Dino Saluzzi, un ponte tra due continenti


Silvio Sbrigata

27 Feb 2003 - Commenti classica

Milano. Dino Timoteo Saluzzi (il cognome rivela un'origine italiana di cui va orgoglioso) è, dopo la scomparsa di Piazzolla, considerato il più grande suonatore di bandoneòn vivente. Non che i meno famosi Mederos, Binelli e Marconi non siano da considerare dei virtuosi, è che in Saluzzi si ha la perfetta sintesi di capacità compositiva, di padronanza tecnica dello strumento (una vera e propria appendice delle braccia) e di estro creativo che in lui raggiunge punte di massimo. Del resto basta ascoltare uno a caso dei lavori realizzati per la prestigiosa etichetta ECM Kultrum (82), Mojotoro (91), Andina (88 in cui l'autore suona anche il flauto e le percussioni), Volver (88) per citarne solo alcuni, per capire che quanto si dice corrisponde al vero. Se poi si decide di ascoltare Responsorium, suo ultimo lavoro, ci si trova di fronte ad un capolavoro; ad uno di quei dischi fatti con intelligenza, con sapienza ma, soprattutto, con coraggio. Quello necessario per fare un'operazione di fusione, per alzare un ponte tra il vecchio ed il nuovo continente, tra le sonorità dell'America Latina (già violentate da Piazzolla, certamente più esuberante di Saluzzi) ed i codici classici del jazz. E' in questa chiave che va ascoltato Responsorium, ed è in questa chiave che i quasi mille spettatori presenti al teatro Manzoni hanno applaudito Dino Saluzzi, il figlio Josè Maria (28 anni, studi in Europa addirittura con Walter Melosetti) alla chitarra acustica ed il virtuoso contrabbassista svedese Palle Danielsson (tra le innumerevoli collaborazioni vanta anche quella con Keith Jarrett, con Jan Garbarek ed il nostrano Enrico Rava). Il filo conduttore dell'intero spettacolo è proprio l'album Responsorium, i cui i tre musicisti suonano le composizioni del sessantasettenne di Campo Santa; nelle quasi due ore di concerto, praticamente lo eseguono per intero esprimendosi al massimo in composizioni come Mònica, Dale Don!!!, La pequeà a historia de !, A mi hermano Celso e Cuchara. Saluzzi suona con sentimento ed è un musicista straordinario; probabilmente, a costo di non vedere il movimento armonico delle braccia quando aprono e chiudono il suo bandoneòn, o il corrucciarsi della fronte nei momenti di massimo lirismo, il miglior modo per ascoltare le sue produzioni è quello di chiudere gli occhi e lasciarsi trascinare dalla forza delle sue note; provare ad immaginare i variegati paesaggi argentini e magari associarvi un odore e dei colori. Basta solo avere fiducia nel maestro argentino e la capacità di viaggiare con l'immaginazione.
Una nota di merito per Josè Maria di giovane età , ma capace di deliziare il pubblico con fraseggi sopraffini e di ostentare una tecnica a dir poco invidiabile (provate ad ascoltare La pequeà a historia de !). Il maestro Saluzzi non ammalia i presenti solo come sanno fare i tangueros, ma attinge anche dal mondo della milonga e la alterna, con grande sapienza, al rigore della metrica jazz, il cui ritmo viene scandito dal caldo suono del contrabbasso di Danielsson. Eccellente, ma soprattutto sentita, l'interpretazione data da solo di Panpeana Mapu , scritta in onore di tutti gli italiani, e tra questi il nonno, che hanno lasciato la propria terra per cercare fortuna in Argentina. Il suo rapporto con il pubblico è molto limitato, almeno quello verbale; comunque non lascia deluso nessuno e quando si accendono le luci ci sono degli applausi scroscianti. Per chi vuole vederlo in Italia la seconda ed ultima data è prevista a Roma venerdì prossimo al club Le Palme; davvero un peccato non vederlo.

(Silvio Sbrigata )


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