Attualità e fascino del Teatro di Albert Camus


di Alberto Pellegrino

29 Lug 2020 - Approfondimenti teatro

A sessant’anni dalla sua scomparsa Albert Camus rimane un autore fondamentale per aver saputo analizzare la condizione dell’uomo e i turbamenti dell’animo umano di fronte a all’Assurdo definito come «divorzio tra l’uomo e la sua vita». I suoi romanzi e le sue opere filosofiche (Lo straniero, La peste, La caduta, Il mito di Sisifo e L’uomo in rivolta) hanno una valenza universale che oltrepassa i confini del tempo, perché Camus afferma che per uno scrittore “la nostra sola giustificazione è di parlare in nome di tutti coloro che non possono farlo”, di lottare per la libertà e la giustizia sociale.

Albert Camus (©Rene Saint Paul – Rue des Archives)

Albert Camus (1913-1960) durante il suo percorso artistico ha rifiutato il pessimismo e il nichilismo per proporre una rivolta permanente contro una società “assurda” che sembra rinunciare a qualsiasi forma di trasformazione (spesso annunciata a parole) per adagiarsi sugli schemi del presente e alle sue leggi. La sfida “sovversiva” si fonda sull’imperativo morale “Mi rivolto dunque siamo”, una trasformazione del “Cogito ergo sum” cartesiano, dove il “sono” è sostituito dal “siamo” per sottolineare la collegialità di una rivolta che trova la propria giustificazione nella solidarietà, nella volontà di opporsi al male e al dolore del mondo: “La storia di oggi, con le sue contraddizioni, ci costringe a dire che la rivolta è una delle dimensioni essenziali dell’uomo… A meno di fuggire dalla realtà, dobbiamo trovare in essa i nostri valori… Nell’esperienza assurda la sofferenza è individuale. A principiare dal moto di rivolta, essa ha coscienza di essere collettiva, è avventura di tutti… Il male che un solo uomo provava diviene peste collettiva. In quella che è la nostra prova quotidiana, la rivolta svolge la stesa funzione del ‘cogito’ nell’ordine del pensiero; è la prima evidenza che trae l’uomo dalla sua solitudine” (L’uomo in rivolta). Albert Camus è stato anche un importante drammaturgo che ha ritenuto il teatro il più alto e il più universale dei generi letterari, uno strumento efficace per affermare un ideale di libertà e per riflette sulla condizione umana. Egli ha scritto dei drammi dove s’incrociano pensiero e fisicità, simbolismo e realismo, la liberazione del flusso delle passioni e delle pulsioni dell’inconscio, la rappresentazione della tensione tra il bene e il male, la rivolta dell’eroe contro il Fato.

Il malinteso (foto di Matteo D’Amico)

Il malinteso (Le malentendu)

È il primo dramma scritto da Camus nel 1944, nel quale l’autore affronta il tema dell’incomunicabilità e della paranoia che finiscono per incidere sul destino di tutti i personaggi che sono prigionieri del loro passato, che sono travolti da un presente senza speranza, perché non vi sono dèi a cui rivolgersi per chiedere soccorso o giustizia. Marta persegue con perversa determinazione e senza possibilità di redenzione la realizzazione di un sogno e non si arresta nemmeno di fronte al delitto; la Madre ha un crudele rapporto con i figli e non esita a uccidere la sua stessa creatura; persino l’innocente Maria non trova la strada della salvezza di fronte al vecchio cameriere che ha assistito in silenzio allo svolgersi degli eventi, assumendo la veste simbolica di una presenza divina indifferente nei confronti dell’umanità. Come gli eroi di Kafka che sono travolti da un incomprensibile destino, Jan non riuscirà a sfuggire alla morte in questa terra piovosa e grigia, nella quale è ritornato per ristabilire antichi affetti. Alla fine tutti sono vittime delle “assurde” contraddizioni di questa storia: l’oscurità e la luce, il delitto e l’innocenza, il male e il bene, l’ingiustizia e la giustizia. In una piccola e imprecisata città della Boemia, la Madre e la figlia Marta gestiscono uno squallido albergo con l’aiuto di un Vecchio Domestico. Si tratta di una gestione crudele e terribile, perché uccidono e depredano uomini soli, ricchi e sconosciuti che hanno la sventura di essere loro ospiti. Omicidio dopo omicidio, le due donne hanno accumulato quel denaro che permetterà a Marta di andare a vivere in un paese in riva al mare, dove il sole cancellerà ogni peccato. Un giorno arriva nell’albergo uno straniero, che in realtà è Jan, il figlio e il fratello partito da ragazzo in cerca di fortuna e che adesso, diventato ricco, vuole fare una lieta sorpresa alla madre e alla sorella, rendendole partecipi del suo benessere.  Per questo rimane in incognito, aspettando che la voce del sangue lo renda riconoscibile, ma questo non accade e Jan sarà l’ultima vittima delle due donne. È proprio Marta che, in modo freddo e distaccato, convince la madre a compiere l’ultimo delitto prima di cambiare vita. Nella sua stanza Jan è angosciato e pensa di andare via per tornare l’indomani e svelare la propria identità, ma Marta gli porta una tazza di tè con un forte sonnifero. L’uomo si addormenta e, poco dopo, Marta, la Madre e il Vecchio Domestico lo gettano in un vicino canale, che è stato macabra sepoltura per tutti i clienti della locanda. Il mattino seguente il Vecchio Domestico mostra alle due donne il passaporto dello sconosciuto e si rendono conto del terribile equivoco: il ricco cliente straniero è in realtà il loro figlio e fratello. La madre, disperata, si getta nelle stesse acque in cui ha fatto scomparire Jan. Prima di suicidarsi Marta, di fronte alla moglie di Jan, che è venuta a cercarlo, afferma che l’omicidio del fratello è stato solo “un malinteso” al pari della sua vita infelice. Annichilita da quella folle giustificazione, Maria urla il suo dolore per chiedere aiuto al Vecchio Domestico, che finalmente parla per dire un solenne “No!”. Questa terribile “tragedia moderna” può essere vista come uno psicodramma dove i personaggi preferiscono affidarsi alla menzogna invece che alla verità: all’origine della mostruosa catena di omicidi c’è forse un Padre, che è scomparso senza una ragione; ci sono Marta e la Madre, che rappresentano la disperazione di vivere e una pulsione di morte; c’è l’innocente Maria, la quale incarna l’amore e la vita, ma che è destinata a diventare la vittima di un orribile “malinteso; ci sono i sogni  di  Marta che la spingono a cercare nell’omicidio l’unica risposta alla sua folle strategia destinata al fallimento e questo la spingerà verso il suicidio, quando scoprirà di avere inutilmente sacrificato la giovinezza all’egoismo insaziabile della Madre; c’è Jan arrivato per ricostruire un rapporto familiare, nascondendosi dietro una menzogna; c’è infine il trionfo del Vecchio Domestico che, dopo avere riconosciuto Jan, con indifferente perfidia e con sadismo rivela alle due donne l’identità dell’uomo solo dopo il suo assassinio. La presenza finale del Vecchio Domestico, che si rifiuta di aiutare la disperata Maria, è il suggello di una tragedia equamente divisa tra follia e cieca banalità del male, nella quale i personaggi sono in balia di un’entità priva di sentimenti che rappresenta il perfetto incontro con il Nulla.

Caligola (Caligula)

Questa tragedia, pubblicata nel 1945, è incentrata sul personaggio dell’imperatore romano Caligola, sul suo modo di concepire ed esercitare il potere secondo una visione del superuomo nietzschiano che si contamina con l’Assurdo. L’imperatore esercita un potere assoluto senza alcun controllo morale e legislativo, inseguendo il sogno di superare la dimensione del reale per arrivare a conquistare l’impossibile. In preda a una follia razionale, Caligola sceglie di agire secondo il suo capriccio, vuole primeggiare e dominare su tutti secondo una volontà di potenza fine a se stessa, senza proporre nuovi valori, senza creare nulla al di fuori della paura e dell’odio. Egli si considera come un assurdo superuomo che esercita il potere per godere di una libertà intesa come arbitrio, predazione, legge di un godimento senza limiti. Seduto sul trono imperiale, giudica, sentenzia e condanna, affonda nel sangue e nella violenza, finisce per essere travolto dalla noia di vivere e dai suoi delitti. Si autoproclama un dio, ma resta indifferente al popolo che soffre la fame; rimane insensibile di fronte a qualsiasi sciagura, insegue un sogno di felicità, vittima di una grottesca “anarchia” che a volte si colora di poesia. Dietro la sua follia si nasconde una logica lucida e spietata, con la quale cerca di spiegare i suoi tormenti e la vacuità dell’esistenza per concludere che si può trovare l’oblio e la libertà solo nella morte, pienamente consapevole che essa arriverà con i pugnali dei congiurati. La vicenda ha inizio tre giorni dopo la morte di Drusilla, la sorella alla quale Caligola era legato da un amore incestuoso. L’imperatore sparisce dalla reggia e, quando fa ritorno, afferma di aver fatto una scoperta: “Gli uomini muoiono e non sono felici”. Decide allora di raggiungere l’impossibile: impossessarsi della luna, abolire le differenze tra il bene e il male, sconvolgere l’intero assetto statale. Comincia a comportarsi con estrema crudeltà: maltratta e perseguita i senatori, uccide i loro parenti, violenta le loro mogli, condanna a morte le persone senza una ragione, inventa assurde gare di poeti, decide di diventare un dio indossando le vesti della dea Venere. Caligola vara una eccentrica politica economica, facendo firmare a tutti coloro che sono benestanti un testamento in cui dichiarano erede universale lo Stato: quando l’erario avrà bisogno di denaro, sarà sufficiente uccidere un adeguato numero di persone e incamerarne le ricchezze. A causa della paura, dell’orrore e del malcontento i patrizi, guidati dal filosofo Cherea, decidono di ordire una congiura per uccidere il despota. Vicino all’imperatore rimane il giovane liberto Scipione pieno di odio verso l’imperatore per l’uccisione dei suoi genitori, ma anche pervaso d’amore per il ruolo di padre di Caligola nei suoi confronti. Accanto a Caligola c’è pure la sua antica amante Cesonia, la quale è ancora accecata dall’amore e si rende complice dei suoi assurdi comportamenti per poi finire vittima dell’imperatore che, preso nel vortice di una spirale autodistruttiva, prima strangola Cesonia, quindi si prepara al suo destino di morte per mano dei congiurati. Quello che rimane al termine di questa tragedia è un senso di pietà per un personaggio che appare un mostro ma in realtà è un individuo spaccato in due: una parte di sé odia l’altra e, solo con il sopraggiungere della morte, Caligola ritroverà la propria unità, liberandosi dal peso opprimente del dolore, di una vita inutile e senza senso. Per l’uomo più potente della terra, dopo essersi nutrito del terrore e della sofferenza altrui, pone fine con la sua morte alla disperata ricerca di qualcosa di straordinario e d’impossibile da raggiungere, a una conquista che possa riempire il vuoto di un mondo abitato da esseri mediocri, governato dal caso, dall’ingiustizia e dall’odio, dove tutti sono colpevoli e innocenti. Camus, che ha definito il suo Caligola una “tragedia dell’intelligenza”, mette in luce il disperato tentativo di rivolta dell’uomo in cerca della libertà assoluta e della conquista dell’impossibile. Lo psicanalista Massimo Recalcati scrive che questo sanguinario Caligola si trova al centro “di un odio inestinguibile, di una povertà di vita… La vita del grande imperatore appare ai suoi stessi occhi vuota come quella di un tronco essiccato. L’odio e la brama di potere cercano vanamente di compensare un grande vuoto inestinguibile”. Lo stesso Caligola rivelala sua disperata condizione umana: “Non avrò la luna. Comincio ad avere paura. Ah, che abiezione, che schifo, che senso di vomito sentirsi crescere dentro quella stessa viltà e quell’impotenza che abbiamo disprezzato negli altri. La viltà! Ma che importa? Nemmeno la paura dura tanto. Sto per ritrovare quel grande vuoto in cui l’anima si placa. Tu sei imperatore, il che è molto. Ma io non sono niente, il che è poco…Dicono che ho il cuore duro…Ma non è possibile che sia duro, perché al posto del cuore io non ho niente, nient’altro che un grande buco vuoto nel quale si agitano le ombre delle mie passioni”.  

Gaius Caesar

Lo stato d’assedio (L’État de siège)

Questo dramma di Camus, scritto nel 1948, non ha avuto successo quando è andato in scena il 27 ottobre 1948 nel Thèâtre Marigny di Parigi con la regia del grande attore Jean-Louis Barrault (che aveva sollecitato Camus a scriverlo), con le scenografie del pittore Balthus e le musiche di Arthur Honegger. La tragedia è ambientata a Cadice in Andalusia ed è caratterizzata da un linguaggio lirico-simbolico, dalla presenza di personaggi altrettanto simbolici impegnati in un tragico scontro tra potere e desiderio di libertà, tra egoismo e spirito di sacrificio. L’autore crea il personaggio principale della Peste come un tiranno dei nostri tempi che vuole imporre la sua legge e la sua burocrazia per essere il padrone della vita di tutti i cittadini. Appena entrato in città, egli dichiara: “Io regno: è un fatto, quindi è un diritto. Ma un diritto che non si discute: dovrete adattarvi. Non fatevi illusioni, del resto: io regno a modo mio, e sarebbe più esatto dire che io “funziono”. Voi siete un poco romantici, spagnoli, e mi vedreste volentieri sotto l’aspetto di un re negro o di un sontuoso insetto. Si sa: voi avete bisogno di patetico. Ebbene, no. Non ho scettro, io, e ho preso l’aspetto di un sergente. È il mio modo di tormentarvi, perché è bene che siate tormentati: avete tutto da imparare…Il suo palazzo è una caserma, il suo padiglione da caccia un tribunale. Lo stato d’assedio è proclamato… Attenti alle idee irragionevoli, ai furori dell’anima… Ho soppresso questi minuti piaceri e ho istituito la logica. La diversità e l’arbitrio mi ripugnano. A partire da oggi sarete ragionevoli… Vi porto il silenzio, l’ordine e la giustizia assoluta. Non vi domando di ringraziarmi: esigo la vostra obbedienza”. Al fianco della Peste opera la Segretaria (che alla fine getterà la sua maschera per assumere il volto della morte), la quale ha il compito di tenere un registro con i nomi di tutti i cittadini da cui trarre coloro che sono destinati a morire secondo l’insindacabile volontà del padrone. Ai due si aggiunge il personaggio di Nada (il Nulla), un filosofo miserabile e nichilista, senza dignità, senza onore, senza principi, che assumerà l’incarico di capo della Burocrazia destinata a regolare minuto per minuto la vita dell’umanità. La Peste viene sconfitta da un eroe popolare (Diego) che sacrifica la sua vita e il proprio amore per ottenere in cambio la salvezza della donna amata (Vittoria) e tutto il popolo di Cadice, ma la Peste sconfitta non si rassegna e prima di lasciare la città dice: “Sì, me ne vado ma non gridate vittoria: sono contento di me. Anche qui abbiamo lavorato bene. Mi piace che si parli tanto di me e so che, adesso, non mi dimenticherete più. Guardatemi: guardate un’ultima volta la sola potenza del mondo. Riconoscete il vostro vero sovrano e imparate la paura. Prima avevate la pretesa di temere Iddio e i suoi colpi di testa. Ma il vostro Dio era anarchico e confondeva i generi. Credeva di poter essere al tempo stesso, buono e potente. Non era logico, né sincero… Io ho scelto la potenza e nient’altro. Ho scelto il dominio e ora sapete che è cosa più seria dell’inferno”. Quando la città è ritornata libera, un capopopolo (il Pescatore), dopo che Nada si è gettato nel mare in tempesta, così conclude il dramma: “È caduto. Le onde impetuose lo sferzano e lo soffocano dentro le loro criniere. Il mare furibondo ha il colore degli anemoni. Ci vendica. La sua ira è la nostra. Grida l’adunata a tutti gli uomini del mare per il convegno dei solitari. O onda, o mare, patria degli insorti, ecco il tuo popolo che non cederà mai”. Camus ha dichiarato di non essersi ispirato al suo romanzo La peste, ma di aver tratto l’idea dal Diario dell’anno della peste di Daniel De Foe (1772) per scrivere questo lavoro che “non è una pièce di struttura tradizionale, ma uno spettacolo creato con l’ambizione dichiarata di fondere tutte le forme di espressione drammatica, dal monologo lirico al teatro collettivo, attraverso la pantomima, il semplice dialogo, la farsa e il coro”. In questo dramma l’autore affronta i temi del contagio, della solitudine, dell’alienazione, della creazione di una dittatura attraverso la strumentalizzazione della paura, della manipolazione, rassegnazione e della sottomissione, ma parla anche del coraggio, della solidarietà e delle forza del riscatto, anche se la ribellione dell’eroico Diego rimane un atto individuale, perché il popolo assiste passivamente al suo sacrificio e solo dopo la sconfitta della Peste aprirà le porte della città per fa entrare il vento e il sale purificatore del mare. Con questo “dramma d’amore” Camus, attraverso un complesso gioco di simboli e di significati, intende “elaborare una moralità moderna” capace di assumere un valore universale per mettere in guardia contro un possibile ritorno nel mondo dei regimi totalitari, sostenendo che non  si può “scendere a patti” con la tirannia.

I Giusti (Les Justes)

Come nel Malinteso è presente Kafka, in questo ultimo dramma, scritto nel 1949, si avverte l’influenza dei Demoni e dei Fratelli Karamazov di Dostojevskij, un autore che Camus ha molto amato, dal quale però si differenzia per alcune prese di posizione: egli trasforma lo slancio mistico in una rivolta che renderà l’uomo libero su questa terra, portandolo ad accettare le sofferenze, le gioie e soprattutto la morte che rimane sempre un evento assurdo e terribile; i suoi personaggi sono degli eroi della coscienza umana, dei ribelli impegnati a battersi in difesa della libertà e felicità dell’uomo, mentre i personaggi di Dostojevskij sono dei peccatori tormentati dall’orgoglio e dalla negazione metafisica. Camus condanna l’inconcludente posizione dei rivoluzionari nichilisti, la loro tragicità che li spinge a uccidere per rivoltarsi contro Dio, che sono oppressi dalla mancanza d’amore e dalla solitudine, finendo per essere implacabile e infelici. In Russia i tre terroristi Dora Doulebov, Boris Annemkov e Stefan Fedorov stanno preparando un attentato contro il granduca Sergiei Romanov. Il compito di scagliare la prima bomba è affidato a Ivan Kaliayev che accetta di eseguire il tirannicidio, perché sa che, a seguito dell’atto omicida, offrirà la propria vita affrontando la condanna a morte. Nel giorno stabilito il giovane non scaglia la bomba, perché sulla carrozza con il granduca ci sono due suoi nipotini che egli ritiene degli innocenti. Rimproverato dai compagni, egli non si ritiene più in grado di uccidere, ma poi scopre di amare Dora e di essere amato da lei. Questa certezza gli dà la forza per vincere ogni dubbio e per compiere l’attentato. Così questa volta scaglia la bomba e uccide il granduca. In carcere scopre di non avere un linguaggio comune con il popolo che vuole liberare, non accetta il perdono della granduchessa che vorrebbe chiedere per lui la grazia, perché si sente colpevole e vuole testimoniare la sua coerenza di fronte ai compagni, per cui sale sul patibolo senza alcun cedimento. Dora, a sua volta, ottiene di eseguire il prossimo attentato, in modo di seguire con la sua condanna a morte lo stesso cammino dell’uomo amato. Camus usa toni distaccati e persino cronachistici, quasi fosse ormai stanco di omicidi e suicidi, di morte e violenza e sentisse il bisogno di affrontare questo tema per liberarsene definitivamente, per manifestare il suo dissidio nei confronti del Partito comunista francese, lo stalinismo e l’inasprirsi della Guerra fredda, pure riaffermando la sua fede nelle idee rivoluzionari e nel socialismo. I Giusti sono terroristi che, attraverso l’omicidio politico, vogliono costruire un mondo migliore, per cui il termine “Giustizia” diventa la parola-chiave del dramma, un miraggio che delude questi uomini quando scoprono che nella società la Giustizia si pone al servizio di interessi, egoismi e violenze anche quando è amministrata con equità. Quando il protagonista Kaliayev, dopo avere ucciso il Granduca Sergej Romanov, si rende conto che è impossibile raggiungere la libertà e la felicità, rifiuta il perdono e la richiesta di grazia che gli offre in carcere la Granduchessa, perché vuole riparare con la morte la sua azione omicida, per trovare una giustificazione al suo delitto, trasformandosi da un assassino in un martire che si sacrifica per amore verso l’umanità. Questi rivoluzionati intellettuali sono tormentati dal conflitto tra Idea e Realtà, tra morale e politica, tra la possibilità di una radicale trasformazione della società e la necessità di scegliere quali azioni possano dare una giustificazione morale alla violenza e al terrorismo. Il focus della vicenda consiste nello scontro serrato di questi personaggi di fronte a determinati ideali assoluti che diventano altrettante parole-chiave: Nichilismo e Rivoluzione, Amore e Odio, Libertà e Oppressione, Colpa e Redenzione, Punizione e Perdono, Grazia e Pentimento. Si tratta di conciliare il desiderio di giustizia e di amore per gli uomini con un’azione rivoluzionaria che renda necessario l’uso estremo della violenza in nome della Giustizia. Kaliayev (il personaggio più vicino all’autore) è consapevole che il coinvolgimento di persone incolpevoli diventa un’insopportabile offesa alla purezza dell’azione rivoluzionaria e che si renda necessario mettere in gioco la propria vita come atto di espiazione. Camus, nonostante sia consapevole che l’anelito verso la speranza dovrà sempre scontrarsi con le ragioni della disperazione, si schiera dalla parte degli eroi puri e propone di costruire una società nella quale sia eliminato ogni impulso alla violenza e non sia più necessario usare l’odio per affermare l’amore.