“Callas 100” di questi anni!


di Andrea Zepponi

4 Ott 2023 - Commenti classica

Magico concerto di gala “Callas100” al Teatro degli Arcimboldi con le narrazioni di Elsa Morante e le splendide voci di Olga Peretyatko, Myrtò Papatanasíu, Andrea Edina Ulbrich e Valerio Borgioni, accompagnate dall’Orchestra del Festival Puccini magistralmente diretta da Fabrizio Maria Carminati.

(Foto di GD©GiovanniDaniotti)

Talvolta, quando si vorrebbe che i “se” e i “ma” nella storia fossero per un istante possibili, ci si sarà chiesto nel profondo del cuore o in un angolo della mente, cosa avrebbe fatto, se dal suo volontario esilio di Parigi, Anna Sofia Cecilia Kalogeropoùlou alias Maria Callas, nata cento anni fa a New York, fosse sopravvissuta a quel fatale 16 settembre 1977. Cosa avremmo visto e sentito noi, melomani ammiratori sempre avidi di riaggiornare il sublime valore di colei che non esito a definire la più grande artista lirica di tutti tempi, se non fosse avvenuta quella sua scomparsa improvvisa, misteriosa, prematura e quasi assurda a 54 anni? Che cosa avrebbe avuto da lei il mondo più di quanto ella non gli aveva già ampiamente elargito? Qualcuno ebbe a dire che, pur avendo avuto anche il genio di morire giovane, non aveva lasciato un gran vuoto ma un gran pieno. Questa proposta di “fantastoria”, che può essere osata con scopi puramente commemorativi e, direi, poetici, assume invece i contorni di un esperimento mentale che può allettare l’immaginario intimo dei callasiani per confermare e comprovare una verità instauratasi ormai nella coscienza strutturale del teatro lirico: la presenza spirituale della Callas sempre viva e ancora attiva come termine di confronto, paradigma sine qua non, limite non plus ultra per ogni artista d’opera. Ciò rende meno assurdo enunciare sospirando certe domande impossibili. Quali vette non avrebbe raggiunto la lirica successiva, dopo la svolta filologica di fine secolo, se la Callas avesse anche solo presenziato alle grandi produzioni liriche degli anni ‘80 e ‘90 quando non avrebbe avuto al massimo che 57-60 anni di età! La si sarebbe magari invitata nel 1980 al nascente Rossini Opera Festival che in fondo, in fin dei conti, ella prefigurò con la sua Armida e il suo Turco in Italia e forse, chissà, avremmo avuto la fortuna di sentir risuonare la sua voce viva al Teatro Rossini, di avere la sua magnetica presenza in una parte rossiniana al festival pesarese negli anni in cui, se fosse vissuta, non avrebbe ancora raggiunto la sessantina e ritrovato la voglia di calcare le scene. Poteva ancora suonare lo strumento della sua voce: il suo mito e il suo successo andavano al di là della perduta perfezione vocale già nei concerti che tenne con Giuseppe Di Stefano alla Royal Festival Hall di Londra nel 1973 e in Giappone nel 1974. Quanto l’avremmo osannata, quale delirio sarebbe stato al solo scorgerne l’ombra, al solo sapere della sua presenza nella stessa sala! Avremmo potuto onorare in altri contesti cronotopici chi ha avuto il merito incomparabile di riportare il bel canto sulla scena e di ricongiungere l’opera lirica con il teatro greco in un sinolo inscindibile di canto e recitazione.

Al di là di questa perdonabile retorica, puntellata sul condizionale, è l’aureola di un ben noto mito misto a malinconia ad avvolgere la figura di colei che ha diviso la storia del teatro lirico – e non solo – in due epoche: a. C., avanti Callas e d. C., dopo Callas. Nulla che non sia stato già detto da testimoni, scritto da biografi e codificato in una tradizione celebrativa che il 29 settembre al Teatro degli Arcimboldi di Milano dalle ore 21 si è rinnovata con un concerto di gala dal titolo Callas100 cui ha preso parte la linea attoriale di Laura Morante con i suoi sette interventi tutti correttamente ispirati alla verità storica e a detta tradizione. Doveroso inoltre l’omaggio di Milano, città che ne ha decretato la gloria e il cui glorioso teatro è associato alle più sfolgoranti interpretazioni callasiane combinate con la regia di Visconti in momenti di altissimo e irripetibile teatro. “È stato un matrimonio tanto felice.” – diceva la Callas in una intervista – quello stretto con la Scala dove si poteva “fare qualcosa di bello” perché il lavoro era di équipe e tutti gli addetti allo spettacolo avevano “un entusiasmo, un’esaltazione”.

E qualche cosa di bello è stato il concerto in cui alle parole rievocative del testo recitato dalla Morante si alternavano i brani strumentali e vocali a replicare le atmosfere più drammatiche e patetiche del mondo lirico callasiano – escludendo il coté virtuosistico, tranne il Mercé dilette amiche dai Vespri verdiani – diretti dall’aurea bacchetta del M° Fabrizio Maria Carminati: l’esordio con la maestosa sinfonia della Norma di Bellini, l’opera italiana che più somiglia a una tragedia greca, seguita da una Casta diva interpretata da una Olga Peretyatko la quale, da soprano lirico di coloratura sta volgendo sempre più verso un repertorio di lirico pieno tendente a esibire la zona grave così come fa Myrtò Papatanasíu, soprano di taglia similare, portatrice della stessa grecità callasiana. Accostati in questo concerto i due soprani hanno senz’altro messo in luce le capacità attoriali della propria voce con intelligenti dinamiche, gestione sorvegliata della zona acuta ed emissioni in tutta ampiezza nei punti salienti delle interpretazioni.

Pienamente al suo posto in fatto di repertorio la verità mezzosopranile di Andrea Edina Ulbrich che si avrebbe voluto sentir interpretare qualche brano in più dei due eseguiti con spessore vocale e giustezza timbrica in tutti registri: Acerba voluttà dall’Adriana Lecouvreur di Cilea e Condotta ell’era in ceppi dal Trovatore verdiano, brano insolito in sede di concerto, reso con icastica drammaticità vocale senza nessun cedimento veristico. Il tono degli interventi della Morante aggiungeva sempre più pathos alla serata nella rievocazione di parole, notizie, aneddoti, osservazioni inevitabili sulla donna e sull’artista Callas senza scendere nello scandalistico, per cui le esecuzioni prendevano una luce varia e sempre più accesa: il Mi chiamano Mimì dalla Bohème della Papathanasíou con cui ha esordito era di certo più convincente del suo Vissi d’arte dalla Tosca di Puccini che ha concluso il concerto, ma l’artista affermata sa il fatto suo dosando e variando in chiave teatrale dinamiche, fraseggio e filati che sfogano nella piena voce in cadenza e nei momenti apicali. Le scelte del programma e degli esecutori facevano inevitabilmente denotare la distanza tra la vocalità callasiana e quella dei soprani presenti: l’omaggio non voleva in alcun modo riecheggiare la prima, bensì presentare la realtà odierna della lirica dove il peso vocale può anche venire in secondo piano per privilegiare le valenze interpretative e musicali che sono la lezione più feconda della Callas. Ecco allora il Mercé dilette amiche eseguito in tutta la tessitura dalla Peretyatko senza evitare le note sotto il rigo e aggiungere il mi sovracuto che invece sfoggiava l’eccelsa assente.

Altrettanto esaltante il duetto O soave fanciulla dalla Bohème con il tenore Valerio Borgioni e la stessa, applauditissimo dopo l’eclatante do acutissimo finale ma tutto eseguito con sovrano equilibrio di accenti e ben sostenuto dal versante strumentale.

L’Orchestra del Festival Puccini non poteva che proporre brani di sicuro effetto sinfonico come l’Intermezzo della Manon Lescaut, ma ha fatto risuonare anche lo straziante preludio dell’atto terzo della Traviata. Indi la Papathanasìou con la scena della lettera e l’Addio del passato dall’opera che fu il maggior cavallo di battaglia callasiano – tre soprani in uno – risolto con l’uso violinistico della voce e, in dirittura d’arrivo, il duetto del primo atto di Tosca con Borgioni, chiara voce di tenore lirico di ottima cavata nel medio-acuto che avrà tutto il tempo di rafforzare anche la zona medio-grave: grande forza comunicativa però e pregnanza di fraseggio di entrambi nel definire i diversi piani umorali con “scenica scienza” pur in sede di concerto. Lo stesso Borgioni ci ha offerto generosamente E lucevan le stelle dalla Tosca ricambiato con altrettanta generosità dal pubblico che ha applaudito di cuore tutti gli artisti rientrati in scena nel finale per i ringraziamenti.

Forse perché della Callas si è sentito pressoché tutto, ma certamente tutto non si è ancora visto, persistono curiosità e avidità per un ipotetico materiale fotografico e filmico non pubblicato o rimasto nascosto nel privato. Mostre fotografiche si stanno preparando in questi giorni. Alzava un braccio e sembrava una statua (Alceste e Ifigenia in Tauride), sembrava cantare e recitare con le sole mani (Norma e Poliuto), replicava istintivamente sulla scena le antiche gestualità rituali di evocazione delle divinità ctonie (Medea) senza averne avuto mai nessuna notizia iconografica né da parte dei registi. Un istinto sublime correlato per via inconscia alla sua identità culturale ellenica che ha ricreato e dato nuovo impulso all’arte lirica.

Della suprema cantante attrice del secolo scorso non ci basta possedere la voce registrata in quasi tutta la sua carriera, ma dell’artista che ha fatto della sua figura la soterica incarnazione del teatro lirico si ha il bisogno nostalgico di vedere le fattezze inedite, si ha la curiosità di scoprire pose e, chissà, riprese mai pubblicate provenienti da archivi inviolati.

Si è tentati d’immaginare che esistano da qualche parte. Il pensiero e il cuore corrono sull’onda della suddetta fantastoria, per opera di una irresistibile vis poetica, come se si trattasse di declamare l’impossibile palinodia della sua biografia vulgata e un nuovo Stesicoro, pronunciando la sua ispirata rettifica alla narrazione onnipresente nell’immaginario collettivo, invece di cantare No, tu mai non salisti sulle navi achee riferendosi a Elena, esclamasse, con tutti i nostri voti, rivolto alla Nostra, No, tu mai non salisti sul traghetto di Caronte.

In effetti, anche se Maria Callas il prossimo 2 dicembre avrebbe compiuto cent’anni, la sua immortalità è un dato di fatto. Ella è ancora e sarà sempre fra noi.

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