodo americano io me ne sono andato non dico in malo modo, ma ho proprio fatto capire che la società americana, il modo di vivere lì, non mi piacevano e non mi appartenevano. Tutti si sarebbero aspettati, ma anche i miei genitori, che dopo aver fatto una cosa così grande me ne sarei rimasto là, in America. Era l’aspettativa di tutti. Ma con grande forza ho scelto di tornare a casa, di starmene per i fatti miei, ed è stata una scelta molto istintiva, perché a un certo punto sono proprio scappato. Lì a Los Angeles dovevo fare incontri e cose varie, ma ero arrivato al limite di quel patinato di cui parlavamo prima, e seguendo l’istinto sono tornato a Roma. Ho chiamato un mio amico del Centro sperimentale, un mio collega attore, ci siamo andati a prendere una birra, e in quel momento ho pensato che fosse un rischio, che era una scelta che non sapevo dove mi avrebbe portato. Non è stata una scelta, come dire, legata a situazione fulminea, anche se in un certo senso sì; dovevo stare a Los Angeles per fare provini e incontri e dovevo rimanerci sei mesi, ma dopo tre mesi, a metà del percorso, mi sono detto “Io qua non resisto, impazzisco, oppure mi rovino e divento una persona che non mi piacerebbe essere”. In quel momento mi sono preso il rischio di tornare a casa, e devo dire che sono molto contento di averlo fatto. Ora più che mai, anche perché il momento è abbastanza ostico, a Hollywood, per quelli che non sono attori americani; quindi, magari avrei fatto un grande investimento di vita e professionale in un posto che poi mi avrebbe forse rigettato. Chi lo sa cosa sarebbe successo se fossi rimasto lì… Però era la scelta sicuramente meno ovvia.
Nel mio piccolo, io faccio sempre così, sono un “menevadista”, mi chiamano così, nel senso che se mi trovo nella situazione in cui non reggo, una serata, una cena, una festa, ora più che mai non ho proprio paura di andarmene, di dirlo, di seguire quello che credo sia giusto per me. Anche col rischio, tante volte, di fare brutte figure, di risultare un po’ meno gentile; però seguire quello che si pensa essere la cosa che è meglio per se stessi è fondamentale. Soprattutto, appunto, in un periodo storico in cui sembra tutto un po’ scontato, in cui sembra che sia tutto stretto e sembra che la libertà di scelta sia sempre limitata, anche se in realtà non lo è. Invece, bisogna sempre ricordarsi che come uomini, come esseri umani, la nostra caratteristica fondamentale è il libero arbitrio, quindi esercitarlo il più possibile, secondo me, è sempre sintomo di sanità.

È soddisfatto della sua brillante carriera oppure esiste qualcosa che vorrebbe fare e che ancora non ha fatto?
Mai soddisfatto, nel senso che la soddisfazione la paragono al senso di sazietà a tavola: a un certo punto dici “Va bene, basta”, e invece no… io questa sensazione non ce l’ho mai. Ci metto tantissimo a godermi il lavoro che faccio, faccio fatica a rivedere i film in cui recito, magari ci metto anche due o tre anni a rivedermi, perché quello secondo me è il momento buono per capire quello che ho fatto e capire il mio percorso. Mi ritengo sicuramente molto fortunato e quindi sono contento di aver potuto fare l’attore in questi anni, ma come dicevo all’inizio dell’intervista credo molto nell’evoluzione; ho sempre fame di fare qualcosa di diverso, di esplorare luoghi in cui non mi sono trovato, luoghi fisici e non in cui mi sono ritrovato. E quindi sì, ci sono tante cose che vorrei fare, adesso sono in un momento della mia carriera particolare perché non sono né più il ragazzino che può interpretare il ventenne carino, ma non sono neanche abbastanza maturo, esteticamente vecchio, per poter fare il padre di famiglia. Poi l’Italia è un Paese abbastanza vecchiotto, in cui si è abituati a vedere la classica cosa dell’attore di 60 anni con la moglie di 25, che è una cosa che certamente esiste. Detto questo, sono in un momento di cambiamento; l’estetica ha un valore in questo mestiere, il modo in cui si è percepiti pure, e quindi adesso, avendo fatto personaggi giovani, sono alla ricerca di una maturità espressiva che è un po’ diversa. Quindi mi piacerebbe potermi cimentare sempre di più in ruoli di uomini, di personaggi che abbiano un peso specifico più alto, più pesanti, più profondi, più intensi. È quello che vorrei fare. Poi ogni volta che faccio un film, nel momento in cui lo scelgo perché mi piace il personaggio, mi piace il film, è sempre una gioia, mi sembra sempre un regalo. Non mi sono assolutamente abituato o seduto sull’idea che faccio l’attore, penso sia sempre una grande fortuna e quindi più che soddisfatto mi sento fortunato e mi piacerebbe poter continuare a esserlo.
Prossimamente in quali ruoli affascinanti lo vedremo sul grande schermo?
Sono ruoli diversissimi l’uno dall’altro, ma usciranno tre film. L’unico di cui ho certezze sull’uscita è una commedia di Davide Minnella, che uscirà a novembre. Tra l’altro, la commedia è un genere in cui mi sono cimentato poco, quindi sono molto curioso di vedere cosa verrà fuori, sia per il film che per il personaggio. Interpreto un autore televisivo di un programma, una sorta di reality tipo C’è posta per te. Mi sono molto divertito in questo film, è un lavoro molto estetico, non è un film intellettuale; il personaggio ha una posizione molto estetica, è tutto precisino con un’occhiale da vista con montatura molto grande… sono molto curioso di vedere come sarà.
Poi non so quando usciranno, ma ci sono altri due lavori. Un film, Il cileno, che ho girato l’anno scorso a dicembre ed è ambientato negli anni ‘70; io interpreto un anarchico insurrezionalista, quasi bombarolo. Non è un film con molta politica perché la storia è molto personale: il protagonista è proprio questo ragazzo cileno, da cui il titolo della pellicola. È la prima volta che faccio un film ambientato negli anni ‘70, col baffo, col dolce vita, un personaggio molto politico per quanto poi nel film non si parli di politica.
Il terzo lavoro è anche questo un personaggio di cui sono molto curioso, ed è il nuovo film di Salvatore Mereu, questo regista sardo molto interessante che ha fatto tantissimi documentari anche premiati in festival importanti. Per lui ho interpretato il ruolo di un figlio di papà. La storia del film è una favola tratta da un libro che s’intitola Alberi erranti e naufraghi. È un film molto autoriale, molto poetico, con un bellissimo cast, ad esempio c’è Aber e tanti attori molto bravi – per la seconda volta mi sono trovato a condividere la scena con Massimo Popolizio, che è un attore che stimo tantissimo. Popolizio interpreta mio padre e noi interpretiamo la famiglia cattiva. In poche parole, in questa favola ambientata negli anni ‘90, ci sono diverse famiglie, molto diverse tra loro, ognuna delle quali corrisponde a un’emozione, a un colore; noi siamo quella nera, quelli cattivi, dei ricchi e cattivi. Padre e figlio sono le anime nere di questa favola e io, oltre a essere figlio di papà, faccio parte della brigata Sassari, una branca dell’esercito che è stata importantissima in Sardegna. Sono proprio un ragazzo, un giovane uomo, reazionario, molto conservatore, molto molto rigido. Quindi su tre personaggi, uno è totalmente diverso dall’altro.
Lei è un attore camaleontico, come le ho già detto, e un attore è bravo anche in questo, cioè nel saper fare tante parti diverse.
Assolutamente, assolutamente. Infatti, sono molto curioso di vedere come saranno questi lavori. Di Komandante sono contento; è un personaggio che mi sono divertito a fare, gli altri non è che non mi sia divertito, ma è un lavoro diverso, più di concetto; quindi, adesso sono dovuto tornare un po’ a delle maschere un po’ più fisse, vediamo un po’ come uscirò.
È molto bello anche Il talento del Calabrone, lei ha fatto dei film molto belli, veramente.
Il talento del Calabrone, ad esempio, è un film in cui sono molto riconosciuto, la gente mi riconosce per strada per quel film. Sono contento, perché poi uscì all’epoca del Covid e quindi avevo una grande paura; invece, andò su Amazon e fece un grande successo. Addirittura, una volta mi è uscita da Instagram una storia fatta da un indiano su quel film!
Io sono collezionista di DVD, ho tutti i DVD dei suoi film e di quelli di Marinelli. Siete gli attori secondo me migliori in assoluto…
Per me è un complimento bellissimo perché Luca è uno degli attori più bravi, è stato molto bello avere a che fare con lui.
Anche lei colleziona DVD?
Io ho una grandissima libreria di DVD. Mi piace tantissimo avere proprio il dispositivo fisico. È come i libri, no? Così come ho la libreria con i libri, ho anche tutto lo scaffale con i miei DVD preferiti, di film appunto, dei miei film storici, cioè sia quelli che ho fatto io ma anche quelli che mi piace rivedere. E mi dispiace che, come per la musica con Spotify, sia subentrato il formato digitale.
Io sono di un’altra generazione, ma è vero che i giovani di oggi consumano tutto velocemente. La musica di adesso non so neanche bene se sia musica, non riesco a comprenderla bene, è un altro mondo rispetto al nostro.
Sono d’accordo. Il problema è che tutto si assomiglia, no? E quindi non riesci mai a capire chi è. Poi non voglio fare una critica facile, ma abbiamo visto Sanremo… Sembra ci sia la necessità di piacere a tutti in questo momento, e questo vale per l’arte in generale. Ma ciò toglie la personalità e l’interesse, non si riesce più a essere incisivi.
Speriamo di essere arrivati all’apice di questo trend. Perché a un certo punto diventerà anche a livello industriale, secondo me, perché poi sono quelle le cose che contano, i soldi che comandano, purtroppo. Secondo me non funziona questa cosa, la gente si sta un po’ stancando. Chi lo sa, poi sono le nuove generazioni che dovranno dettare un po’ le regole, con i loro gusti. La mia visione è ottimista e credo che siamo all’apice di questo torpore portato dai social e a un certo punto ci sarà bisogno di un punto di rottura. E speriamo che questo avvenga il prima possibile
La ringrazio tantissimo di questa bellissima intervista, è stato gentilissimo. Spero di conoscerla dal vivo, magari in qualche conferenza stampa, quando uscirà un suo film.
La ringrazio tanto. Grazie a lei, Francesca.
Buona giornata. È stato un piacere.
Anche per me, buona giornata.