Grande successo per il “Don Giovanni” di Mozart a Jesi
di Roberta Rocchetti
18 Ott 2025 - Commenti classica
Il “Don Giovanni” di Mozart inaugura alla grande la 58° stagione operistica del Teatro Pergolesi di Jesi. Una produzione delle più riuscite per originalità, pregio e competenze.
(Foto Marco Pozzi)
Ogni volta che il Don Giovanni di Mozart va in scena si apre un libro anzi una biblioteca, si trova un volume di musica, uno di storia, uno di letteratura, e ultimo ma non ultimo di psicologia, perché nulla come la figura di Don Giovanni ha nei secoli stuzzicato registi, interpreti, esegeti, scandagliatori dell’animo umano, teologi e quant’altro a definire e afferrare la vera essenza di un personaggio archetipico a cavallo tra bene e male, tra inferno e paradiso.
Questo inafferrabile dualismo è stato sicuramente anche al centro del Don Giovanni andato in scena come titolo inaugurale della 58° stagione operistica del Teatro Pergolesi di Jesi che ha visto la luce venerdì 17 ottobre.
L’ouverture prende vita risalendo dalla buca su un sipario di specchi che riflettono palchi e platea a luci accese che ricordano un po’ la celeberrima Traviata di Svoboda, ma qui gli specchi si sollevano, le luci si spengono e l’abisso si apre su un mondo cupo creato dalle scene di Benito Leonori che con l’ausilio delle luci di Patrick Méeüs partoriscono un mondo notturno e grigio dove i protagonisti si muovono tra timpani e colonne di un mondo in rovina decadente ma senza squallore, malinconico e struggente ma con una sua intima bellezza, il sentimento del lutto tradotto in architettura, una nostalgia solidificata.
Le proiezioni video di Mario Spinaci discrete, pertinenti e ben incastonate nella scenografia aumentano la sensazione di rabbit hole e l’universo del Burlador si piazza stabilmente tra sogno e inconscio.
I costumi di Giovanna Fiorentini scivolano con loro sete e velluti tra i secoli, non trae in inganno il protagonista in abito settecentesco rosso sangue perché il suo sodale e servile Leporello è già apparso come una sorta di straniante Charlot ad evidenziare la natura clownesca ma profondamente umana del personaggio e l’atemporalità dell’ambientazione. Il tardo ottocento si fa strada tra i costumi delle figure femminili anche se alcune apparizioni ricordano già l’avvento del Liberty e per Don Ottavio si sceglie un outfit quasi new wave. Nell’aspetto dei vari personaggi si intravedono le figure letterarie di Lucy Venstera, di Mina e Jonathan Harker, del cinematografico Dracula di Coppola e del Nosferatu di Murnau o di Herzog, perché la vicenda si svolge nell’universo inquieto dei vampiri.
È un vampiro il protagonista, lo è il Commendatore padre di Donn’Anna nella scelta registica di Paul-Émile Fourny e via via che la narrazione procede lo diventano praticamente tutti, contagiati l’uno dall’altro e qui potremmo davvero scrivere un libro sulla capacità intossicante di certune personalità di inquinare quelle più cristalline, mentre raramente avviene il contrario.
Il narcisismo incurabile di Don Giovanni il quale ha necessità di suggere energia vitale dalle vittime strazia la loro identità, l’estrema sofferenza di Donna Elvira è la descrizione cronologica di questa devastazione, anche se in questa produzione la si è un po’ sacrificata sull’altare della necessità di introdurre elementi giocosi facendole perdere sostanzialmente parte del suo potenziale tragicamente descrittivo, la cuffietta di gomma nella sauna in uno dei momenti salienti in cui si rende conto di essere prigioniera di una prigione in cui sceglie scientemente di tornare l’avremmo evitata, anche perché se si sceglie di rendere degli zombie vampirizzati i paesani invitati al matrimonio di Masetto e Zerlina a maggior ragione si può lasciare a Donna Elvira tutto il suo potenziale drammatico, ci penserà poi Da Ponte con Mozart a rendere grottesca la sua figura nella scena del buio loco con Leporello .
Per il resto però abbiamo trovato la regia suggestiva, in grado di offrire un supporto agli interpreti e al tempo stesso di muoverli in maniera agile e funzionale, ci sono piaciuti particolarmente alcuni passaggi come il cambiamento quasi impercettibile ma visibile di atteggiamento di Donna Anna mano a mano che dentro di lei si fa strada il veleno del vampiro trasformando lei stessa in un soggetto piuttosto inquietante che a sua volta condanna Ottavio.
Un racconto sul fascino del male, soprattutto quando il male ha dentro tanto di quel bene da renderne indefinibili, intercambiabili e inafferrabili i confini, un male che usa quel bene come vettore per farsi strada da un soggetto all’altro.
Sul versante vocale ricordando che in questa produzione troviamo la metà degli interpreti che debuttano nei rispettivi ruoli iniziamo dal personaggio che dà il titolo all’opera, il Don Giovanni di Christian Federici è credibile sulla scena, spavaldo, cinico e attraente, possiede un buon fraseggio e un’ottima dizione, non è frequente ascoltare una fin ch’han dal vino così pulita, scandita perfettamente senza mai perdere spessore nel volume ed esibita con apparente facilità, la voce è dotata di un timbro ambrato e senza essere troppo appesantita mantiene una buona trasparenza, sicuramente uno dei Don Giovanni di riferimento nel panorama attuale.
Il Commendatore di Luca Dall’Amico ha soddisfatto le nostre necessità di infera potenza che non sempre vengono soddisfatte assistendo a quest’opera, Dall’Amico possiede un volume notevole e la profondità necessaria per incutere il terrore che gli compete, piazzato nei palchi o sul palcoscenico la sua voce ha attraversato senza cedimenti lo spazio mentre il suo personaggio abbatteva le barriere del tempo.
Maria Mudryak ha dato voce e corpo a Donna Anna, voce argentina, afflato drammatico e stabile in ogni registro con punte verso l’alto solide e che le consentono di mantenere un timbro gradevole e morbido, buona anche sul piano interpretativo attoriale, capacità che si fonde alla vocalità senza soluzione di continuità.
Sul Don Ottavio di Valerio Borgioni possiamo solo spargere polvere d’oro, timbro di velluto, forza, volume ma anche la capacità di dare significato drammaturgico ad ogni parola appoggiata sulle note, pianissimi filigranati, crescendo appassionati, montagne russe emotive rese attraverso il pentagramma come poche volte ci è capitato di ascoltare. Don Ottavio è un ruolo per certi versi ingrato, se non si afferra la chiave interpretativa il pubblico usa il tempo delle sue arie per pensare a cosa deve fare il giorno dopo, qui è assurto a coprotagonista assoluto dimostrando che Mozart ha scritto solo ed esclusivamente capolavori, ma è necessario avere la cartina tornasole per farli brillare.
La Donna Elvira di Louise Guenter al debutto parte già con un buon passo, un po’ penalizzata come dicevamo da ciò che la regia ha visto nel suo personaggio ha reso vocalmente in ogni caso la sofferenza frustrata del vivere in una gabbia con le porte aperte, agilità fluide su una voce graffiante, voce che è già una promessa e che avrà tempo di crescere.
Leporello è stato portato in scena da Stefano Marchisio, il giovane baritono al debutto nel ruolo è entrato subito nel personaggio, buona l’aria del catalogo nella quale ha dimostrato oltre ad una voce duttile ottime capacità istrioniche, agile sulla scena ha mantenuto saldo il controllo sui propri mezzi vocali.
Così anche il Masetto di Gianluca Failla elegante nella voce e nella gestualità ed ottimo supporto per la Zerlina di Eleonora Boaretto, la quale ha dato vita ad una villanella quasi più drammatica che leziosamente civettuola anche sul piano vocale dove i passaggi emotivamente impegnativi la vedevano partecipe tanto da rendere vocalmente una donna e non un bidimensionale personaggio buffo, la sua aria Vedrai Carino che personalmente riteniamo una delle più belle dell’opera è stata resa con una buona gamma di colori pastello, complice una regia che non ha calcato troppo la mano sui sottesi erotici.
Ci è piaciuta molto la direzione di Arthur Fagen, il direttore americano ha trovato il giusto equilibrio tra la necessità di rendere la drammaticità di fondo del racconto musicale portando l’Orchestra Time Machine Ensamble a sviluppare tutta la propria gamma di dinamiche e al contempo di alternare respiri ampi e ritmi serrati sottolineando con cognizione di causa le varie esigenze narrative, nelle arie dei vari interpreti si è data la possibilità di effettuare leggere variazioni nei da capo senza troppi sconfinamenti, qualche limatura iniziale nei recitativi di una edizione integrale senza tagli.
Il Coro Ventidio Basso di Ascoli Piceno guidato da Pasquale Veleno preciso al millimetro, un cristallo dalle tante facce.
Ricordiamo che il Teatro Pergolesi mette in scena sempre nuove produzioni, dietro questa c’è uno sforzo di maestranze incredibile, soprattutto per un teatro non metropolitano che deve appoggiare su forze economiche che hanno un limite ma che non rinuncia ad evidenziare quante competenze ad altissima professionalità si trovano sul territorio, iniziative e collaborazioni a questi livelli mantengono vive le città (fortunate quelle che hanno ancora un teatro d’opera funzionante perché è l’apparato cardiaco culturale della comunità) e la fiducia nella parte migliore dell’umanità, quella che si adopera per la bellezza, cosa della quale attualmente c’è un grande bisogno.
Riteniamo questa produzione una delle più riuscite per originalità, pregio e competenze e stando alla reazione del pubblico crediamo che sia evidente a tutti, se potete non perdete la replica di domenica 19 ottobre.
Spettacolo di domenica 19 ottobre.
E’ sempre più evidente l’impegno che le maestranze del teatro pongono nell’organizzare la lirica..Ottimo spettacolo per l’uniformità del cast.per la direzione d’orchestra per la bravura dei cantanti secondo ( me migliori gli uomini ) per la scenografia.Spettacolo che ci tenuto avviati fino alla fine.Cio’ a dimostrazione che anche nei teatri meno importanti si possono produrre belle cose
Alberto Tacconi