Per un ricordo del maestro Bernardo Bertolucci


di Francesco Pascali

29 Nov 2018 - Commenti cinema

Ci sono delle persone che accompagnano implicitamente le nostre vite e le rendono più belle e più profonde. Sono i grandi maestri: Bernardo Bertolucci era senz’altro uno di questi. Sapeva raccontare la realtà, senza tuttavia privare lo spettatore di elementi più immaginifici, legati al sogno e alla ricerca della bellezza. Sapeva raccontare la Storia partendo dalle singole esperienze che l’animo umano vive, in tutta la sua complessità.
È questa la forza inedita di Bernardo Bertolucci e del suo cinema, graffiante e polemista, ma anche intenso e poetico. Basti pensare alle immense carrellate sulla campagna emiliana nell’epopea storica di Novecento – complice il maestro delle luci Vittorio Storaro, suo storico collaboratore e amico. O alle pagine di giornale strappate che si sollevano dalle rive del Tevere e si diffondono per il paesaggio, avvolte dal suono di un vento straniante, prima dei titoli di testa de La commare secca. Sono tutti momenti di profonda poesia.
Non è un caso che sia stata proprio la poesia a gettare le basi della formazione culturale di Bernardo Bertolucci. Nato a Parma il 16 marzo 1941, figlio del grande poeta Attilio, si cimenta giovanissimo nella scrittura di versi (che pubblicherà, su consiglio di Pasolini, nella raccolta In cerca del mistero), e si iscrive alla facoltà di Lettere presso La Sapienza di Roma. Ma la sua più grande passione è il cinema: abbandona gli studi e segue Pier Paolo Pasolini, intellettuale neofita nel cinema e suo fondamentale maestro, assistendolo durante le riprese di Accattone. L’anno dopo, esordisce come regista e sceneggiatore con La commare secca (1962), sviluppato insieme a Sergio Citti da un soggetto di Pier Paolo Pasolini. Si afferma con Prima della Rivoluzione (1964), a cui seguono La via del petrolio, Partner e Strategia del ragno. Nel 1970 adatta il romanzo dell’amico Alberto Moravia, Il conformista. Due anni dopo esce Ultimo tango a Parigi, che segnerà per sempre la storia del cinema e conferirà al maestro fama internazionale. Il film causa un fortissimo impatto emotivo sul pubblico, che ne omette completamente il significato culturale e psicanalitico, e nel 1976 la censura ordina il rogo dei negativi. Soltanto nel 1987 la pellicola riuscirà a ritrovare un’aurea e verrà recuperata in quanto “non oscena”. Forte di questo straordinario successo, Bertolucci sa di potersi permettere davvero tutto. Anche di “acquistare delle bandiere rosse con i soldi delle major americane” (come lui stesso ha ironicamente raccontato al Cinema Nuovo Sacher di Roma lo scorso 16 aprile). Nel 1976 realizza infatti l’ambiziosa opera Novecento, racconto in due atti della storia italiana dal 1900 fino al 1945, attraverso le esperienze e l’amicizia tra un ricco possidente, interpretato da Robert De Niro, e un contadino (Gerard Depardieu). Alla realizzazione del film collabora il fratello minore Giuseppe, anche lui regista e sceneggiatore, a cui Bernardo è stato sempre molto legato. Seguono il racconto incestuoso de La Luna (1979) e La tragedia di un uomo ridicolo (1981), con Ugo Tognazzi e una giovanissima Laura Morante, film considerato “minore” che andrebbe riscoperto. Si allontana poi dall’Italia, realizzando il capolavoro che lo consacra definitivamente a livello mondiale: L’ultimo imperatore (1987) vince 9 premi Oscar, tra cui miglior film e miglior regia. Nel 1990 esce Il tè nel deserto, tratto dal romanzo di Paul Bowles, a cui segue Piccolo Buddha (1993). Io ballo da sola (1996), con Stefania Sandrelli, Liv Tyler e Jeremy Irons, segna il ritorno del maestro a girare in Italia dopo una lunga assenza. L’assedio è del 1998 e gli anni duemila sono inaugurati da The Dreamers (2003), racconto delle incontrollate pulsioni sessuali di tre ragazzi, sullo sfondo della Parigi del Sessantotto. L’ultimo film di Bernardo Bertolucci è Io e te (2012): tratto da un romanzo breve di Niccolò Ammaniti, viene presentato fuori concorso al Festival di Cannes, dove l’anno prima il regista aveva ricevuto la Palma d’oro alla carriera.
La cifra distintiva della complessa filmografia di Bernardo Bertolucci è probabilmente il desiderio di immergersi completamente nelle più varie sfaccettature della contemporaneità. Colpisce la modernità formale del suo cinema: la perfezione armonica, a volte quasi violenta, che caratterizza la luce dei suoi film (diceva infatti che “non si dimentica la luce di un film”). L’attenzione che il suo sguardo rivolge alle contraddizioni dell’animo umano, che si tratti della tragedia di un uomo ridicolo o della grande Storia italiana. E su tutto, il suo incondizionato amore per il cinema – con un occhio di riguardo a Godard e alla Nouvelle Vague – e per la vita.
Probabilmente Pier Paolo Pasolini intravedeva tutto questo già nel 1957, quando gli dedica la poesia A un ragazzo, inclusa nella raccolta La religione del mio tempo: “[…] Ti piace questo mondo! Non forse // perché è nuovo, // ma perché esiste: per te, // perché tu sia // nuovo testimone, dolce-contento al quia…”.
Lunedì scorso, il 26 novembre 2018, Bernardo Bertolucci è morto all’età di 77 anni, nella sua casa romana in Via della Lungara. Mi piace pensare che i film che ha lasciato continueranno a emozionarci, a sprigionare la loro forza. Che continueranno a diffondersi, come le pagine di giornale immerse nel vento prima dei titoli de La commare secca. Per mantenere viva la sua voce.

Sequenza del film Novecento Atto II, “La liberazione”

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