Intervista a Cesare Bocci


di Francesca Bruni

24 Gen 2024 - Approfondimenti cinema, Approfondimenti teatro, Interviste

Abbiamo incontrato Cesare Bocci al Teatro Manzoni Pistoia e Francesca Bruni ha raccolto questa approfondita intervista in cui l’attore si racconta generosamente. In calce all’articolo potete anche ascoltare la versione audio dell’intervista stessa.

(Tutte le fotografie ci sono state fornite dagli uffici stampa o sono dell’archivio del nostro magazine)

Non servono molte parole per presentare Cesare Bocci, attore poliedrico, attualmente in tournée nei teatri italiani con ben tre spettacoli: “Il figlio” di Florian Zeller,Paul McCartney e I Beatles. Due leggende!” e Lucio Battisti. Emozioni…!”.

Gli inizi, dopo aver frequentato la scuola di recitazione di Tolentino (MC), nel 1982, con la Compagnia della Rancia, di cui è un socio fondatore.

Si trasferisce poi a Roma, mai lasciando il teatro, inizia a lavorare in televisione e al cinema.

Nel 1998, viene conosciuto dal grande pubblico italiano e internazionale interpretando il ruolo di Mimì Augello ne “Il Commissario Montalbano”, un sodalizio che dura ormai da vent’anni.

Senza entrare nei dettagli che potete leggere e ascoltare nell’intervista, basta qui ricordare qualche numero: partecipazione a 24 film, 36 serie e film TV, 8 programmi televisivi, 25 pièce teatrali e il videogioco “Blindness, Dedalomedia Interactive” (1995).

Dal 2008 è testimonial dell’ANFFAS di Macerata e collabora da cinque anni alle campagne di raccolta fondi per Save the Children.

Cesare Bocci e Daniela Scarlatti in “Parole d’Amore” (2013)

INTERVISTA

D. Sono in compagnia dell’attore Cesare Bocci, protagonista, al teatro Manzoni di Pistoia, con lo spettacolo “Il figlio”, di Florian Zeller. Come e quando nasce il Cesare Bocci attore che tutti noi apprezziamo?

R. Oh, mamma mia, tanto, tanto tempo fa. Nel 1982 ho frequentato una scuola per non professionisti a Tolentino nelle Marche diretta da Saverio Marconi, poi l’anno successivo, insieme a lui e ad altri quattro squattrinati abbiamo fondato la “Compagnia della Rancia” e da lì è partito tutto. Io vengo da un paesino di 600 abitanti, nelle Marche. Anche se tutti noi del paese, su quel piccolo teatrino che si chiamava proprio “Il Teatrino”, avevamo messo piede, perché facevamo recita in dialetto marchigiano, mai avrei pensato, poi, di guadagnarmi da vivere facendo l’attore. Però è partita lì l’avventura, e poi, dopo 8 anni con la compagnia, sono andato a Roma, e ho ricominciato da zero e da lì è andata avanti, voglio dire, non ci siamo più fermati.

D. Fin dagli inizi della tua brillante carriera hai alternato tra teatro, cinema e televisione. Che differenze ci sono nel recitare in queste tre forme artistiche?

R. Le differenze sono soltanto tecniche. A teatro magari uno deve timbrare un pochino di più la voce, deve esaltare un po’ di più i gesti, perché comunque c’è una distanza fisica che va colmata; invece, in televisione siamo a tre metri dal televisore; ci sono i primi piani e ci sono le inquadrature a piano americano; perciò, tutto aiuta affinché anche le piccole cose vengano recepite dal pubblico, dallo spettatore. La stessa cosa, anzi di più, è al cinema, dove addirittura si dovrebbe fare ancora di meno, come espressioni, perché avendo uno schermo enorme, tutto viene esaltato, tutto diventa più visibile. Si tratta soltanto di accorgimenti tecnici che uno acquisisce e poi li mette in pratica. La differenza forte la fa il testo, che sia cinema, teatro o televisione. Un bel testo fa la soddisfazione. Naturalmente ci sono tanti altri elementi: la regia, la produzione, i soldi per realizzare un progetto o meno. Poi ci sono le differenze tra il cinema e il teatro. A teatro hai un pubblico vivo davanti, mentre tu stai recitando; è una cosa particolare, perché senti che il pubblico sta respirando con le emozioni che stai creando. È una sensazione molto bella. Tanti dicono che questo è il fascino del teatro, per l’emozione dell’attore. Si, è vero, ma al cinema o in televisione, poi le troupe televisive e cinematografiche sono molto simili. Quindi lì c’è un pubblico più ristretto, saranno una cinquantina di persone, a seconda di quanti soldi si hanno, sennò son di più o addirittura di meno. Ma è un pubblico molto, molto, esigente, perché tutti i giorni i tecnici, i costumisti, i truccatori, i registi, gli aiuto registi si vedono passare davanti agli occhi attori e vedono scene in continuazione. Se tu riesci a emozionare quel pubblico lì, ti dico, è una cosa straordinaria, meravigliosa.

D. La tua popolarità ha raggiunto massimi livelli interpretando il personaggio di Mimì Augello nella celebre serie tv del “Commissario Montalbano”, tratta dai romanzi del grande scrittore Andrea Camilleri; quanto sei legato a questo personaggio ed in generale all’intera serie?

R. Tantissimo, abbiamo condiviso vent’anni, ventun anni di vita, perché abbiamo iniziato nel ‘98 e abbiamo finito nel 2020. Praticamente ventuno, ventidue anni siamo stati insieme con Mimì, e interpretarlo mi ha dato popolarità. Mi ha dato, poi, la possibilità di conoscere persone straordinarie e di mettere le basi per delle amicizie bellissime. Di scoprire una terra no, perché già la conoscevo per il teatro, per la musica, voglio dire della Sicilia, ma di frequentare una terra per tre mesi, quattro mesi l’anno o ogni due anni… È una terra straordinaria che ha una storia e una cultura bellissime, sentirsi lì era l’ideale per lavorare bene. E poi veramente è una fetta importante della mia vita, è un terzo della mia vita che ho passato con Montalbano e lì son successe tante cose; ci sono state nascite, purtroppo ci sono state morti, ci sono stati i fidanzamenti, ci sono state separazioni, matrimoni, divorzio. C’è stato tutto in mezzo voglio dire, malattie etc. e però…, è una parte della mia vita che io ho amato profondamente. Poi bisogna voltare pagina, come per tante cose, e così è stato. È stata la serie, o comunque un prodotto della Rai, il più visto in Italia sicuramente, ma anche nel mondo; prima c’era la “Piovra”, tutta la serie della “Piovra” che ha fatto dei numeri pazzeschi. Pian piano ci siamo avvicinati a quei numeri e poi li abbiamo superati. Certo, noi abbiamo avuto anche più tempo, più anni per poterlo fare, però. Ma ancora adesso non succederà che ci supereranno perché son cambiate le cose, cioè adesso c’è tanta offerta in tanti altri canali. Per la Rai quello resterà veramente, sì, qualcosa di irripetibile.

D. Parlando delle tue esperienze cinematografiche, ti ricordiamo in ruoli in film drammatici tra i quali “Il muro di gomma” del regista Marco Risi e “Giovanni Falcone” di Giuseppe Ferrara, ti hanno lasciato un segno nel tuo trascorso professionale?

R. Sì, sicuramente, interpretare questi ruoli in film che trattano di fatti realmente accaduti, ti permette, uno di conoscerli meglio ancora, quei fatti, e poi parliamo comunque di due registi importanti, di grande talento, di grande professionalità. Oltre, perciò, al film, è stata anche bella e importante l’esperienza che ho fatto con quei registi. Ma un po’ in tutte le cose che attengono alla realtà o attingono dalla realtà, in genere, si cresce molto, si ha una grandissima responsabilità, io me la sono sentita enorme, davvero, quando ho interpretato Borsellino; abbiamo parlato di Falcone, e lì, cavoli, te la senti addosso davvero questa responsabilità. Però poi se c’è un buon regista, se c’è la voglia di farlo bene, una bella sceneggiatura, le cose si portano a compimento.

D. Nel 2000 sei presente nel cast del film “Almost Blue” diretto da Alex Infascelli; cosa ricordi di quell’esperienza?

R. Ma… con Alex è stato un momento particolare. lui è veramente una mente vulcanica, è un’artista a tutto tondo. È un cavallo pazzo; è veramente un peccato che stia lavorando poco, non tutto quello che il suo talento gli permetterebbe di fare. È stata un’esperienza…, guarda, ci sono quelle esperienze brutte che ti rimangono. Questa non è tra quelle naturalmente. Perché anche dal brutto poi impari qualcosa. Brutto, nel senso che stai facendo veramente un prodotto soltanto perché devi pagare bollette a fine mese. Lì sapevamo di fare qualcosa di particolare che non si era ancora visto nel panorama italiano, con una professionalità, una tecnica, un’innovazione che solo lui in quel momento poteva fare. Ripeto, è veramente un’artista, un visionario, ecco.

D. Tra le tue innumerevoli interpretazioni hai recitato nella prima puntata della serie tv de “L’Ispettore Coliandro” del 2006, come sei stato scritturato dai Manetti Bros?

R. Con i Manetti avevamo fatto un altro lavoro, che era “Degenerazione”. Erano 10 cortometraggi horror. Con loro feci un personaggio.  Pure loro sono pazzi, son veramente una coppia pazzesca. È stata una bella esperienza, ci siamo molto divertiti. Devo dire che il set dei Manetti, oltre a essere professionale (per carità, quello ci mancherebbe, sennò non gli affiderebbero i soldi che gli affidano per fare un film), è anche molto divertente, rilassante, si sta bene. I fratelli si aiutano l’un con l’altro, poi penso che litighino pure, però, perlomeno io, non l’ho visto. Sì, è stata una bellissima esperienza anche quella. Gianpaolo, che era alle sue prime cose… ci siamo molto divertiti, molto. Una serie che ebbe un grandissimo successo e lì io facevo, mi ricordo, un magistrato corrotto, cocainomane.

D. Nella tua carriera spesso ti ritroviamo a interpretare figure istituzionali come giudici o commissari, sono ruoli in cui ti riconosci particolarmente?

R. No, io mi riconosco nei ruoli scritti bene. Poi ci sono dei ruoli che posso fare, altri che non posso fare. Forse si, un attore potrebbe fare anche tutto, ma ci vuole tempo e danaro. Abbiamo visto…, per esempio, che ci azzecca Favino con Craxi? Nulla! Però è bravissimo, è naturale; quello è dovuto alle sue grandi doti interpretative e anche di imitazione. Lui veramente riesce ad imitare, ma senza un lavoro enorme di trucco, di studio, non riesci a farlo. Ecco, solo in alcuni casi potresti riuscire a fare quasi tutto. Mi è capitato di fare, appunto, “Paolo Borsellino – Adesso tocca a me”. Lì abbiamo lavorato molto con Miccichè, con Francesco, il regista, e pur avendo davvero quattro soldi per poterlo fare, siamo partiti noi, l’abbiamo fatto senza soldi, perché i soldi che la produzione aveva dato per il film erano pochi; non è che se li tenesse, però quelli c’erano… Incominciavano ad essere utilizzati dopo il lavoro, che abbiamo fatto con Francesco, di grande studio. Ho visto tutti quanti i filmati a disposizione per poter cercare un atteggiamento suo, ho cercato di ingrassare un po’, ci siamo tagliati i capelli in una certa maniera per poter sembrare un pochino più stempiato. E sono andato alla ricerca delle lenti per scurire gli occhi, eccetera. Ho lavorato un po’ sull’accento palermitano, che è difficile, difficilissimo. La responsabilità, di cui ti parlavo prima, lì me la sentivo davvero tanto addosso e ho cercato di fare una cosa più onesta possibile, senza andare a fare i piccoli trucchetti per catturare il piacere del pubblico. Ho cercato di fare quello che il copione mi portava a fare. Una grande soddisfazione è stata che un mattino, alle 8, io m’ero appena svegliato, mi ha squillato il telefono, un numero che non conoscevo, e questa voce molto gentile mi ha detto, “…sono Rita Borsellino, io non ho mai visto, e mi sono sempre rifiutata di vedere, tutti i film che sono stati fatti, ma mi ha chiamato un mio amico e mi ha detto, ‘Rita lo devi vedere’; l’ho visto e le devo dire che se fosse viva ancora mia madre io glielo farei vedere perché lei ci ha restituito Paolo per un’ora e mezza…” È stato uno dei complimenti più belli che abbia mai ricevuto. Poi sono andata pure a trovarla con Daniela (Daniela Spada, moglie di Cesare Bocci, n.d.r). Siamo andati a Palermo a trovarla, abbiamo passato un bellissimo pomeriggio insieme. La morte di Falcone ha veramente segnato un’epoca pazzesca, ma anche in un certo senso c’è stato un grande risveglio popolare. I giovani da lì hanno capito tante altre cose. Questo non è che abbia sconfitto nulla, però, la Sicilia non è mafia, la Sicilia è fatta di un popolo straordinario che purtroppo ha, al suo interno, ma come ce l’abbiamo a Roma, come ce l’abbiamo nelle Marche, come ovunque, la mafia. Ma era famosa solo per la mafia, invece adesso ci si va per tanti altri motivi e devo dire che siamo orgogliosi che ci si vada anche per Montalbano.

D. Nel 2018 hai partecipato e hai vinto l’edizione di “Ballando con le stelle”; quanto è stato divertente ed impegnativo intercalarsi in questa nuova veste?

R. Divertente, lo rifarei domani, ma ti direi non lo rifarei domani perché è stavo faticosissimo. Lo rifarei, in realtà, anche perché, indipendentemente dal successo che ha, proprio l’esperienza che vivi è totalizzante. Ho vissuto quei 3 o 4 mesi, assolutamente per quello. Me l’aveva detto un mio amico che aveva partecipato, Capparoni, che poi l’aveva vinto. No, all’inizio dici “…vabbè, ma che m’importa”, poi, pian piano che vai avanti, non è che vai in competizione con gli amici degli spogliatoi, dei camerini, perché poi si diventa amici con tutti, ma vai in competizione con il ballerino. Soprattutto vai in competizione con te stesso, vuoi andare sempre di più e vuoi riuscire ad arrivare a fare qualcosa in più. E t’arrabbi tantissimo. E poi combatti con il tuo fisico; è che tu vai a giocare il campionato del mondo, vai a giocare veramente in una categoria che tu, non ci hai mai messo piede, i tuoi muscoli proprio non sanno che cosa sia quella roba che ti fanno fare. Io ho scoperto di avere dei muscoli perché m’hanno fatto male, ma fatto male! Per quattro mesi. Io mi son ripreso dall’epicondilite bilaterale al gomito, sei mesi dopo. Quello che uno vede lì è vero; ci stanno infortuni che capitano anche ai ballerini. Un giorno, a me, Alessandra mi è sfuggita dalle mani perché non pensavo avrebbe fatto quello che ha fatto, anche se ce lo siamo detti e, cazzo, è andata a razzo e ha dato una craniata a terra, poverina, però, certo, quella è fatta d’acciaio. Noi no, noi di ricotta. Però è stato davvero bello, bello. Poi la Carlucci è una professionista. La prima ad arrivare e l’ultima ad andare via, fantastico!

Viaggio nella grande bellezza – Cesare Bocci racconta il Quirinale (2022)

D. L’anno successivo hai condotto il programma televisivo “Viaggio nella grande bellezza”; che importanza ha secondo te la cultura nel nostro paese?

R. Beh, siamo un paese in cui dove ti giri c’è arte, c’è cultura, c’è storia, c’è architettura, e non conoscere quello che abbiamo, è la più grande stoltezza. Come vivere in un castello e non sapere le stanze che ci sono, non conoscere le stanze che ci sono per tutti noi; ma io lo dico da ignorante perché anch’io mi sono sempre rapportato con l’arte, con la cultura, non come bisognerebbe fare. Perché quando andavo a scuola… ma chi se ne fregava di quello che ti circondava, te ne rendi conto dopo. Ma anche dei pochi libri che avevo letto, te ne rendi conto dopo. Questo un po’ certamente è colpa personale, per carità, ma un po’ è anche della scuola. La scuola dovrebbe perdere, e adesso dico un’assurdità, la funzione di insegnamento, perché insegnare significa mettersi sulla cattedra e dire così è così e così.  No, dovrebbe, secondo me, avere un ruolo di coinvolgimento dei ragazzi. Tu ce li devi portare, perché riesca ad affascinarli. Ci sono dei professori, io ce l’ho avuti, e poi sono stato genitore che si è rapportato con i professori; ci sono professori, dico, che hanno una cultura immensa ma che non hanno la capacità di rapportarsi con i ragazzi. Ce ne stanno altri invece che sono dei divulgatori. Dovrebbe essere quello appunto, affascinarli. Io ho cercato di fare questo lavoro in viaggio in una grande bellezza come uno spettatore parlante, ero anch’io quello che se la vedeva. Io la vedo così. La funzione della scuola deve essere proprio quella di riuscire ad affascinare il ragazzo, non insegnargli. Ma io, guarda, ho fatto uno spettacolo, un po’ di tempo fa, “Viva Verdi”, sulla trilogia Popolare di Verdi: Traviata, Rigoletto e Trovatore. Se tu vai all’opera, per carità, resti affascinato dalla macchina della cosa ecc. ecc.; dalle voci, che tra l’altro non capisci, non capisci quello che dicono, devi aver studiato il libretto oppure ce lo devi avere. Devi essere molto preparato per andare all’opera, cosa che in questi tempi non funziona più, non è più così. Allora… feci questo spettacolo e avevo preso i testi dell’opera, naturalmente facendone una riduzione, e raccontavo queste storie che sono storie affascinanti; sono delle soap opera perché tanto sono sempre quelle, le cose, no?… i tradimenti, gli amori, amori non corrisposti, omicidi… Ce ne stanno tanti di elementi che comunque riescono ad affascinare e sono poi quelli che troviamo nei film. Allora perché non raccontarli?! Nei momenti clou partiva l’aria! Avevo questi tre cantanti bravissimi, giovanissimi, con una pianista. E quello che io ho visto!… siamo andati in tanti teatri piccolini, è stato un piccolo tour, però c’erano anche dei ragazzetti di 13, 14 anni, che venivano portati a forza dai genitori, puniti, proprio con la frusta…! A un certo punto io li guardavo e stavano poggiati alla sedia avanti per ascoltare ancora meglio. Come?… ma perché è affascinante. È cambiato tutto, non è né meglio né peggio… è cambiato. Ne parlavo ieri, abbiamo fatto un incontro con il pubblico, qui dicono… la sacralità del teatro, ma basta! Ma quale sacralità? Basta!  Se noi ancora portiamo avanti quel concetto del teatro che deve fare i classici, ma per carità che li deve fare i classici, ma deve dare spazio alla nuova drammaturgia che parla dell’attualità perché sennò i ragazzi non ci verranno mai. Mi dicevano… adesso faranno un musical tratto da “Mare fuori”, la serie; ma ben venga! L’importante è che lo facciano bene, che non facciano quelle stupidaggini, tanto per fare l’evento, per cavalcare la cosa. Per carità. Ma se fanno una bella drammaturgia, si! Io vado dappertutto… basta che mi paghino!! Si, mi diverto, mi piace fare televisione, faccio un po’ di cinema e presento una trasmissione. Ho presentato Miss Italia, ho presentato eventi al Quirinale per il 2 Giugno. Spazio… vado, faccio letture, adesso sto in giro con due spettacoli, uno su Battisti (“Lucio Battisti. Emozioni…!” n.d.r.) e uno sui Beatles (“Paul McCartney e I Beatles. Due leggende!” n.d.r.).

D. A proposito del tuo recente spettacolo teatrale “Lucio Battisti. Emozioni!”, che legame ha avuto nella tua vita la musica di questo grande genio?

R. Eh, voglio dire, per uno della mia generazione… ma ci siamo fidanzati, ci siamo sfidanzati, abbiamo riso. Ci ha accompagnato. Ieri in macchina, appunto, sentivo “Emozioni”, ma non perché ho la cassetta, da nostalgico, ma perché la stavano mandando in radio ed eravamo in viaggio per arrivare qui, a Pistoia; cioè, quella, veramente, è una musica eterna. Perché? Perché parla di emozioni e di quello che siamo; di emozioni che appartengono a tutti, nella nostra società, sia al ceto popolare che agli altri ceti, insomma, tutti proviamo l’amore, no?… le delusioni. Tutti ci emozioniamo a vedere un’alba, un tramonto, tutti, è così. E lui parla di emozioni quotidiane, con l’aiuto naturalmente di Mogol… ecco.

D. Che cosa ti piace di musica attuale, di adesso?

R. No, guarda, io ascolto tutto, un po’ tutto. Mi piace il rap, mi piace la musica lirica, mi piace la musica pop e mi piace il jazz, dipende dalla qualità delle cose che si fanno. Ce ne stanno alcuni, come la polemica che è venuta fuori sul Trap, che trattano la donna come… ecco quella lì; condivido assolutamente questa critica, ma poi vado anche a vedere certe trasmissioni televisive dove la donna viene mostrata come un oggetto ancora oggi. E allora, voglio dire, parliamo sì della musica Trap, ma parliamo anche della televisione che fa questi spettacoli di varietà mettendo le donne nude, per carità, spettacolo meraviglioso. Ma allora perché non ci si mette l’uomo!? Ecco, questo dà immediatamente l’innesco al machismo, al maschio, alla supremazia del maschio. Instilla dentro alcune persone, alcuni uomini, il senso di possesso della donna, ma è una cosa assurda, è una cosa terribile. E non si cambierà, perché purtroppo la televisione fa cultura, la musica fa cultura. Guarda se ci sono dei testi di tanti autori che noi ascoltavamo senza pensare al doppio senso, ai doppi sensi che c’erano… Ci sono stati, tra virgolette, i testi comici e ironici, ma che comunque era quello il significato. La donna veniva mercificata. Eppure, li abbiamo ascoltati negli anni. Sì, è così e non ci facevamo, purtroppo, questo genere di riflessione sopra.

D. Di attualità per gli argomenti trattati è l’opera teatrale “Il Figlio” di Florian Zeller, in programma questo fine settima al Teatro Manzoni di Pistoia, qual è il filo conduttore dell’opera e a che tipo di riflessioni invita lo spettatore?

R. Beh, allora, l’autore è un autore contemporaneo che ha fatto questa trilogia, il padre, madre e il figlio. Parla di tre situazioni dove la malattia entra in un contesto familiare. Nel padre c’era l’Alzheimer; qui noi abbiamo la depressione, disagio psicologico, anche psichiatrico, di questo ragazzo che vive l’incertezza, le paure di tanti ragazzi di questa generazione. E poi vede come la malattia cambi le dinamiche e le relazioni all’interno della famiglia, perché le cambia, in realtà, una malattia inaspettata, un disagio inaspettato. Ma anche aspettato, le cambierebbe lo stesso. Affronta, perciò, il disagio di tanti giovani di oggi, che hanno nell’affrontare la vita perché forse hanno avuto tutto quanto più comodo, non hanno dovuto lottare per raggiungere determinate cose e al contempo c’è anche l’incapacità dei genitori di riuscire a dialogare davvero con i figli, non dialogare, di ascoltare i figli; nel senso che il padre e la madre sono convinti di aver dato tutto, a questo figlio. Una frase che si dice: “…ma c’hai tutto, che ti manca, come mai stai male?” Cioè lui a un certo momento dice al padre “E” la vita, la vita è pesante…” e lui dice “Ma cosa c’è che non va nella tua vita?” Intendendoci, “guarda che bella casa… c’hai tutto.” Questo invece gli manca: la comprensione dei genitori, un aiuto concreto dei genitori; anche se un figlio ti dice “guarda, ho mal di stomaco”, lo mandi subito dal dottore; ti dice “guarda, io sto male dentro”, non ce lo mandi dallo psicologo, o perlomeno adesso sta cambiando, è un po’ sdoganata la figura dello psicologo, se no prima era vergognoso mandare un figlio dallo psicologo. Prima di tutto bisognava ammettere che ci fosse un problema e magari ammettere anche di aver sbagliato personalmente. Questo è quello che si affronta. Noi naturalmente affrontiamo un caso limite.

D. Quali sono i tuoi progetti futuri?

R. Dei progetti futuri è portare avanti questo spettacolo, “Il figlio”, fino ad aprile, poi dopo continuerò con gli altri due spettacoli, quello su Battisti e i Beatles. E poi?… Le vie del Signore, sono infinite; vediamo quello che ci si prospetta.

D. Grazie infinite per la bellissima intervista. Se vuoi fare un saluto al magazine Musicultura online…

R. Ascoltate, intanto, questi podcast e poi… Musi e Cultura… sono il sale della vita, perciò continuiamo così.

Grazie tantissimo.

A te.

Potete ascoltare qui sotto l’audio intervista:

Prima parte

Seconda parte

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