“Per Cecco!” di Enzo Cucchi ad Ascoli Piceno


di Flavia Orsati

15 Feb 2024 - Arti Visive

La Mostra di Enzo Cucchi dedicata a Cecco d’Ascoli “Per Cecco!”, promossa da Civiltà Picena e a cura di Spazio Taverna, è allestita al Forte Malatesta di Ascoli Piceno e sarà visitabile fino al 31 maggio. Flavia Orsati l’ha visitata per noi e ce ne parla.

(Le foto delle installazioni e delle opere esposte sono di Omar Golli; Credits Galleria Giustini – Stagetti, Roma)

O voi ch’avete gli intelletti sani,
mirate la dottrina che s’asconde
sotto il velame degli versi strani.
D. Alighieri, Canto IX, Inferno

I caratteristici spazi del Forte Malatesta di Ascoli Piceno ospitano, dal 28 gennaio fino al 31 maggio 2024, l’esposizione Per Cecco! dell’artista marchigiano Enzo Cucchi. La mostra è promossa da Civiltà Picena e a cura di Spazio Taverna.

La personale si configura come una riflessione su di una delle figure più iconiche non solo di Ascoli, ma di tutto il Piceno: quella del filosofo, poeta, insegnante, astronomo e alchimista Cecco d’Ascoli, al secolo Francesco Stabili, l’antidante trecentesco, arso sul rogo a Firenze per le sue idee nel 1327. Parallelamente, assume ruolo attivo nell’esposizione il luogo che la ospita, il Forte Malatesta, divenendo molto più di un mero contenitore o sfondo: il lavoro di Cucchi è concepito appositamente per far emergere l’essenza di questo ambiente dalle molte anime, che nasce come fortezza militare, per poi diventare edificio di culto e quindi carcere. Solo in tempi recenti, la struttura è stata convertita a polo museale e culturale. Il cuore della mostra è nella suggestiva sala della Madonna del Lago, progettata ad hoc ed ispirata al genius loci ascolano.

La mostra non è, spazialmente, estesa, ma condensa una serie di significati davvero rilevanti. Cucchi, come storico esponente della Transavanguardia, movimento artistico nato in Italia negli anni Ottanta e sostenuto dal famoso critico e teorico Achille Bonito Oliva, mirava ad un sovversivo ritorno alla tradizione. Una rivoluzione, insomma, ma silenziosa, nutrita più di atti che di slogan, in linea con quello che, probabilmente, avrebbe voluto uno spirito libero con un carattere fortemente volitivo come Cecco.

Nel concepire l’installazione ascolana, l’artista attinge a piene mani dalla tradizione rurale e agreste marchigiana che lo ha visto nascere, con la concezione che l’arte sia una ancella philosophiae, come lo era la poesia per il poeta trecentesco: Cucchi vuole, infatti, arrivare dritto al cuore del fruitore ma anche indurre al ragionamento e alla riflessione sulla natura del luogo che si sta attraversando e sulla sua ontologia. L’anima del Piceno è, del resto, da sempre divisa fra due mondi, molto diversa da altre località marchigiane. A cavallo tra l’abbraccio dei Monti Sibillini, secondo la tradizione tanto cari a Cecco d’Ascoli, e con lo sguardo proteso verso l’orizzonte della costa adriatica, chi si trovi a visitare queste terre, come ha fatto Cucchi, attraverserà spazi millenari, dove la memoria ancestrale, i miti e le leggende sono più reali della storia stessa e costituiscono il vero sostrato immateriale su cui si sono sviluppate e su cui, ancora oggi, si sorreggono civiltà e cultura locale. Un’anima che si consustanzia di vita e di morte, di alto e basso, come l’artista ben sa: nella sua opera torna sovente il motivo dello scheletro come pura immagine spirituale, quale ponte tra visibile ed invisibile, così come tornano spesso i monti, allegoria di anabasi e consequenziale catabasi.

L’effetto che la mostra vuole ottenere è straniante: dopo una prima parte dedicata a Cecco e all’immaginario generico di Cucchi, si entra nel vivo con due installazioni differenti. La prima, al centro della sala della Madonna del Lago, è costituita da un cerchio metallico che circonda l’imponente colonna centrale, sul quale sono poggiate opere in ceramica, mentre la seconda si situa sulla sinistra, con piccoli dipinti. Il visitatore potrà gettare uno sguardo d’insieme dall’entrata della stanza ma, una volta avvicinatosi ai dipinti, si troverà a volgere le spalle alla colonna, riservando alle opere pittoriche tutta la sua concentrazione. Non ci sono ciance nell’arte di Cucchi: la poesia è diretta e visionaria, non impreziosita da orpelli retorici, si palesa al visitatore in tutta la sua crudezza saturnina, come se fosse l’arte stessa a guardare e guidare il visitatore – e non il contrario. In questo processo in cui le parti si invertono, le opere si caricano di un inedito potenziale energetico, raccogliendo ed accogliendo tutte le vibrazioni che vi entrano a contatto e restituendo, di volta in volta, un’immagine differente, che paleserà una diversa relazione con lo spazio e con il tempo, fino ad arrivare all’essenza originaria. Del resto, come scriveva già Achille Bonito Oliva, “Cucchi pratica l’errore come errare”: l’arte è il mezzo per far fluttuare i segni in un flusso ininterrotto, per renderli leggeri e privi di materia, provocando un senso di inaderenza al reale e cancellando i comuni dettami della logica. Ciò avviene, nell’esposizione ascolana, nel cerchio metallico con appoggiati, come se galleggiassero, gli inserti in ceramica, quali emanazione dello spazio circostante: in una sequenza uroborica, si susseguono, uno dopo l’altro e senza soluzione di continuità, gli archetipi piceni: la morte e il germogliare, le abitazioni e le campane, la levità cinestetica di uccelli e farfalle. Queste immagini sono collegate, spazialmente ed idealmente, ad alcuni residui di anelli che rimangono sulla colonna del Forte, dove venivano incatenati i carcerati. Un residuo energetico, una traccia mnestica che, fecondamente, tramite l’arte, si riattiva. La tragicità dell’esistenza si unisce, allora, con la leggerezza, il mondo sacro degli edifici di culto con quello profano delle campagne, il suono delle campane con i canti di tradizioni secolari mai eradicate e ancora vive nell’immaginario collettivo; una vita ormai lontana che l’artista percepisce, in cui l’immaginario mortifero è padrone e permea qualsiasi aspetto dell’esistenza, essendo la morte vista non come tragica rottura ma come un cambiamento, un trapasso, seppur doloroso, di dimensione. Mondo ed extramondo, dunque, si incontrano ed acquisiscono sostanza nel processo artistico, in simbiosi tra levità e gravità, i cui simboli diventano reificati e più effettivi del reale.

I riferimenti, in Cucchi, sono sì al reale fenomenico, conosciuto ma non descritto, sganciati da qualsiasi legge cromatica o gravitazionale. Ecco che la verità è, allora, solo quella interiore che l’Io, padrone di tutta la sua libertà creativa e senza più vincoli, sente di ricomporre e ricreare, a partire dalla destrutturazione fenomenica, sconfinando nel campo dell’onirico e dell’inconscio collettivo. Sembra dirci, l’artista, che la conoscenza non abbia bisogno della vista, e che un qualcosa lo si può conoscere anche tramite lo sguardo interiore, attivando spirito e memoria. Un mondo criptico, acerbo, come criptico e acerbo è stato il linguaggio di Cecco d’Ascoli. Un modo di esprimersi, di condurre la propria esistenza e di fare arte diretto, che la società – di ogni epoca – è restia a perdonare. Entrambi, a distanza di secoli, ci dimostrano, tuttavia, che il disincanto può essere anche onirico, e che la realtà è molto più ricca di corrispondenze di quanto ci si immagini, purché non ci si lasci fuorviare da fabule astruse, carenti di significato, a prescindere dal medium espressivo: “La poesia e la pittura sono identiche; il problema è stranamente lo stesso: è una questione di iconografia, di immagine del mondo. Si tratta di fermare l’immagine e di farne istantaneamente la sintesi, in qualunque maniera”, scrive lo stesso Cucchi.

Recentemente, ha fatto discutere ad Ascoli Piceno una frase pubblicata sui canali social di Ascoli Musei e attribuita al Maestro Cucchi, che recita così: “Le mostre devono essere assolutamente il contrario di una rivoluzione, devono essere calme, far riposare”. Del resto, la vera rivoluzione, quella interiore, la si fa proprio con la calma, con l’adamantina lucidità che l’esterno non può più corrompere. E solo allora si può parlare di equanimità, di serena imparzialità che fa addentrare a pieno nei segreti delle cose, una volta che si sia palesata la loro essenza. L’arte contribuisce a questo rogo salvifico, ma lo fa nell’imperturbabilità cogitativa del silenzio.

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