Keith Jarrett senza bis


Manuel Caprari

14 Lug 2005 - Commenti live!

Macerata. Sabato nove luglio, concerto del Keith Jarrett trio allo sferisterio di Macerata. Ha piovuto tutto il giorno. Non so il resto del pubblico, ma io non posso fare a meno di sbirciare in continuazione il cielo per controllare la situazione. Nuvoloni minacciosi all'orizzonte che vengono gradualmente spazzati via da provvidenziali folate di vento, presto rimpiazzati da altri nuvoloni parimenti minacciosi. Lo sferisterio è pieno per tre quarti, forse più. Mi aspettavo il tutto esaurito, però in effetti mi fanno notare che per un concerto di un musicista comunque difficile come Keith Jarrett tre quarti abbondanti di Sferisterio è un bel po' di gente. Alla seconda campanella, ma anche un po' a partire dalla prima, c'è la migrazione in massa dai posti laterali per accaparrarsi i centrali rimasti invenduti. L'importante, avverte la maschera, è che alla terza campanella si sia tutti ben disciplinati e silenziosi nei ranghi, perchè Jarrett è puntualissimo e molto, molto esigente. Io non l'ho mai visto dal vivo, ma so che le sue intemperanze sconfinano nel leggendario: si vocifera di un concerto interrotto perchè uno spettatore seduto in prima fila non la smetteva più di tossicchiare. Io non ci credo. Però serve a rendere l'idea.
Prima del concerto esce un ragazzo (appartenente allo staff dei musicisti, suppongo) che ci avverte: niente foto, per favore; i musicisti hanno bisogno della massima concentrazione e i flash delle macchine fotografiche li disturbano moltissimo. OK. Poi esce Jarrett, tra gli applausi, si accosta al microfono e ribadisce, in inglese: no photographs, please. No flashes. You want music? So don't take photographs, or we stop. Traduco: niente fotografie, altrimenti interrompiamo.
Dopo una decina di minuti di concerto, percepisco, con la coda dell'occhio, un fulmineo bagliore sospetto alla mia destra. Sul momento penso a un lampo, anzi quasi ci spero: meglio la minaccia di un temporale a distanza, che magari non fa in tempo a raggiungerci, che la presenza di qualche testa dura che non se l'è capita e ha sfoderato la sua bella macchina fotografica. A quel primo flash isolato ne sussegue ben presto un altro, poi un altro e un altro ancora. Tremo. Mi aspetto che ora Jarrett si alzi e se ne vada. Invece, per fortuna, va tutto bene. O non se n'è accorto o è di buon umore. Il concerto va avanti, per un'ora e mezza abbondante, che per un concerto a tali livelli di concentrazione non è affatto poco. Quando però il pubblico richiama in scena il trio per il bis, Jarrett si avvicina al microfono e, indispettito, fa notare che ci era stato richiesto, più e più volte, di non scattare fotografie; abbiamo fatto orecchie da mercante, quindi loro non possono suonare il bis. Lascia l'amaro in bocca, un concerto che finisce senza il bis; soprattutto lascia l'amaro in bocca un concerto che finisce con il musicista indispettito verso il pubblico. Poi però si può pensare quello che si vuole: che quella di Jarrett sia una battaglia persa, che dovrebbe mettersi il cuore in pace, che potrebbe essere più indulgente verso il pubblico, magari fargli la ramanzina e poi concedere ugualmente il bis. Il suo atteggiamento può non piacere, ma se si va a vedere un suo concerto e lui mette in chiaro fin dall'inizio le sue regole, bisogna rispettarle, altrimenti si sta a casa; e soprattutto: se non siete giornalisti, che ve ne fate delle foto? A cosa vi serviranno mai? E se siete giornalisti, e quelle foto vi sono proprio indispensabili, almeno abbiate la furbizia di scattargliele mentre sta suonando il bis, o meglio ancora quando saluta e ringrazia il pubblico. Scusate lo sfogo.
Il concerto è stato bellissimo, e forse non c'è neanche bisogno di dirlo. La prima sensazione che si ha è che Keith Jarrett in altre situazioni, con altre formazioni, o soprattutto nei concerti per piano solo, osi di più che non con il trio, faccia musica più spinta, più sperimentale, più aperta a vari generi, influenze e sonorità , che rendono davvero riduttiva l'etichetta di pianista jazz. Con il trio esegue anche per la maggior parte classici, si lancia addirittura, certo con gran classe, in un blues, o in melodie orecchiabili e sentimentali. La seconda sensazione è che in realtà , anche in trio, l'esecuzione musicale percorra con apparente nonchalance terreni piuttosto complessi; gli standard del jazz, le frasi orecchiabili, i ritmi accattivanti sono solo il materiale di partenza, lo sfondo su cui si crea un intreccio musicale tra i tre strumenti, piano-basso-batteria, di una creatività eguagliata solo dall'incredibile livello di concentrazione dell'atto stesso dell'esecuzione: Jarrett a volte ti stordisce con grappoli di note che si rincorrono a fiume, altre volte isola un paio di note tra due lunghe pause e ti fa venire la pelle d'oca. DeJohnette alla batteria crea un incredibile tappeto poliritmico, e il bassista, Gary Peacock, s'inserisce genialmente tra gli altri due musicisti, innescando un amalgama perfetto. Senza considerare che, proseguendo di brano in brano, le atmosfere si fanno più rarefatte, a tratti quasi cupe, qua e là ipnotiche, si riempiono di quella risonanze estranee e spiazzanti che rendono, appunto, riduttivo considerare Keith Jarrett un pianista jazz. Riduttivo non in senso qualitativo, sia ben chiaro (anche perchè in campo di pianisti jazz Jarrett è probabilmente il più grande in attività ); ma nel senso puramente denotativo: la musica di Jarrett è fuori da ogni steccato, attraversa ogni confine, rimescola le carte in tavola. Ancora oggi, quando sembrerebbe ormai che le carte in tavola si siano talmente mescolate che non ci sia più niente da mescolare ancora, la musica di Jarrett suona fresca, attuale, sorprendente. Di fronte a Jarrett siamo di fronte a un gigante della musica contemporanea, e tanto di cappello.

(Manuel Caprari)


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *