Grande spettacolo “Il flauto magico” al Teatro delle Muse


di Roberta Rocchetti e Alberto Pellegrino

2 Ott 2023 - Commenti classica

Uno dei più bei allestimenti visti negli ultimi anni al Teatro delle Muse di Ancona, questo “Flauto magico” mozartiano diretto da Giuseppe Montesano, per la regia di Luca Silvestrini alla guida dell’Orchestra Sinfonica G. Rossini. Ottime le voci. Presentiamo due recensioni (Roberta Rocchetti e Alberto Pellegrino) che approfondiscono i vari aspetti dell’opera e della messa in scena.

(Foto di Giorgio Pergolini)

RECENSIONE DI ROBERTA ROCCHETTI

Parte con un boato di entusiasmo la stagione lirica 2023 del Teatro delle Muse “Franco Corelli” di Ancona. Quello di entusiasmo creato, oltre che dal regolare pubblico in sala, dalle scolaresche che hanno assistito come noi alla recita di domenica 1° ottobre.

Vogliamo citarli per primi perché sono stati davvero uno spettacolo nello spettacolo, attenti, diremmo rapiti, educati ma entusiasti hanno prodotto uno scambio tra platea e palco che difficilmente si sarebbe creato senza la loro presenza, il loro contagioso slancio è stato la ciliegina sulla torta di uno spettacolo di grande livello.

Azzeccatissima la scelta da parte del direttore artistico Vincenzo De Vivo di affidare la regia della stagione in corso a due coreografi, nel caso specifico a Luca Silvestrini, il quale ha gestito i movimenti dei protagonisti sul palco con la precisione di un orologio, coadiuvati dalla presenza di danzatori che non sono mai risultati ridondanti o fine a se stessi nel tessuto della narrazione ma sempre funzionali all’azione in atto divenendo di volta in volta scenografia, personaggi, energie e persino sentimenti.

Personalmente ritengo questo nuovo allestimento uno dei più belli visti negli ultimi anni, regia pulita, elegante, chiara e mai autoreferenziale, sempre e solo al servizio della trama che mai, almeno per le recite del Flauto Magico che mi è capitato di vedere negli anni è apparsa così chiara e lineare e tutti sappiamo quanto il libretto di Schikaneder si presta a diventare farraginoso e confuso.

Una regia che si è appoggiata sulle essenziali ma evocative scene di Lucio Diana, un fondale neutro che si apre al centro per consentire l’ingresso dei personaggi e pochi oggetti simbolici a descrivere la scena, un piccolo palco circolare rialzato al centro e un grande nitore estetico rafforzato da mirati giochi di luce sempre di Diana.

I costumi sono di Stefania Cempini, in parte orientaleggianti ma mondati da ogni appesantimento oleografico, linea pulita ed essenziale ma senza rinunciare alla caratterizzazione dei personaggi e senza dimenticare la dimensione fiabesca.

Sul piano delle voci ha spiccato la Astrifiammante di Brigitta Simon, notevole presenza scenica, agilità liquide gestite senza sforzo apparente, acuti saldi e fiato da vendere, buona espressività soprattutto canora, con un po’ di grinta in più nei recitativi può essere la nuova Damrau.

Ottimo anche il Papageno di Levent Bakirci che ha catturato il pubblico con le sue doti attoriali, buono anche sul piano vocale ha delineato un Papageno delicato, simpatico ma non troppo clownesco, anzi diremmo con una spolverata più evidente del solito di malinconia, si sentiva correre per la sala l’empatia e la partecipazione per la sua solitudine, tanto che nel vederlo trovare la sua Papagena la sala è esplosa in un applauso liberatorio.

Papagena interpretata da Jennifer Turri gli ha fatto da adeguata spalla.

Il Tamino di Antonio Garès è vocalmente corretto, bel timbro e buona emissione, forse qualche concessione al sentimento in un canto che è stato prettamente eroico e ha lasciato poco spazio allo struggimento specialmente in passaggi come la cosiddetta aria del ritratto potrebbe regalare qualche sfaccettatura in più.

Delicata e dolce la Pamina di Maria Laura Iacobellis, inizialmente quasi frivola per esigenze di regia poi innamorata e decisa. Tutto lo smarrimento della perdita che solo Mozart è riuscito a rendere in maniera così profonda, (tanto che nelle Nozze di Figaro ci si stringe lo stomaco per la perdita di una spilla) è trapelato dall’interpretazione di Ach, ich fȕhl’s, una vocalità piena ma mai gridata.

Ieratico, solenne e dotato di una voce che non fatica a raggiungere ogni angolo del teatro, così il basso Abramo Rosalen ha presentato il suo Sarastro, dinamico pur senza perdere la sua compostezza ha dato spessore umano ad un personaggio spesso porto in maniera troppo distante e asettica, vocalmente va forse un po’ potenziato il registro più grave che in questo personaggio raggiunge note davvero abissali, ma che devono mantenersi corpose.

Un giusto mix di abiezione e ironia nel Monostatos di Carmine Riccio.

Buona sintonia anche per le tre dame, Khatia Jikidze, Sara Hakobyan e Nutsa Zakaide. Chiudono il cast i tre fanciulli Sofia Cippitelli, Caterina Piergiacomi e Giovanni Tartufoli e i due sacerdoti / armigeri Alessandro Ravasio e Alessandro Fiocchetti.

L’Orchestra Sinfonica G. Rossini guidata dalla bacchetta di Giuseppe Montesano si èmessa come sempre con grande duttilità e professionalità al servizio di una direzione con pochi protagonismi, rispettosa dei tempi della partitura mozartiana con piccole ma importanti cesellature atte ad evidenziare rilievi drammaturgici e sempre valorizzando le voci che dall’orchestra sono state sempre accompagnate e mai coperte.

Il Coro Lirico Marchigiano è stato guidato da Riccardo Serenelli.  Ce lo chiediamo quanti tra i ragazzi presenti a questa recita manterranno inalterata dentro di loro la magia espressa oggi, quanti, come ha di recente detto il direttore artistico De Vivo nell’intervista che ci ha rilasciato (potete ascoltarla a questo link: https://www.musiculturaonline.it/audio-intervista-a-vincenzo-de-vivo/ n.d.r.) diverranno “dipendenti” dalla bellezza del teatro musicale, cercando con tutte le loro forze ogni volta che attraverseranno le porte dei templi della musica di ricreare il miracolo dell’emozione; e si ritroveranno un giorno vecchi con lo spirito ancora di bambini grazie a gente come Mozart.

RECENSIONE DI ALBERTO PELLEGRINO

Il Teatro delle Muse di Ancona ha varato una coraggiosa stagione lirica con due opere straniere e il primo evento, segnato da un grande successo di pubblico, è stato Il Flauto magico di Mozart. Da tempo ci si chiede se questo capolavoro può essere considerato un’opera illuministica? È una domanda che ricorre ancora malgrado siano passati più di duecento anni dalla sua composizione e la risposta è oggi affermativa. Questa opera chiude la straordinaria carriera musicale e la vita terrena di Mozart in quel fatidico 1971 che lo hanno visto comporre il Requiem, misteriosa opera sulla morte vista come la “migliore amica dell’uomo”; La clemenza di Tito, un inno alla tolleranza dove il principe è visto come il garante della giustizia sociale, della pace e dell’uguaglianza, l’unica strada per contrastare lo strapotere e la corruzione della classi privilegiate.

Il flauto si avvicina allo Singspiel tedesco che è servito a coniugare il filone comico e quello serio come fa appunto Mozart che vuole divertire, seguendo la moda dell’opera allegorica nella quale si fondono magia e sogno, fiaba e scenografia fantastica con l’illuminismo tedesco. Nello stesso tempo egli inserisce una componente politica sotto l’influsso dell’Illuminismo tedesco, di grandi intellettuali come Kant, Schiller e Goethe, dell’amore appassionato per Shakespeare, della passione per le opere del poeta Cristoph Martin Wielanda e tutto questo sfocia in un capolavoro apparentemente semplice ma assolutamente complesso.

Il cattolico Mozart è affascinato dai miti dell’Oriente e dell’antica Grecia e si propone di rappresentare il viaggio iniziatico di Tamino dalle tenebre dell’oscurantismo verso la luce nel Tempio della Saggezza dopo essere passato attraverso il Tempio della Natura e della Ragione in una specie di congiunzione mistica tra natura e ragione, maschile e femminile, corpo e anima, antico e contemporaneo. Il fluato magico diventa un’opera che poggia le sue basi sulla tolleranza e sul perdono, sull’incontro tra scienza e arte, tra vita attiva e vita contemplativa, sugli istinti materiali (rappresentati da Papageno e Papagena), sulla lotta politica e l’impegno etico personale, sullo sforzo collettivo coerente con lo sforzo individuale.

Questo Zauberflöte, rappresentato per la prima volta sul palcoscenico del Teatro delle Muse, costituisce il debutto come regista lirico per il coreografo jesino Luca Silvestrini (1966), che ha lavorato e si è affermato soprattutto all’estero e che è stato chiamato per collegare melodramma, teatro di parola e teatro di danza, portando sulla scena accanto agli interpreti un gruppo di danzatori che s’inseriscono nella vicenda, condividendo la scena con i cantanti che sono stati a loro volta coinvolti nel disegno coreografico.Silvestrini, dopo la laurea al DAMS di Bologna, ha studiato danza al Trinity Laban di Londra, dove è stato cofondatore e direttore della londinese compagnia Protein.  In Italia nel 2020 ha ricevuto il Premio dell’Associazione Nazionale Critici di Teatro.

La regia di Silvestrini, nella sua lineare funzionalità ed eleganza, sa evidenziare gli elementi comici e tragici dell’opera; le alte aspirazioni di Tamino e il lato giocoso della coppia Papageno-Papagena che rappresentano una via più semplice e istintiva all’iniziazione. Fa emergere chiaramente il confronto tra le infantili paure di Papageno e la forza d’animo che Sarastro, Tamino e Pamina dimostrano nell’affrontare diverse situazioni, compresa la violenza e l’assassinio. È la stessa forza e la stessa consapevolezza mostrata da Mozart che, nel settembre 1791, scrive a Da Ponte: “Lo sento a quel che provo che l’ora suona; sono in procinto di morire ho finito prima di aver goduto del mio talento”.

L’azione ruota intorno a Tamino, che rappresenta l’elemento maschile positivo unito inscindibilmente all’elemento femminile sia positivo (Pamina), sia negativo (la Regina della Notte). L’eroe ha bisogna della saggia Pamina e della crudele Regina, la cui malvagità agisce come “attivatore di energia”, per cui è lei a salvarlo dal serpente, a spingerlo alla ricerca di Pamina, a donare a lui e a Pagageno i poteri del flauto e del carillon, a offrigli i saggi consigli dei Tre Fanciulli, che la regia ha introdotto sulla scena con un gustoso carrello trainato da un servo. Silvestrini, con la sua esperienza di coreografo, ha aggiunto alla musica, al canto e alla recitazione il codice della danza che attraversa coerentemente tutta l’opera per sottolinearne i passaggi più rilavanti fin dalla scena iniziare delle tre Damigelle della Regina che sconfiggono un simbolico e nero drago-serpente. Ancora significante ed efficace è l’entrata in scena della Regina della Notte sotto un cielo trapuntato di stelle. Altrettanto affascinante il gioco delle ombre dalle quali emergono danzatrici e danzatori per dare spessore simbolico e rappresentativo ai sentimenti dei personaggi che agiscono sulla scena, per poi ritornare nel mondo delle ombre. Altro gustoso passaggio si ha quando il suono dei campanelli azionato da Papageno trasforma in automi inoffensivi i “cattivi” di turno. L’insieme della messa in scena è stato valorizzato dagli eleganti costumi firmati da Stefania Cempini, dal perfetto progetto luci di Lucio Diana (uno dei maggiori scenografi italiani) che ha ideato anche una scenografia nel segno di una elegante ma coinvolgente semplicità con una serie di pannelli mobili destinati all’entrata e all’uscita di scena dei personaggi, mentre al centro della scena una pedana circolare diventa il luogo deputato di tutte le principali azioni sceniche con rapide ma significative trasformazioni come momento d’incontro e di scontro, d’amore e di violenza, di affascinanti atmosfere segnate dal grande velario cilindrico che delimita lo spazio in momenti dell’azione particolarmente significativi.

Tag: , , , ,

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *