“LA MOSTRA” di Enzo Cucchi a Castelbasso


di Flavia Orsati

16 Ago 2023 - Arti Visive

Report della mostra su Enzo Cucchi allestita nel piccolo borgo abruzzese di Castelbasso, a palazzo De Sanctis, grazie alla Fondazione Malvina Menegaz per le Arti e le Culture, presieduta da Osvaldo Menegaz.

Bisogna galleggiare
dentro la realtà come animali,
come cani sciolti, come clandestini,
cercare di spingere il segno in attimi 
di energia concentrata.
E. Cucchi

Castelbasso, piccolo borgo abruzzese della provincia di Teramo, si anima ogni estate grazie alla cultura e all’arte, in particolar modo grazie all’attività della Fondazione Malvina Menegaz per le Arti e le Culture, presieduta da Osvaldo Menegaz, che quest’anno ha deciso di compiere un omaggio ad uno dei maestri della Transavanguardia italiana, Enzo Cucchi, dedicandogli una mostra negli spazi di palazzo De Sanctis, dal titolo Enzo Cucchi. La mostra, a cura di Ilaria Bernardi.

La mostra, inaugurata il 23 luglio scorso ed aperta fino al prossimo 27 agosto, si propone di indagare soprattutto l’ultimo decennio di attività artistica di Cucchi, periodo finora poco conosciuto al pubblico, intessendo un dialogo a distanza con la grande personale attualmente presente al MAXXI di Roma (che visiteremo e racconteremo, n.d.r.).

Il segno parrebbe essere la costante atta a legare e tenere concettualmente insieme i tre piani in cui il percorso espositivo si snoda: la progressione del fruitore in questa foresta di segni, oltre che del contatto visivo diretto con le opere, si nutre della riflessione sulla loro genesi e gestazione, anche con l’ausilio delle nuove tecnologie, coerentemente alla tendenza ad ibridare i linguaggi, da sempre propria dell’artista marchigiano. Tra Cucchi passo a uno (2012), video realizzato in stop-motion, prodotto e animato con la tecnica della claymotion su direzione di Maurizio Finotto e realizzato in collaborazione con gli studenti dell’Accademia di Belle Arti di Bologna, e Cuccchi (2021), videogioco che riproduce digitalmente l’archivio dell’artista, creando ambientazioni strutturate in dieci livelli a partire dalle opere di Cucchi stesso, realizzato da Alessandro Cucchi, Juliàn Palacios e Fantastico Studio, ci si ritrova catapultati in un universo segnico, e si scandagliano tematiche onnipresenti nella produzione dell’artista.

Nelle opere di Cucchi, infatti, circa 50 tra disegni, dipinti e sculture, realizzate tra 1978 e 2023, il simbolo regna sovrano: ogni segno rimanda ad altro, è fitto di corrispondenze, e si fa contraltare e metafora di qualcosa di più ampio, invitando a considerare il reale nel suo insieme. Un mondo onirico, quello dell’artista originario di Morro d’Alba, che tanto ha saputo cogliere dell’atmosfera della sua regione nativa, dove paesaggio e morte si fondono costantemente, imprimendo nella natura una moltitudine infinita di enigmi metafisici. Nel mondo di Cucchi, infatti, storia e leggenda si incontrano, così come i ricordi personali sfumano in quelli più ampi e intricati della memoria collettiva, ricreando un mondo poetico espresso tramite le immagini. L’arte, del resto, per Cucchi è punto mediano tra mito e realtà, momento dialettico luminale in cui il segno, non mera creazione umana, ma desunta dal paesaggio, si palesa, portando alla luce valenze archetipiche profonde ed universali, che aspettano solo di essere dissepolte, traghettate a nuova vita, ad ammiccare agli sguardi dei passanti in un mondo oramai privo dell’adeguata capacità ermeneutica per comprenderle. Questo processo, tuttavia, nell’arte di Cucchi, e gli ultimi dieci anni di attività esposti in mostra lo confermano, non è meramente intellettuale o gnoseologico, ma mantiene un forte legame con l’essere, con i suoi scheletri e i suoi mostri, ma anche le sue creature, i suoi animali.

La visione del mondo non è certamente idilliaca: è Cucchi stesso a dichiarare che l’arte ha bisogno di segni, non sogni: un universo duro per certi versi, ma che si fregia del merito di ricordare agli artisti contemporanei che l’importante è fare. Fare arte. Esprimere il segno, al di là di qualsiasi costruzione filosofeggiante, perché il segno è così potente che riesce a parlare da solo, a comunicare da sé, condensando nella sua cratofanica manifestazione tutta l’energia, fisica e psichica, di cui abbisogna per essere tale, senza la zavorra di orpelli manieristici o retorici che, anzi, andrebbero a diminuirne la portata. Ancora una volta: occorrono segni, non sogni.

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