Appropriazione indebita di opera d’arte: “Cavalleria rusticana” e “Pagliacci” all’Opera di Roma


di Andrea Zepponi

20 Apr 2018 - Commenti classica, Musica classica

La smania di protagonismo che spinge un regista ad appropriarsi di ciò che non è suo è pericolosa e, se non viene prontamente giudicata dal pubblico, non ha freno, specialmente quando è una direzione artistica a promuovere i pruriti attoriali di registi che vogliono comparire a tutti costi, pretendono di inserire a forza il proprio avulso vissuto nel fatto artistico, beccandosi il lauto cachet, senza lavorare in merito al tessuto drammatico originale, che viene deformato e piegato indebitamente. È ciò che è successo all’Opera di Roma alias Teatro Costanzi durante l’esecuzione del dittico verista di Cavalleria rusticana e Pagliacci rispettivamente di Pietro Mascagni e di Ruggero Leoncavallo, domenica 8 aprile in pomeridiana, dove si vedeva un sedicente regista aggirarsi continuamente nel palco arrogandosi il ruolo di attore, in comparsate arroganti e spocchiose, ora assumeva il ruolo di fine dicitore nel recitare prologhi posticci (di cui uno perfino stampato sul programma di sala) bagnati di ricordi personali e infarciti di citazioni da Ungaretti, ora figurante ballerino che scimmiottava la musica in modo irritante e infine plateale ladro di battute quando rubava quella finale di Canio:  “La commedia è finita!”. La gigionaggine di questa infame regia si accompagnava ad una povertà insulsa di lavoro scenico in cui i cori erano desolatamente statici, i cantanti abbandonati a se stessi e immobili per lo più, ma attraversati da vanvere irrelate come l’introduzione di due diversamente abili come figuranti dietro i quali il regista si riparava vilmente – così da non potersi dir nulla contro chi fa lavorare dei disabili e sarebbe come sparare sulla croce rossa – che vengono citati per nome nelle note di sala addirittura spacciati come “due Arlecchini perfetti”.  Non pertinenza scenica, non approfondimento drammatico durante i duetti Santuzza- Turiddu, Santuzza- Alfio,  Nedda- Silvio, Canio- Nedda, solo piattume e idee trite, mentre invece il regista continuava a bullarsi per la scena e per la platea dove ha pornograficamente gettato anche petali di rosa in faccia al pubblico. Questa porcata è l’ennesima, irritante e gradassa espressione dell’attuale smania di satanica onnipotenza del regista di opera lirica che, se in genere viene investito da direzioni artistiche, votate al facile sensazionalismo scandalistico e non all’arte, di un ruolo preponderante non suo e che gli permette di stravolgere il fatto artistico musicale confondendo lo spettatore, questa volta da megalomane è uscito allo scoperto con tutta la sua maniacale pulsione autoesibizionistica. Una boria che insultava platealmente il pubblico reso schiavo consenziente senza più identità, in quanto non può più riconoscere alcun rapporto tra la sua legittima idea dell’opera e una sua indegna messa in scena, mentre viene tacitato in ogni suo dissenso dalla morsa del pensiero unico che non ammette proteste contro chi si ripara dietro i casi pietosi della disabilità e dell’imperscrutabile diversamente colto. Eppure le contestazioni durante e dopo lo spettacolo sono state numerose ed eclatanti, tanto che posso dire di non averne mai sentite né viste di così gravi e pesanti nei confronti di una regia. Ma vogliamo ancora vedere veramente il carretto siciliano di Alfio in Cavalleria? Vogliamo ancora vedere le maschere della commedia dell’arte in Pagliacci? Ovviamente non c’erano perché il regista, annullando i simboli presenti nel testo e mettendone di suoi – il letto rosso del peccato in mezzo alla scena e Nedda – Silvio separati ai lati opposti della scena, salvo poi vederli insieme avvinti sull’univoco letto, tradiva che lui se ne frega bellamente del testo, ma non riesce proprio ad eludere il linguaggio simbolico. Il tutto all’insegna del “Voglio, ma non posso”. E sì che di mezzi a disposizione in un teatro come il Costanzi di Roma non ne mancano di certo. La scena fissa per entrambe le opere di Sergio Tramonti, un’imponente boiserie rossa di tipo ecclesiastico, che sullo sfondo si apriva su un paesaggio notturno rilucente di stelle e ai lati con porte gettanti luce sulla scena, aveva pure una sua bellezza e suggestione anche grazie alle luci di Enrico Bagnoli incaricate di esprimere il dramma al momento giusto con una rubricazione ulteriore della scena. Qui, sedie su sedie, un tavolo della taverna di Mamma Lucia, in Cavalleria, ambientata negli anni ’50 del ‘900, facevano da supporto alla staticità dei cori e la sensazione della difficoltà di muovere le masse corali si tagliava con il coltello. In Pagliacci s’è vista una maggiore vivacità cromatica, i costumi veramente belli e variegati di Giusi Giustino, che ha rivestito finemente i commedianti del carro tespico della compagnia di Canio, tra cui quelli di Nedda che alludevano al carattere di danzatrice. Se quanto di bello e pertinente veniva solo dai costumi, – il primo round del dittico era praticamente un’esecuzione semiscenica – il vero fulcro artistico era costituito dai cantanti e dall’orchestra – operazioni come queste non fanno altro che riaffermare l’originaria valenza principale dell’opera lirica italiana: quella musicale e non quella scenica. Il debutto nel ruolo di Santuzza del mezzosoprano Anita Rachvelishvili è riuscito, la figura è credibile scenicamente e la vocalità adattissima alla parte, fluviale sia negli acuti che nella zona grave. La sua imponenza fisica trova riscontro in quella vocale che ha accenti vellutati nella zona medio-grave e una buona uguaglianza di registro che non scade pressoché mai in quello di petto: nitidezza di fraseggio e dinamiche nette fin da “Voi lo sapete, o mamma” rivelavano il suo sano approccio al verismo italiano. Voce dalla cavata timbrica chiara e dalla bella espansione quella del tenore Alfred Kim in Turiddu – dalla pronuncia volenterosa, ma la sua “gnagnera” è ancora troppo orientale oltre all’impaccio scenico non supportato da una regia intelligente e adeguata. Ben timbrato e convincente il baritono Gevorg Hakobyan in Alfio, con gesti vocali netti e sicuri, sempre più in luce nel corso della serata con il personaggio di Tonio cui ha dato una dignità e uno smalto notevoli a partire dall’ottimo Prologo con il suo la bemolle acuto ben spiccato. Una Martina Belli affascinante in senso vocale e fisico, nel ruolo di Lola, ha centrato il personaggio trasposto in pieno 900 e modellato su qualche figura cinematografica come la Malena di Tornatore o addirittura la Shakira di Costa Crociere. Molto più personale e drammatica la Lucia del mezzosoprano Anna Malavasi, capace di delineare la tragedia con pochi gesti e accenti incisivi di una vocalità duttile e capace di incarnare da sola la dimensione tragica della vicenda. Trionfatori della serata sul versante canoro sono, in Pagliacci, il tenore Fabio Sartori il quale è un Canio intenso e verosimile anche dal punto di vista del fisique du rôle, e il soprano Carmela Remigio al suo debutto in Nedda: il primo ha il giusto peso vocale nella zona acuta, meno nitido nella zona medio-grave dove si nota qualche ruvidezza di troppo, ma nel complesso la tenuta è solida, l’impennata verso il passaggio acuto sicura ed efficace nel gesto contenuto ed eloquente nel contempo  per tradurre il malcelato furore di Canio durante la fatale scenetta finale e l’esplosione canora applauditissima è nel Vesti la giubba, dove, solo, di fronte al mare lucente e oscuro dello sfondo, esclama all’universo il suo dolore; la seconda era padrona assoluta della scena sia nel mimare il lato caricaturale della Colombina e la sua attitudine alla danza, disinvolta anche nella vita sentimentale sia nel metabolico e bruciante finale tragico presagito fin dal duetto con Tonio: “So ben che difforme”; la presenza vocale della Remigio, precisa e ben proiettata in tutta la gamma vocale, ha rinnovato l’impressione che il ruolo di Nedda vada affrontato con una vocalità belcantista e che il verismo non sia altro che uno degli sviluppi del belcanto italiano: magistrale la sua interpretazione di Qual fiamma avea nel guardo. Non meno eccellenti risultavano Dionisios Sourbis nei panni di Silvio dal timbro caldo e suadente – uno dei pochi baritoni amorosi nella tradizione lirica italiana – e, soprattutto, il Beppe di Matteo Falcier, splendida voce di tenore lirico-leggero dall’emissione morbida e svettante, acclamatissimo in uno dei brani lirici più scoperti di tutta la storia dell’opera O Colombina il tenero, fido Arlecchin. Il pubblico ha avuto di che essere pienamente soddisfatto anche dal punto di vista orchestrale e corale perché l’Orchestra e il Coro del Teatro dell’Opera hanno eseguito le due partiture in maniera impareggiabile, grazie all’ottimo lavoro del M° del coro Roberto Gabbiani e alla eloquente  direzione del M° Carlo Rizzi che ha saputo far emergere i passaggi solistici e gli affioramenti tematici di un’orchestra dai registri sinfonici, ampiamente gestiti anche nella tempististica leggermente più veloce rispetto alle attese di tipo tradizionale e senza indulgere ai rubati di maniera soprattutto nei brani più famosi come il Brindisi di Turiddu e Coro. Alla fine applausi per tutti tranne la regia clamorosamente “buata” e fischiata.

Teatro dell’Opera – Stagione 2017/2018
CAVALLERIA RUSTICANA
Opera in un atto
Testo di Guido Menasci e Giovanni Targioni-Tozzetti
tratto dalla novella omonima di Giovanni Verga
Musica di Pietro Mascagni

Santuzza Anita Rachvelishvili
Lola Martina Belli
Turiddu Alfred Kim
Alfio Gevorg Hakobyan
Lucia Anna Malavasi

Allestimento Teatro di San Carlo di Napoli

PAGLIACCI
Opera in due atti
Libretto e musica di Ruggero Leoncavallo

Canio Fabio Sartori
Nedda Carmela Remigio
Tonio Gevorg Hakobyan
Beppe Matteo Falcier
Silvio Dionisios Sourbis

Nuovo allestimento

Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma
con la partecipazione della Scuola di Canto Corale del Teatro dell’Opera di Roma
Direttore Carlo Rizzi
Maestro del Coro Roberto Gabbiani
Regia Pippo Delbono
Scene Sergio Tramonti
Costumi Giusi Giustino
Luci Enrico Bagnoli

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