“Eduardo e Cristina”, sogno e vaghezza del ROF


di Andrea Zepponi

25 Ago 2023 - Commenti classica

Successo indiscusso per l’opera “Eduardo e Cristina” che il Rossini Opera Festival ha presentato per la prima volta in tempi moderni e in prima esecuzione assoluta con l’edizione critica di prossima uscita a cura della Fondazione Rossini di Pesaro. Pieno successo anche per il debutto rossiniano di Anastasia Bartoli.

(Ph Amati Bacciardi)

Non si capisce perché per autori come Bach, Haendel, Gluck, Haydn e Liszt nessuno smarrimento critico-estetico quando lor signori di area tedesca riusano la propria musica già composta e, quando invece lo fa Rossini, si grida al bieco riciclaggio e alla routine del vile mercato d’italico stampo.

Che l’Eduardo e Cristina, primo titolo del Rossini Opera Festival 2023, sia un’opera con alta percentuale di cosiddetti autoimprestiti è vero, ma non meno di altri lavori rossiniani che non hanno ricevuto lo stesso marchio di centone (1) come Adina, la Gazzetta, e – udite, udite – perfino opere come Elisabetta regina d’Inghilterra, per tacere dei rifacimenti francesi del Viaggio a Reims, del Maometto II e del Mosè in Egitto che prendono rispettivamente i nomi di Comte Ory, di Siège de Corinthe e di Moïse et Pharaon.

Non è forse altrettanto vero che le cantate luterane e profane di Bach, destinate a vita occasionale, le cantate italiane e i duetti da camera di Haendel, le opere metastasiane di Gluck non ancora “riformate” funsero da ampi serbatoi per diversi recuperi tematici da parte dei loro autori? Un esempio per tutti è l’aria celeberrima Lascia ch’io pianga del Rinaldo, tirata giù dall’oratorio italiano Il trionfo del tempo e del disinganno. Si chiamava contrafactum il riutilizzo di musica vecchia con parole nuove. Tuttavia, il discredito ricade di solito solo su Rossini se riqualifica e reimpiega alcune proprie pagine musicali per un altro contesto geografico e teatrale.

L’illuminante saggio di Marco Beghelli nel programma di sala del ROF per l’opera in questione cui il sottoscritto ha assistito il 17 agosto scorso alla Vitrifrigo Arena di Pesaro, pare rimettere le idee a posto a riguardo: Rossini riusava eccome, ma lo faceva con una “riscrittura creativa” che perfezionava e riqualificava quanto già fatto perché lo riteneva valido e fruttuoso in altri contesti espressivi; pertanto, scrive Beghelli, anche se le linee vocali e strumentali melodiche  rimangono simili – ciò che solo notano gli ascoltatori di solito – i ripieni orchestrali sono ben spesso diversamente distribuiti, i contrappunti interni elaborati in modo differente, i fraseggi melodici modificati, quasi Rossini si autocitasse a memoria ovvero, affinasse consapevolmente alcuni dettagli sulla scorta dell’esperienza precedente seguendo quell’impulso irrefrenabile che ha a che fare con il genio. Insomma, il reimpiego testuale alla lettera si verifica solo in pochi casi: ad esempio nella sinfonia della Gazzetta che passa pari pari alla Cenerentola e quella di Tancredi, presa di peso dalla Pietra del paragone, ma già la sinfonia di Aureliano in Palmira, passata poi al Barbiere di Siviglia, venne significativamente riorchestrata nel suo passaggio alla Elisabetta regina d’Inghilterra. Tant’è, l’opera Eduardo e Cristina si beccò la taccia di centone fin dal suo primo apparire quando si racconta che un commerciante napoletano, assistendo alla prima al Teatro San Benedetto di Venezia il 24 aprile 1819, accennava le melodie prima che gli interpreti le intonassero, mostrando così di averle già ascoltate dalle opere originali, e ciò fece infuriare l’impresario.

L’accostamento nella stagione 2023 di Adelaide di Borgogna con l’opera che ne trae ampi spunti melodici, denota un sagace intento di esibire le modalità e l’effetto di questa rossiniana “riscrittura creativa”. L’intento festivaliero è di indubbio interesse culturale in quanto pone a confronto e al giudizio del pubblico Adelaide di Borgogna con Eduardo e Cristina, opera che musicalmente ha un impatto direi molto più efficace e significativo; evidentemente Rossini non riutilizzava a caso, per di più, in mancanza dell’autografo tuttora irreperibile, le superstiti copie manoscritte ci restituiscono, grazie al lavoro dei curatori dell’edizione critica, i segni del suo impegno compositivo nel generare sezioni di raccordo fra le varie scene, nel coordinare il lavoro dei collaboratori e sovrintendere l’applicazione delle linee melodiche provenienti dalle opere utilizzate come fonti: nei diciassette numeri della partitura quattro provengono da Adelaide di Borgogna, tre da Ermione, due da Ricciardo e Zoraide, uno da Mosè in Egitto, mentre la sinfonia è costruita sia su temi di Ermione sia di Ricciardo e Zoraide. Completano il quadro gli inserti estranei alla scrittura di Rossini: l’aria di Giacomo Questa man la toglie a morte, tolta dall’opera di Stefano Pavesi Odoardo e Cristina (1810) da cui anche proviene, rimaneggiato, il libretto di Giovanni Schmidt, ed episodi corali di mano ignota. Di dubbia paternità è l’aria del secondo tenore Atlei, Da nume sì benefico, che, pur essendo scritta nel tipico stile virtuosistico rossiniano, non compare in nessun libretto originale di Eduardo e Cristina. L’opera ebbe comunque al suo apparire un certo successo e ottenne delle riprese almeno fino al 1840, dopodiché si eclissò anche a causa dell’aneddotica diffusa sulla sua presunta natura di “centone”. Un destino ben diverso da quello di Adelaide che conobbe fortuna molto minore per non dire nulla.

Un successo che si è ripetuto la sera della terza rappresentazione al ROF dove la “scenoregia” di Stefano Poda ha realizzato anche nei suoi costumi, luci e coreografie quanto esposto nelle sue note del programma di sala: “La musica di Rossini è astrazione pura, capace di adattarsi perfettamente al serio e al buffo, ad un soggetto oppure ad un altro, come dimostra la composizione eterogenea di questo lavoro, che è quasi una antologia di musica già collaudata (…) Non bisogna quindi cercare di rendere attuale Eduardo e Cristina ma universale: non investigare facili messaggi o azzeccare interpretazioni, bensì domande. Trattare quest’opera come un’opera d’arte e trasformarla in un poema sull’alterità”. Nessuna ricerca di attualizzazione quindi, nessuna idea di “ricreare” una teatralità convenzionale dell’opera attraverso meccanismi particolari ingabbiandola in una dimensione precisa e determinata, bensì il ricorso totale alla vaghezza dell’onirico e dell’astratto. Il solito open space ovvero un non luogo che risolve tanto lavoro nei cambi di scenografia rendendoli inesistenti. Così indeterminati erano i costumi che potevano rievocare al contempo un medioevo imperiale con gli iridati manti dei protagonisti, un neoclassicismo protoromantico con candidi panneggi di comparse e coristi e addirittura un imprecisato mondo futuribile (ma a un certo punto dell’azione si brandiva una pistola) teso a prospettare un nuovo ordine mondiale con corpi ignudi e inermi di fronte a una élite dominante (vedere la cerimonia di apertura del San Gottardo): nudità marmoree per un corpo di ballo soprattutto maschile che gremiva la scena in ogni istante producendosi in movenze e viluppi di danza moderna dove la simmetria assume maggior valore se contrapposta a un’apparente disposizione caotica o aleatoria che spesso, durante lo spettacolo, era rivolta a elaborare gesti veicolati dalla musica e dalla vicenda scenica sottesa. Un po’ troppo in senso quantitativo e di durata, se non altro perché la musica operistica non ha bisogno di continua mimesi coreografica: ci sono già canto, parola e trama a rendere cospicuo e polisemico il vettore semantico. Tanto più che le pareti laterali del palcoscenico erano sede di vere e proprie istallazioni con involucri trasparenti – plexiglas? – dove stavano deposte e ingabbiate a due a due sculture di posa classica dello stesso aspetto dei danzatori sulla scena. I figuranti erano inoltre chiamati a imitare la gestualità dei cantanti durante i loro assoli quasi a ribadire l’ambivalenza corale del corpo di ballo. Sullo sfondo quasi una immensa calcinaia di statue spezzate, un ammasso di lacerti marmorei in attesa di ricomposizione, di restauro oppure di definitiva fusione. Tutto sembrava possibile. Non priva di fascino era inoltre l’idea di mostrare all’inizio del secondo atto tre ingenti blocchi scultorei, chiusi anch’essi in gabbie di lastre trasparenti, che, ruotando sul palcoscenico, a poco a poco, nel finale, componevano due figure avvinte: emblema di ricongiunzione degli amanti e di ristabilimento dell’armonia nel dramma familiare che trasformava in ordine parziale ciò che lo sfondo esibiva come caos totale.

Atemporalità e simbolismo, quindi, erano le cifre sostanziali dell’aspetto scenico sulla cui vaghezza non vale la pena dire altro se non che in questo genere di spettacoli gli interpreti di canto devono essere molto credibili vocalmente, cosa che non è mai tanto pacifica. Dispiace dire che Daniela Barcellona nel ruolo di Eduardo, peraltro applauditissima per i suoi meriti indiscussi, non era nella forma che ricordavo nel repertorio rossiniano: affondi nella zona grave di petto troppo scoperti ma poco efficaci, acuti privi della sua consueta densità mezzosopranile, armonici meno correnti nella zona intermedia; questa la prima impressione sull’aspetto meramente vocale nel primo atto che, pur ridimensionandosi nel secondo, è rimasta sostanzialmente la stessa: entusiasmante però ancora la maestà dei fraseggi e del gesto vocale nel recitativo d’ingresso e nella cavatina Vinsi ché fui d’eroi gestita con ancor più affinato magistero rossiniano e belcantistico; flessibilità espressiva intatta, anzi vieppiù sorvegliata, nella morbidezza del duetto con Cristina In que’ soavi sguardi e nella scena del secondo atto di invocazione al figlio condannato e alla moglie colpevole. Sempre notevole la tecnica di coloratura con cui risolveva il virtuosismo di passaggi costellati di diminuzioni e nelle variazioni di bravura.

Il debutto rossiniano di Anastasia Bartoli, figlia d’arte, rampolla e con ogni probabilità allieva nientemeno che di Cecilia Gasdia, atteso al varco, è stato ampiamente superato con pieno successo per una piena vocalità di soprano lirico di coloratura – molto diversa da quella di tanta mamma – gestita con una tecnica smagliante e da una grinta che sono al di là della mera professionalità e sconfinano nell’arte pura. Da non dimenticare che il suo ruolo vocale promana in gran parte da quello di Ermione, tra i più impervi e drammatici creati da Rossini: incisività nei recitativi e nei declamati, suoni ben proiettati e cadenze vertiginose con esibizione di due ottave, agilità precise e ben enunciate in sicurezza di emissione hanno reso il personaggio credibile e dalla gestualità vocale insieme a una presenza scenica rilevanti e attraenti.

Per quanto riguarda la controparte maschile del cast, dopo che il tenore Enea Scala si è ormai dato alla vocalità di baritenore – lo ricordiamo nell’Otello rossiniano – quest’anno lo abbiamo ascoltato alle prese con la parte di Carlo, la più articolata dell’opera, in cui fa sentire l’ampiezza vibrante maschile della zona medio grave per poi voler tuonare negli acuti più svettanti che non si aprono a ventaglio. Anche in questo ruolo vive quello impervio di Pirro dell’Ermione: l’aria D’esempio all’alme infide è una grande prova interpretativa e vocale che Scala ha superato, come il resto della parte, con convinzione tale da suscitare l’applauso più eclatante del pubblico. Ci si chiede tuttavia dove risieda nella esibizione di una vocalità così estrema e spinta la ricerca della restituzione filologica della vocalità tenorile rossiniana con i suoi registri di testa e di falsettone che tanto il Pesarese auspicava e vagheggiava non meno della vocalità dei castrati. Ottimi l’emissione e l’appoggio sul fiato per i suoni gravi e acuti nella uguaglianza dei registri di tipo romantico, tutte risorse tecniche che vanno molto meglio per un Bellini o un Donizetti che per Rossini. Una maggiore ricerca filologica si è notata nel tenore di formazione belcantista, ma con una vocalità lirica, Matteo Roma nel ruolo di Atlei, il quale ha sostenuto l’inserimento dell’aria dallo spiccato virtuosismo Da nume sì benefico come già scritto, di impervia tessitura con oltre due ottave di estensione. Molto bello il timbro del basso Grigory Shkarupa nelle vesti di un Giacomo ben allineato rispetto agli altri artisti per chiarezza di pronuncia e di fraseggio nel declamato. Il Mº Jader Bignamini sul podio dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai ha trovato un punto di coesione stilistica di un’opera composita come questa nella tempistica balenante di tagli vividi e tendenti a una ritmica di sentore pre-romantico. Cosa che non stupisce, vista la tendenza “sceno-coreografica” e certo stile vocale di similare impatto sul pubblico. Il forte di questa direzione risiede soprattutto nel far emergere il sonoro delle varie sezioni strumentali chiamate a svolgere un ruolo di parità con i cantanti. Il plauso va inoltre al Coro del Teatro Ventidio Basso diretto da Giovanni Farina, per la tenuta stilistica affrontata con collaudata professionalità.

Alla fine, il pubblico ha applaudito con generosità e competenza un’opera che il Rossini Opera Festival ha presentato per la prima volta in tempi moderni e in prima esecuzione assoluta con l’edizione critica di prossima uscita a cura della Fondazione Rossini di Pesaro.

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1 Enciclopedia Treccani: centóne s. m. [dal lat. centoonis «veste o coperta fatta di varî pezzi, di ritagli di vario colore cuciti insieme»]. – 1. Componimento, tipico della tarda letteratura greca e latina, formato dalla giustapposizione di parole, frasi, emistichi o versi di qualche famoso autore. 2. a. Nel medioevo, raccolta di canti o anche di formule d’intonazione, spec. di uso liturgico. b. Nell’uso musicale moderno, sinon. di fantasia, potpourri, quodlibet, pasticcio. 3. estens., spreg. Componimento o discorso privo di unità e originalità, con idee, frasi, locuzioni prese o imitate qua e là da altri autori: il suo articolo è un c. di pensieri e osservazioni attinte da varî critici; il tuo discorso m’è parso un c. di luoghi comuni. 4. Altro nome region. del centonchio.


VITRIFRIGO ARENA11, 14, 17 e 20 agosto, ore 20.00

Eduardo e Cristina

  • Dramma per musica in due atti di T.S.B.
  • Musica di Gioachino Rossini
  • Edizione critica della Fondazione Rossini, in collaborazione con Casa Ricordi, a cura di Andrea Malnati e Alice Tavilla
  • Direttore JADER BIGNAMINI
  • Regia, Scene, Costumi, Luci e Coreografie STEFANO PODA
  • Regista collaboratore PAOLO GIANI

INTERPRETI

  • Carlo ENEA SCALA
  • Cristina ANASTASIA BARTOLI
  • Eduardo DANIELA BARCELLONA
  • Giacomo GRIGORY SHKARUPA
  • Atlei MATTEO ROMA
  • CORO DEL TEATRO VENTIDIO BASSO
  • Maestro del Coro GIOVANNI FARINA
  • ORCHESTRA SINFONICA NAZIONALE DELLA RAI
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