Il cigno di Romano – Giovan Battista Rubini: A Performance Study


di Andrea Zepponi

11 Ott 2021 - Approfondimenti classica, Commenti classica

Presentiamo la traduzione de Il cigno di Romano – Giovan Battista Rubini: A Performance Study, in “Donizetti Society Journal”, 4, 1980, con una documentata introduzione e un apparato iconografico con una nutrita cronologia delle performance del grande cantante e un preciso elenco del suo stupefacente repertorio.

Introduzione: il problema estetico della tecnica tenorile rubiniana.

Il brevissimo saggio Il cigno di Romano – Giovan Battista Rubini: A Performance Study, in “Donizetti Society Journal”, 4, 1980, qui tradotto dall’inglese, si configura come una succinta e perfettibile biografia del grande tenore del primo ottocento, modello principe della emissione vocale tenorile ritenuto in piena consonanza con le attese estetiche ed espressive del suo tempo, oltre che dotato di tutte le risorse tecniche della scuola di canto necessaria per interpretare Rossini e altri autori coevi.

È noto come l’uso dei registri fosse molto diverso da quello che concepiamo oggi e che il pubblico della rinata opera belcantistica sia stato indotto fin d’ora a considerare troppo spesso autentico e rispondente ad attento lavoro di recupero ciò che purtroppo non lo è affatto: parlando dei tenori e di G. B. Rubini di cui è in questione la vocalità, dobbiamo ammettere che la quasi totalità di questo tipo di voci, che stimolano i pubblici fino ad oggi, hanno ben scarsa attinenza con le caratteristiche estetiche e tecniche delle voci di primo 800 di cui i Nozzari, i David e i Rubini erano maestri e con cui determinavano le sorti espressive e drammatiche dei melodrammi rossiniani e belliniani. Il discorso è lungo e complesso, per cui, senza cadere in una sterile laudatio temporis acti, si ritiene doveroso affrontarlo anche solo al fine di sfatare alcuni miti che ci hanno accompagnato in almeno quarant’anni di filologia – o di filologismo secondo i punti di vista- la quale ha spesso privilegiato solo alcuni aspetti trascurandone altri per vari e anche giustificabili motivi. Il suddetto breve saggio, anzi, sintesi biografica sul cosiddetto Cigno di Romano, scritto nei primi anni ‘80 del secolo scorso, senza nessuna apparente attinenza con diverse voci critiche del tempo, tra cui poteva figurare anche quella autorevole di Rodolfo Celletti, tra le sue righe non fa altro che auspicare e accogliere con entusiasmo qualcosa che sarebbe dovuto succedere non soltanto nella riscoperta del repertorio di primo ottocento (l’opera seria rossiniana, alcuni melodrammi di Bellini e il primo Donizetti senza citare molti altri autori come Pacini, Fioravanti, Vaccai ecc.), ma anche, e soprattutto, in quella della emissione vocale per rimettere in discussione dal punto di vista estetico ciò che era stato imposto e accettato impropriamente per troppo tempo: l’impiego del tenore tardo ottocentesco che è costretto di cantare parti non sue o di farlo in modo parziale e fuori stile. Abbiamo ascoltato tanti tenori di quel tipo – e non facciamo nomi- eseguire le parti di Elvino della Sonnambula, di Gualtiero del Pirata che non erano adatte alla loro vocalità, se non per le loro doti meramente ugulari e di estensione, che comunque tagliavano scene con ruoli vocali impervi o ne abbassavano la tessitura, e tantomeno lo erano per lo stile vocale, durante la prima Belcanto Renaissance degli anni ‘50. La nostra prospettiva storica deve tenere conto che tali cantanti avevano sulle loro spalle gli esempi della vocalità verdiana, verista e pucciniana, mentre il nostro Rubini era al massimo depositario della tradizione settecentesca che stava evolvendo tramite Rossini verso il consolidamento di una tecnica adeguata alle notevoli difficoltà delle sue opere. Lo stile diveniva tecnica e viceversa.

Le uniche testimonianze che oggi possiamo riconnettere, a quella che poteva essere la vocalità rubiniana, sono quelle delle prove vocali del tenore Bruce Brewer (1941-2017), programmaticamente e coscientemente educato alla tecnica rubiniana (1). Solo con il successivo promettente esordio del tenore nella Gazza ladra rossiniana del 1980-81 al Rossini Opera Festival in Giannetto, si è potuto assistere a una breve quanto fortunata ripresa della vocalità tenorile osservante un canone estetico che intendeva riscoprire le risorse tecniche originarie e la resa del suono vocale esibite di fronte un pubblico abituato alle vocalità tenorili romantico-veriste, eppure consapevole di essere al centro di un momento filologico importante. Si preferì però scivolare nel filologismo in ogni campo musicale (vocale o strumentale che fosse) riscoprendo il repertorio sepolto piuttosto che ripristinare la vocalità originaria delle voci tenorili le quali avrebbero dovuto eseguire parti di opere ben note (Sonnambula, Pirata, Puritani, oltre al repertorio rossiniano) nella tonalità e tessitura effettivamente scritte dai loro autori aprendo i tagli operati dalla tendenziosa tradizione romantico-verista. Un discorso analogo si potrebbe fare per il repertorio barocco (i cosiddetti sopranisti e contraltisti gabellati per più di quarant’anni come eredi dei castrati, per esempio), ma non è questa la sede.

Per parlare con maggiore cognizione di causa, si può evocare il trattato di canto di Manuel Garcia, figlio del primo Lindoro del Barbiere rossiniano e fratello della grande Maria Malibran, che, pubblicato dal 1840 al 1847, parla ampiamente di registri vocali e per l’appunto di quel falsetto come di una delle risorse della tecnica vocale necessarie per l’esecuzione delle parti vocali del tempo. Intendersi qui è d’obbligo: per una voce tenorile intonare il registro di falsetto non ha certo il significato di imitare la voce del castrato o della voce femminile, ma semplicemente usare un’antica tecnica vocale impiegata dalle voci maschili nel canto lirico, consistente nell’amplificazione dei suoni bianchi tipici del falsetto con la stessa tecnica utilizzata per le note emesse a voce piena. Ne risultano note lucenti e voluminose, spesso acutissime, anche se di timbro diverso dalle sonorità femminili rispetto a quelle emesse a voce piena. Questa tecnica era impiegata abitualmente, almeno a partire dal la acuto, nell’esecuzione dei ruoli tenorili fino al primo Ottocento. Molti ruoli per tenore delle opere dell’epoca, in particolare di quelle scritte da Rossini, del primo Bellini e del primo Donizetti, richiedono l’emissione di note estremamente acute, la cui esecuzione era molto facilitata grazie all’uso di questa tecnica che permetteva inoltre una grande agilità. Tra gli specialisti dell’epoca spicca il nome di  Giovanni Battista Rubini, al quale Bellini giunse ad assegnare alcuni fa sovracuti (il più famoso quello che si trova nel concertato finale dei Puritani, “Credeasi, misera”).

Dovendo entrare nel merito più specifico della fisiologia, le corde vocali nell’apparato vocale di un qualsiasi cantante, queste vibrano solo nella loro parte interna e più sottile nel falsetto controtenorile, ma la vibrazione può interessare porzioni di esse molto più estese e di maggiore spessore con effetti sonori ben diversi nelle risonanze e negli armonici voluti quando il cantante intende potenziare intensità e volume. Questo avviene oggi come al tempo di Rossini in presenza di nature vocali straordinarie e dotate di una gamma elevata di potenzialità canore sviluppate nello studio e da una vasta esperienza.

Con l’avvento del Romanticismo, al posto del cosiddetto falsetto di Garcia venne opposto il termine falsettone, con accezione piuttosto dispregiativa, proprio per agevolare il discredito e accelerare la scomparsa di quella che era la tecnica ben definita del falsetto, cosa che di fatto avvenne quasi completamente, tanto che fino all’epoca moderna, note quali il do acutissimo, i successivi do♯, il re naturale e perfino il mi♭ sovracuto sono di solito emesse dai tenori ( in grado di raggiungere tali altezze) a voce piena. Già i tenori come David e lo stesso Rubini si adattavano sempre più a interpretare ruoli belliniani e donizettiani che si accostavano di più al realismo romantico.  Ai giorni nostri perfino il famoso fa sovracuto dei Puritani, che viene normalmente omesso o eseguito in falsetto (ad esempio da un Luciano Pavarotti che, per emettere quella nota, si trasforma in soprano lirico), ci sono stati tentativi di passare all’emissione a voce piena, peraltro con risultati non sempre gradevoli e comunque controversi: i famigerati suoni da “neonato frignante” tanto deprecati da certi critici radiofonici. Quelli raggiungibili a voce piena, in ogni caso, hanno un effetto del tutto diverso da quello che probabilmente si produceva fino agli inizi dell’Ottocento: l’uso del controverso falsettone riduceva infatti il carattere eroico degli acuti, ma consentiva verosimilmente al tenore un fraseggio più sottile e maggiori sfumature espressive necessarie a interpretare previste in quegli spartiti dagli stessi compositori.

Semmai il discorso va ripreso e riaperto per quanto riguarda la uniformità della voce e la flessibilità del passaggio nei diversi registri, tra cui il cosiddetto falsetto rubiniano che, sempre secondo la grande école de Garcia del 1847, per quanto il suo eloquio possa restituire la verità del tempo, doveva avvenire – “Non si cerchi di diminuire la pienezza e la forza dei suoni di petto, come pure devesi dare al falsetto tutta l’energia di cui é suscettibile. Do questo avvertimento, perché è opinione di taluni esser meglio ridurre la potenza del registro più forte alle proporzioni di quella del più debole; il che è affatto erroneo, comprovandoci l’esperienza che un simile procedere non farebbe che impoverire la voce” (2) – senza ineguaglianze improvvise e antiestetiche. Di supporto si può aggiungere, come scrive Marco Beghelli, che solo nel Garcia si possono trovare: “esemplificazioni relative alla prassi esecutiva costruite direttamente su passi noti delle opere di maggior successo (Rossini, naturalmente, in prima linea, segno ormai di una diffusione del concetto di ›repertorio‹ che mantiene in vita opere vecchie di oltre un decennio); ma altrove il distacco fra la teoria e la realtà è tale che l’evento epocale nella storia del canto lirico ottocentesco, vale a dire l’ispessimento della voce tenorile e lo sforzo di produrre gli acuti estremi con potenti risonanze cosiddette ›di petto‹, non trova nessun riscontro nei trattati di canto di quegli anni, neppure nel trattato firmato da Gilbert-Louis Duprez che pur le enciclopedie ci tramandano quale propugnatore del nuovo corso vocale (il quale anzi mette in guardia il lettore da ogni tentativo di estensione della voce ›di petto‹ verso gli acuti!).” (3)

 Riprendere l’uso originario di una vocalità tenorile “diversa” dalla pratica oggi corrente o perlomeno tentare di ricreare quella che fu la vocalità rubiniana non significherebbe soltanto meditare in modo documentato e con i dovuti riscontri incrociati sulla realtà vocale del primo ottocento rilanciando la filologia nel campo della estetica vocale, ma evocare inoltre categorie che non sono state ancora tentate se non con grande timidezza a causa delle reazioni di un pubblico ancora non abituato o prevenuto: non sarebbero così i tenori rubiniani e rossiniani quei veri eredi dei castrati tanto elogiati da Rossini stesso il quale li considerava suo primo ideale estetico di voce? – oltre a ripristinare quella tipologia di canto che permetterebbe di trovare una ricchezza maggiore tra diversi tipi di voci liriche.

Il tenore Bruce Brewer lo ha ampiamente dimostrato con risultati eccellenti che sono sotto le orecchie di tutti grazie alle sue registrazioni che girano in rete. Purtroppo non si è riscontrata una vera continuità nella lezione vocale di Brewer, se non quella, di un altro tenore, dopo la felice esperienza di Brewer che si era formato sulla tradizione belcantistica rubiniana, con alterne fortune: quel Giuseppe Morino scoperto e indirizzato in questo senso dallo storico del canto, Rodolfo Celletti, la cui brevissima apparizione sulla scena lirica ripresentò, sebbene per un breve periodo, le problematiche di quello stile di canto che ebbe ben poco seguito per motivi che si possono ben immaginare; il problema più interessante appunto si colloca sulle cause per cui vocalità come quelle di Brewer e di Morino non trovarono più continuatori né una precisa intenzione da parte di direzioni artistiche, accademie, o semplici scuole di canto odierne di renderlo oggetto di studio e di concreta applicazione nella ripresa del repertorio rossiniano e del primo ‘800.

Il presente testo, tradotto dall’inglese, riproduce succintamente una delle biografie di Giovanni Battista Rubini esaltato come “re dei tenori” e il suo merito divulgativo più rilevante nel tempo in cui fu pubblicato è quello di fornire, oltre alla esigua biografia, una ben nutrita cronologia delle performance del grande cantante e un preciso elenco del suo stupefacente repertorio. 

IL CIGNO DI ROMANO IL RE DEI TENORIGIOVAN BATTISTA RUBINI: uno studio delle prestazioni in “Donizetti Society Journal”, 4, 1980.

Giovan Battista Rubini, probabilmente il tenore più famoso dei primi dell’Ottocento, nacque da Giovan Battista Rubini e da Caterina Bergamo (4) (sic!) nel piccolo borgo agricolo vicino a Romano di Lombardia Bergamo vicino a Bergamo il 7 aprile 1794. Essendo figlio di un trombettista che iniziò a insegnargli a cantare, cantò per la prima volta in pubblico a otto anni nella chiesa della sua città natale (un assolo in una Salve Regina) e fu mandato a studiare con l’organista della vicina città di Adro. Don Santo, l’organista, rimandò a casa il giovane Giambattista dicendo che non sarebbe mai diventato un cantante. Nonostante ciò suo padre continuò ad insegnare canto al figlio e, dopo un anno, lo ripresentò a Don Santo dove Giambattista cantò per lui un Qui Tollis e Don Santo fu costretto a ritrattare la sua precedente affermazione sulle possibilità artistiche del giovane. Successivamente, il padre di Rubini continuò ad insegnare al figlio canto e violino, e Giambattista crebbe a Romano cantando in chiesa e suonando il violino nell’orchestra locale. A dodici anni, Rubini cantò il suo primo ruolo sul palcoscenico di Romano. La storia non fa sapere di quale aria si trattasse, ma ricorda che era quella di un ruolo femminile, che Rubini ebbe grandi applausi e riscosse anche molti soldi in quella occasione. Ovviamente gli anni successivi della sua adolescenza lo portarono alla muta della voce. Eppure pare che questo periodo non trascorse invano perché egli continuò a formarsi musicalmente, e a diciotto anni lo troviamo cantare nel coro e suonare nell’orchestra del Teatro Riccardi di Bergamo, dove si esibì anche in una cavatina di Lamberti (5) (1769-1814) come in intermezzo tra gli atti di un’opera.

Questo fu il suo primo successo da cui ricevette un compenso di cinque franchi. Il tenore continuerà a raccontare questa storia per tutta la vita e a cantare la stessa aria nei suoi concerti. Questo primo successo lo fece ingaggiare in quello che è generalmente considerato il suo primo vero ruolo (un secondo di mezzo carattere (6) ne Il principe di Taranto di Paër a Palazzuolo.

Non percependo tuttavia alcun vero guadagno in nessuno di questi ingaggi, e sentendo di poter affrontare il pubblico di Milano, il ventenne Rubini affrontò la grande città lombarda. La sua audizione con il direttore artistico della Scala non fu un completo fallimento (fu| proposto per il coro dato che questi disse che la sua voce era troppo piccola), ma poi fu raccomandato e assunto per una compagnia itinerante che avrebbe fatto una tournée in Piemonte. Tuttavia, la troupe tornò a metà tour, e Rubini terminò la tournée da solo – eseguendo dei recital con il violinista chiamato Madi.

Rubini iniziò ad affermare il suo nome a Pavia, poi fu chiamato a Brescia (a 1.000 lire per tre mesi), e poi al Teatro San Moisé di Venezia (per L’ITALIANA IN ALGERI con Marietta Marcolini). Domenico Barbaja, potente direttore artistico e impresario del San Carlo di Napoli, ascoltò il tenore che cominciava ad avere un certo successo al nord e gli chiese di venire a Napoli per cantare. Rubini firmò un contratto per 84 ducati al mese per un anno. Prima di partire- tornò a Romano per comunicare al padre (essendo già morta la madre) della sua decisione, e – non avendo ancora compiuto il servizio militare – per mettere a disposizione dal padre delle somme onde esentarlo dal servizio militare e ottenere il passaporto per passare dal Lombardo Veneto austriaco al Regno di Napoli. Per avere un’idea adeguata di quanto fosse difficile per un cantante fare carriera in quei giorni, bisogna evitare ogni analogia con il mondo odierno. Non c’erano mezzi moderni di trasporto e comunicazione: i teatri erano tutti illuminati da candele (nemmeno lampade a gas o olio); solo nel l832 l’Europa iniziò ad avere una ferrovia (e anche allora si sviluppò molto lentamente); pertanto era consuetudine viaggiare via terra a cavallo e in carrozza (con la diligenza).

Così dopo un lunghissimo ed estenuante viaggio in carrozza Rubini debuttò nel l8l5 a Napoli al Teatro del Fondo ne L’ITALIANA IN ALGERI di Rossini come Lindoro. Napoli si rivelò per lui una grazia del cielo perché incontrò e iniziò a studiare con il grande tenore rossiniano Andrea Nozzari (1775-1832), allievo del castrato Giuseppe Aprile. Tuttavia alla fine del contratto di Rubini Barbaja glielo avrebbe rinnovato solo per una stessa somma che era piuttosto esigua, tenendo conto che aveva usufruito dello studio con Nozzari, il che costituiva un valore ben più grande di un aumento pecuniario. Rubini accettò i termini e continuò a soggiornare a Napoli.

A Napoli, oltre a Nozzari, Rubini cantava con molti dei più grandi cantanti dell’epoca: Tamburini, Pellegrini, Lablache, Mombelli, Donzelli, Galli, Pasta, Ungher, Colbran, Meric-Lalande, Fiodor-Mainvielle etc etc. Tra le prime donne c’era una certa cantante francese di nome Adelaide Chomel (1794-1874), un nom de scéne che si tramuterà in Comelli con la quale Rubini cantava. Si innamorarono e si sposarono il 13 marzo 1821, probabilmente perché in quel momento erano in condizione finanziaria per farlo. Barbaja aveva negoziato un nuovo contratto per entrambi (aprile 1822 – marzo 1825) per Napoli e Vienna, pagando Rubini 250 ducati al mese e la Comelli 400 ducati al mese.

 Per cinque o sei anni Rubini aveva fatto coppia fissa con la Comelli anche nel canto: si era esibito molto con lei e in opere come ADELAIDE E COMINGIO e LA MORTE DI ADELAIDE entrambe di Fioravanti e – nel gennaio dell’anno del loro matrimonio – nella ADELAIDE DI BAVIERA di Carlini. La stretta associazione di Rubini con le opere che citano il nome della sua amata sembrò culminare più tardi nel 1824, quando egli incontrò Beethoven a Vienna il quale autorizzò una traduzione italiana della sua aria “Adelaide”, che Rubini avrebbe reso popolare nei suoi concerti in tutta Europa.

Mentre era ancora sotto contratto con Barbaja, a Rubini furono concessi due soggiorni fuori Napoli: Roma in l8l8 e Palermo nel 1819, entrambi i quali si risolsero in immensi successi personali per lui. Infatti, una volta a Palermo, l’impresario Giovanni Tedeschi volle tenerlo al Teatro Carolino. Barbaja non ne volle sentir parlare e fece risolvere la questione dal re Ferdinando I, re delle Due Sicilie, che decise a favore della sua permanenza a Napoli. Barbaja portò anche la coppia Rubini-Comelli a Vienna nel 1824 e nel 1828.

Rossini aveva un’influenza estremamente importante nella vita della coppia. Inizialmente aveva scelto la Comelli ingaggiata da Barbaja, e, dopo aver messo in scena il primo BARBIERE DI SIVIGLIA con Rubini a Napoli, gli chiese di seguirlo per le storiche stagioni di debutto parigine al Thêatre des Italien nel 1825-6, dove tenne la sua prima stagione come direttore artistico: Rubini vi cantò la CENERENTOLA (il debutto fu 6 ottobre 1825), LA DONNA DEL LAGO, LA GAZZA LADRA, OTELLO e il TANCREDI (tutte opere già debuttate con grande successo in Italia). Fu immediatamente proclamato “Re dei Tenori”.

Barbaja, a quanto pare, conosceva bene il suo mestiere perché, prima di Rubini nell’ambiente sensazionale di Parigi, negoziò con la coppia Comelli/Rubini un contratto congiunto (marzo 1825-aprile 1827) per la cifra ragguardevole di 40.000 franchi all’anno. L’anno 1826 fu trascorso a Parigi e parte a Napoli.

Il 30 maggio 1826, Rubini cantò al San Carlo la prima di quella che sarebbe diventata una lunga serie delle première di opere di Vincenzo Bellini: BIANCA E GERNANDO compositore che creò quattro ruoli per Rubini ed egli cantò ben presto in tutte le sue opere; il tenore divenne inoltre uno dei principali interpreti dei ruoli di Donizetti. (creando sette ruoli e cantandone altri sette). Per esempio sarebbe stato il tenore che introdusse LUCIA DI LAMMERMOOR nel mondo della musica a Parigi, Londra e Berlino.

Nel 1827 Rubini cantava ancora a Napoli, ma a marzo del tre ottobre se ne andò a cantare alla Scala (debuttò di nuovo con Rossini, LA DONNA DEL LAGO e debuttò IL PIRATA di Bellini). Dopo la stagione sensazionale avuta in quei teatri fu naturale che Barbaja prolungasse il contratto della coppia fino al 1828 e di nuovo fino al 1831. I Rubini cantarono a Napoli e Vienna ma anche a Milano alla Scala, al Teatro Cannobbiana e al Teatro Carcano: due importanti prime per Rubini durante questo periodo furono LA SONNAMBULA di Bellini e l’ANNA BOLENA di Donizetti.

Il 1831 porta la coppia per la prima volta al King’s Theatre di Londra ne IL PIRATA (26 aprile). La Comelli non fece tuttavia buona impressione e la storia ci dice che si ritirò dalle scene subito dopo. Rubini tornò invece per la stagione autunno-inverno al Têatre ltalien a Parigi, passando per Romano solo nell’aprile-maggio del 1832 e poi del periodo 1832-1841 sembra che ne trascorse metà a Parigi e l’altra metà a Londra. Il settembre del 184l lo vede collaborare con il maestro Persiani in un tour a Bruxelles, a Wiesbaden e a L’Aia.

Un uomo che amava così tanto la sua famiglia, deve aver trovato un momento per visitarla almeno una volta all’anno, anche se sembra difficile capire se si guarda il suo calendario di impegni. In ogni caso, Rubini era marito e fratello molto devoto e amorevole, prodigo di affetto, consigli, sostegno, denaro a suo padre, moglie, fratello e sorelle, cosa che farà per tutta la vita. Mentre era in tour scriveva costantemente dolci lettere a sua moglie. Inizia così una lettera del l84l dalla Spagna:

Cara Adelaide,

basta, non dubitare più, che se posso arrivare a casa non ti lascierò mai più, hai capito?”

E termina:

“… scrivimi sovente. Domani scriverò anche a Giacomo. Addio, addio mia cara Adelaide. Speriamo in Dio di rivederci presto.

Tua affettuosissimo Rubini.”

Tutte le sue lettere a sua moglie riflettono un affetto profondo e sincero privo di qualsiasi retorica che ci si potrebbe aspettare.

Dopo il suo soggiorno spagnolo (durante un momento di pesanti problemi politici in quel paese), quando tornò a casa da Romano, decise di ritirarsi definitivamente. Tuttavia, la richiesta del pubblico era tale che continuò a lasciare casa più volte: Il 1842 lo vide in un concerto di fine stagione e in un tour nelle città di provincia britanniche, dove si esibì in una speciale tournée con Franz Liszt al pianoforte (23 ottobre 1842 – 14 gennaio 1843) e poi – a Berlino – dove cantò IL PIRATA, la LUCIA DI LAMMERMOOR, l’OTELLO e il 12 febbraio 1843 eseguì un concerto per il re di Prussia con Franz Liszt al pianoforte e con Giacomo Meyerbeer alla direzione.

Da Berlino, Rubini si separò da Liszt, andò in Russia per quello che doveva essere un breve tour e subito dopo ritornò a casa sua a Romano. Tuttavia, dopo il sensazionale tour di Mosca e San Pietro, lo zar Nicola I nominò Rubini “Primo Cantante alla Corte Imperiale” chiedendogli di tornare a cantare la stagione successiva avendo scelto una compagnia italiana per l’opera imperiale italiana di San Pietroburgo e nominando Rubini direttore della compagnia.

Dopo aver formato una compagnia completa, Rubini vi ritornò ad aprire la stagione l843-44 con IL PIRATA il 25 ottobre. Nella sua compagnia, aveva incluso l’amico di una vita, il baritono Antonio Tamburini e la giovane Pauline Garcia Viardot, che interpretavano rispettivamente Ernesto e lmogene insieme al Gualtiero di Rubini in una celebre apertura di stagione al Teatro Bolshoi di San Pietroburgo. Rubini a capo della sua compagnia continuò la stagione fino ad aprile con folle deliranti della nobiltà locale che lo adorava, aggiungendo continuamente onorificenze alla sua lista. Nell’estate del 1844, Rubini tornò al clima più caldo della sua nativa Romano, solo per iniziare la stagione l844-45 a San Pietroburgo con ancora più fasto dell’anno precedente. Il l0 febbraio 1845; egli – insieme alla Viardot e Tamburini – cantò in un’opera italiana di un compositore russo, Andrei Lvoff: BIANCA E GUALTIERO. La messa in scena però dovette essere rimandata a causa dell’indisposizione non di uno solo , ma di tutto il cast e del compositore soprattutto a causa dell’inverno terribilmente duro di San Pietroburgo.

L’opera imperiale italiana di San Pietroburgo stava andando di trionfo in trionfo con Rubini. È abbastanza naturale che lo zar volesse che egli rimanesse, ma lui sentiva che, se fosse rimasto in quel clima freddo un’altra stagione, non sarebbe vissuto per godersi la sua meritata pensione.

Così, nel giugno del 1845, Rubini si ritirò finalmente a Romano, avendo accumulato la più grande fortuna di sempre per un cantante. Per Adelaide, la sua famiglia e se stesso, costruì una meravigliosa villa con meravigliosi affreschi raffiguranti lui stesso e della Comelli nel PIRATA e – nel cortile – fece mettere effigi in terracotta dei suoi amici e colleghi che tanto avevano fatto parte della sua lunga carriera (per esempio: la Malibran, Tamburini, Donizetti, Bellini, Romani, Pasta, Rossini e altri). Esiste ancora un Ginnasio Rubini (una scuola senza più fondi per essere mantenuta con gli affreschi ed effigi che avrebbero bisogno di manutenzione).

Il Teatro del Circo continuava a pregarlo di tornare a Madrid, il Teatro di Sua Maestà lo voleva a Londra e gli venne chiesto di cantare a New York. Tutte queste cose Rubini le rifiutò: declino l’offerta di New York dicendo: “È troppo lontano e troppo tardi”. Ciò detto non significava che non egli non avrebbe continuato a cantare. Cantò infatti diverse volte nella sua chiesa parrocchiale locale nell’autunno del 1845, al che si può essere sicuri che la gente fece un viaggio da Milano a Bergamo per ascoltare il famoso tenore. Nel 1846, cantò in onore dell’Imperatrice di Russia un recital congiunto con suo fratello tenore Giacomo (1791-1876) che era stato “Tenore di Camera e cappella di SM il Re di Baviera” a Monaco, poi andato a cantare a New York e Cuba di cui almeno due suoi ritratti sono erroneamente attribuiti a Giovan Battista.

Nell’autunno del l847, Rubini visitò Donizetti morente a Bergamo e cantò il duetto “Verranno a te sull’aure” dalla LUCIA DI LAMMERMOOR con l’amica del compositore Giovannina Basoni. Donizetti, paralizzato e irrimediabilmente devastato dal suo male, purtroppo non diede segno di ricordare questo bellissimo duetto d’amore dalla sua opera immortale.

Per i quattro anni successivi, Rubini (sulla cinquantina) poté dedicare infine del tempo a se stesso e pur pubblicando le sue DODICI LEZIONI DI CANTO MODERNO PER TENORE O SOPRANO per insegnare la sua visione del canto, iniziò a godersi il suo ritiro con la famiglia.

L’ultima volta che cantò in pubblico fu in alcuni concerti a Venezia per lo Zarevich di Russia e uomini della nobiltà nel febbraio e marzo del 1852, con Giovanni Battista Velluti – l’ultimo dei castrati che ancora cantava in scena – e Filippo Coletti – famoso baritono creatore di molti ruoli donizettiani. Tra l’altro il programma conteneva arie da ROBERTO DEVEREUX, I BRIGANTI (7) e IL PIRATA cantate da Rubini. Fu senza dubbio un grande onore per lui e il 4 marzo scrisse ad Adelaide da Venezia dicendo:

“Amerei meglio pranzare con te e la Cecchina, abbenché siate due veri castighi, alzandovi ogni minuto secondo, basta, dirò come diceva Masaniello: son castighi anche gli onori.”

E continuando oltre:

Per dirti la pura e santa verità mi è riuscita di cantare l’aria del Pirata come la cantavo in teatro; dunque di tutto questo sia lode al Signore che mi ha concesso la grazia di star bene e di essere bene in voce.”

Rubini tornò a Romano alla fine di marzo del 1852 dopo essere stato insignito di medaglie, onorificenze e titoli, per poi ammalarsi gravemente ed entrare in ospedale. La sera del 3 marzo 1854, Giovan Battista Rubini muore, lasciando la moglie Adelaide (che vivrà altri vent’anni), il fratello Giacomo e le due sorelle Francesca ed Ester. Francesca (che era nubile e aveva sempre vissuto nella casa del fratello) ed Ester (che si era sposata, ma era sempre stata vicina a Giambattista) morirono il l6 marzo e il 21 marzo l854, lo stesso mese e anno dopo la morte del fratello. Rubini aveva donato al piccolo villaggio di Romano un orfanotrofio, una scuola ecc., ma soprattutto aveva dato a Romano “un figlio famoso”.

Così termina la storia del “Cigno di Romano” e del “Re dei Tenori”.

(traduzione di Andrea Zepponi da: “Il cigno di Romano – Giovan Battista Rubini: A Performance Study, in Donizetti Society Journal”, 4, 1980”).

[All’articolo segue una fornitissima cronologia della carriera lirica di Giovanni Battista Rubini, una sua effigie e l’elenco di tutto il suo repertorio. Più sotto riproduciamo il tutto nel materiale fotografico.]

NOTE

(1) A. ZEPPONI, Da Virginia Colombati a Bruce Brewer e Intervista con Eric Plantive in Virginia Colombati maestra di belcanto Marsilio Editori, 2021, Venezia, pagg. 321-346.

(2) Garcia Manuel, Trattato completo dell’arte del canto (scuola di Garcia), Edizioni Ricordi, 1842, Milano, Capitolo VI, pag. 12.

(3) M. Beghelli: “I trattati di canto. Una novità del Primo Ottocento” in. Schriftenreihe Analecta musicologica. Veröffentlichungen der Musikgeschichtlichen Abteilung des Deutschen Historischen Instituts in Rom Band 50 (2013) Herausgegeben vom Deutschen Historischen Institut Rom) Copyright. Das Digitalisat wird Ihnen von perspectivia.net, der Online-Publikationsplattform der Max Weber Stiftung – Deutsche Geisteswissenschaftliche Institute im Ausland, zur Verfügung gestellt. Bitte beachten Sie, dass das Digitalisat der Creative- Commons-Lizenz Namensnennung-Keine kommerzielle Nutzung-Keine Bearbeitung (CC BY-NC-ND 4.0) unterliegt. Erlaubt ist aber das Lesen, das Ausdrucken des Textes, das Herunterladen, das Speichern der Daten auf einem eigenen Datenträger soweit die vorgenannten Handlungen ausschließlich zu privaten und nicht-kommerziellen Zwecken erfolgen. Den Text der Lizenz erreichen Sie hier: https://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/4.0/legalcode.  Pagg. 129-130.

(4) Il cognome attestato della madre era Bergomi.

(5) Non altrimenti conosciuto.

(6) Si trattò probabilmente della parte del Don Sesto del Ravanello.

(7) Opera in tre atti di Saverio Mercadante (1836).

MATERIALE FOTOGRAFICO: cronologia della carriera lirica di Giovanni Battista Rubini, una sua effigie e l’elenco di tutto il suo repertorio.

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