Pasolini polemista – “Io dunque strido come aquila solitaria”


di Flavia Orsati

3 Giu 2022 - Letteratura

Continuiamo, come promesso, in occasione del centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini, gli interventi sulla sua figura. Dopo l’intervento di Alberto Pellegrino su Pasolini, la fotografia e il fumetto e la presentazione della Mostra bolognese, è la volta di Flavia Orsati, che illustra il Pasolini polemista di “Scritti Corsari”.

Io so perché sono un intellettuale,
uno scrittore, che cerca di seguire
tutto ciò che succede, di conoscere
tutto ciò che se ne scrive, di
immaginare tutto ciò che non si sa
o che si tace; che coordina fatti
anche lontani, che mette insieme i
pezzi disorganizzati e frammentari
di un intero coerente quadro
politico, che ristabilisce la logica
là dove sembrano regnare
l’arbitrarietà, la follia e il mistero.
“Che cos’è questo golpe?”,
dal “Corriere della Sera”

Prima di cominciare occorre una premesse di metodo. Gli Scritti Corsari pasoliniani sono una raccolta di testi redatti nella prima metà degli anni Settanta, per la precisione tra 1973 e 1975, e, in virtù di ciò, rappresentando una sorta di summa estrema, per certi versi vitalmente disperata, del pensiero maturo di Pier Paolo Pasolini.

In questa raccolta vengono toccati temi di attualità dell’allora nascente, ma pronta ad avviarsi, società dei consumi. Tutti sanno che il consumismo, l’edonismo di massa e l’apparente libertarismo erano visti da Pasolini come un “nuovo fascismo”, senza sconti su temi allora in voga e scottanti come divorzio, aborto, omosessualità.

Pasolini aleggia sopra la società, facendone parte ma estraniandosene al contempo, stagliandosi in tutta la sua solitudine di analista, crudo e sincero, che guarda disincantato il disfacimento della società a lui contemporanea. Gli oggetti supremi della polemica pasoliniana sembrano essere quelli costitutivi del nostro mondo: dall’edonismo alla falsa tolleranza, fino all’afasia giovanile, cioè l’incapacità dei giovani di parlare e di esprimersi efficacemente, ritagliandosi grazie al logos un posto nel mondo ed essendo presenza. Terribilmente attuale.

Quella pasoliniana è l’angoscia di un uomo che ha visto tramontare un mondo da lui percepito come il solo vero e autentico, conscio del fatto che esso è destinato non solo a non tornare più, ma a non proporre alternative a misura d’uomo ai suoi abitanti. In virtù di ciò, Pasolini è un uomo antico e moderno: rappresenta quella figura di intellettuale priva di intellettualismo, che parla alla massa e si fa portavoce di una cultura organica, connubio di sapere umanistico e scientifico, ponendosi addirittura come uno dei principali critici del progresso e come precursore, secondo alcuni, del concetto di decrescita felice.

Come si diceva, la bestia nera di Pasolini è il radicale cambiamento antropologico degli italiani dovuto all’omologazione culturale, appoggiato e foraggiato dal potere, compreso quello spirituale. L’intellettuale anticipa almeno di quarant’anni ciò che sarebbe poi successo in Italia e nel mondo: egli capisce come siano scomparse tutte le differenze di classe, come tutte le categorie sociali siano state uniformate. Questo clima culturale, sebbene sia caratterizzato da un’assenza di violenza fisica, è, secondo Pasolini, più terribile delle atrocità del fascismo, in quanto non obbliga a niente ma penetra nell’intimo della coscienza di ciascuno imponendosi, tramite il suo impressionante autoritarismo, persino nella cosa più intima e vitale che l’uomo ha: i propri desideri.

Occorre essere attenti a non banalizzare il pensiero pasoliniano: in lui non serpeggia un rimpianto per le condizioni del passato, ma c’è la nostalgia di un momento storico in cui l’omologazione culturale era ancora qualcosa da venire. Vede perciò la storia umana muoversi secondo un moto anabasico, e se ne fa interprete: se la condizione contemporanea spinge verso il basso, Pasolini stesso si cala nell’oscurità, cercando una discesa anche fisica in luoghi in cui il consumismo non arriva, come le borgate romane. Egli è alla costante ricerca di luoghi in cui il processo di omologazione non sia compiuto, ricercando una cultura autonoma scevra dall’imposizione della società di massa. In Pasolini è forte una distinzione dagli echi leopardiani: quella tra progresso, che prescinde dalla crescita economica, e sviluppo, che, in ultima analisi, coincide con il progresso meramente economico. Il modello consumistico viene visto quindi come privo di dignità culturale.

Dell’ultimo Pasolini si ricorda spesso il lato polemista, rivoluzionario e reazionario al contempo, collegato alle sue affermazioni “scandalose”. In realtà, come spesso accade ai grandi, egli è stato un precursore del nostro presente, in grado di fiutare nell’aria dei suoi anni un cambiamento ancora aurorale che si sarebbe, ben presto, palesato nella sua potenza distruttiva. Berardinelli evidenzia che “[…] per Pasolini i concetti sociologici e politici diventano evidenze fisiche, miti e storie della fine del mondo”. La sua insistenza sul tema dell’omologazione culturale, ai limiti dell’ossessione, preludeva all’avvento di un nuovo mondo, privo di identità. Un contenitore vuoto, insomma, da riempire a piacimento, a seconda dei capricci e delle preferenze dei potenti di turno. La desacralizzazione, secondo il nostro, investe tutto il reale e la critica muove, per questo motivo, dall’esterno verso l’interno: l’esteriorità, l’aspetto, è spia di un contenuto intimo che, con l’appiattimento delle masse alla stregua di consumatori, viene meno. Per questo motivo, un contadino o un borghese, un ragazzo di destra o di sinistra risultano totalmente uguali nella società consumistica. L’attacco feroce di Pasolini non risparmia il corpo: si va dalla famosa critica ai “capelloni” del ‘73, indagati con lo sguardo del semiologo, all’analisi linguistica del “folle slogan dei jeans Jesus”. Proprio nell’ultimo articolo citato, si insinua la polemica contro la lingua tecnica che prende il posto del modo di esprimersi complesso e arioso tipico dell’Umanesimo, sostituendolo con stilemi vuoti, inespressivi e totalmente volti alla realizzazione di uno sterile fine pratico. Il mondo è quindi ridotto, secondo la percezione pasoliniana, all’apoditticità dello slogan, alla quale anche la Chiesa e l’Università si sono inevitabilmente piegate.

Un simile mondo appare, a un uomo come Pasolini, che ha fatto esperienza del mito e del sacro, che ha sperimentato le lucciole e la loro scomparsa, un mondo di morte totalmente negativo. La visione apocalittica si consustanzia in assunti simili: “l’amore per il mondo che è stato vissuto e sperimentato impedisce di poter pensare a un altro che sia altrettanto reale, che si possano creare altri valori analoghi a quelli che hanno resa preziosa una esistenza”. La colpevolezza di aver causato la fine del mondo non risparmia le gerarchie cattoliche e la Chiesa come istituzione, accusata di essere venuta a patti niente meno che con il diavolo, cioè ciò che dovrebbe essere il suo esatto contrario: lo stato borghese.

Ciò che causa dolore, dunque, è la fine del cosmo umanistico, senza che venga sostituito da nessun altro modello culturale propriamente detto: un tramonto di un sole splendente senza possibilità di una nuova alba. Così, il centralismo della civiltà dei consumi è riuscito dove il centralismo del regime fascista aveva fallito: l’adesione ai modelli culturali propinati dall’alto è totale e volontaria, investe ogni ambito della vita, dal corpo alla spiritualità, dal sesso all’ansia di consumo. Propria di Pasolini è la capacità innata e mai scontata di leggere i codici culturali che scaturiscono dal nuovo Potere, entità che aleggia minacciosa sopra tutto lo stivale, non risparmiando niente e nessuno, dalla capitale ai piccoli centri, dal nord al sud, omologando la popolazione a un unico modello, di cui il consumatore puro e perfetto rappresenta l’extrema ratio, il punto di approdo finale. Con uno sfondo del genere, la disperazione che ammanta l’intellettuale è totale, trovandosi impotente di fronte a un cambio epocale, non più coscienza critica delle folle ma delle stesse considerato un millantatore, deriso e inascoltato. Molti intellettuali della sua epoca (non ultimo Italo Calvino) lo accusarono, non comprendendo a pieno la disperata vitalità dei suoi ragionamenti, di rimpiangere l’ “Italietta”, che invece per Pasolini è un’aberrazione, in quanto borghese, fascista, democristiana. Quale allora la soluzione? Vivere stoicamente in un mondo dove l’intellettuale non è più accettato, perché “si sa che la verità, una volta detta, è incancellabile”.

Con il senno del poi, il pessimismo pasoliniano si rivela profetico. In lui si annulla qualsiasi tensione soteriologica, specie a partire dagli anni Settanta: resta solo un nero baratro verso il quale la società, inconsapevolmente, adescato dai consumi e dal mito del falso benessere, stava per buttarsi.

Per Pasolini è normale collegare fatti tra loro lontani e apparentemente scollegati, ricostruire i tasselli di un mosaico che non sembrano combaciare, collegare cause ed effetti contrari; può farlo in virtù della sua appartenenza a una classe sociale che da sempre si sobbarca su di sé il peso della verità: quella intellettuale.

Il sentimento irrazionale della sacralità della vita lo spinge a scagliarsi contro l’aborto, andando contro le posizioni allora in voga nella sua fazione politica.

Il mondo per Pasolini si divide tra “prima della scomparsa delle lucciole” e “dopo lo scomparsa delle lucciole”: una dolorosa crasi tra i cui estremi si è aperto un breve diaframma di transizione che tiene le due polarità ben distinte in una dicotomia al limite del manicheo. Un mondo ancora luminoso, caratterizzato da un complesso valoriale che diveniva cifra identitaria e quindi peculiare della nazione e della classe di appartenenza, l’Italia agricola e paleoindustriale, e un mondo privo di luce, che segna non solo un tempo nuovo, ma l’avvio di una vera e propria nuova era della storia umana. Questa convinzione porta Pasolini ad affermazioni autenticamente provocatorie, contraddittorie agli occhi di un lettore poco attento. Una di queste è la famosa “che paese meraviglioso era l’Italia durante il periodo del fascismo e subito dopo!”: nel ricordare l’autenticità della vita prima della società dei consumi, il nostro rivolge accorate parole a questo mondo, ormai assimilabile alla sfera del mito, di un passato che non tornerà più. Lo sconvolgimento, esteriore ed interiore, è quindi totale. La necessità è prendere atto che un mondo che sembrava immobile ed eterno è terminato, lasciando il passo alla disumanizzazione del reale, che solo le parole di Pasolini sono in grado di rendere: “Ciò che ci sconvolge non è la difficoltà di adattarsi a un nuovo tempo, ma un immedicabile dolore simile a quello che dovevano provare le madri vedendo partire i loro figli emigranti e sapendo che non li avrebbero visti mai più. La realtà lancia su noi uno sguardo di vittoria, intollerabile: il verdetto è che ciò che si è amato ci è tolto per sempre”.

Un reazionario rivoluzionario, che porta in sé il dolore e la sofferente contraddizione dei veri intellettuali.

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One response

  1. Giovanni ha detto:

    “…la lingua tecnica che prende il posto del modo di esprimersi complesso e arioso tipico dell’Umanesimo, sostituendolo con stilemi vuoti, inespressivi e totalmente volti alla realizzazione di uno sterile fine pratico”. 
    Quanta verità in queste parole! Grazie

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