“SHI Si faccia” bellissimo spettacolo in onore di Matteo Ricci


di Alberto Pellegrino

17 Ago 2017 - Commenti classica, Musica classica

Macerata. SHI Si faccia è la frase che pronuncia l’imperatore della Cina quando concede per la prima volta l’autorizzazione a seppellire uno straniero in terra cinese. Si tratta del gesuita maceratese Matteo Ricci (1552-1610), matematico, geografo, astronomo e musicista che arriva in Cina nel 1582 con la missione d’introdurre la religione cristiana in quel vasto continente. Ricci è stato il primo a compilare un dizionario cinese-portoghese, a scrivere un Catechismo cattolico in lingua cinese, a costruire mappamondi, orologi e astrolabi, introducendoli in paese che ne ignorava l’esistenza. Egli ha condotto un’opera di evangelizzazione ma soprattutto ha creato un ponte tra la cultura occidentale e la cultura orientale, perché era un uomo che amava la conoscenza e credeva nel valore della cultura come strumento di comunicazione tra i popoli.
Lo spettacolo, che si è tenuto nel Teatro Lauro Rossi in occasione di Macerata Opera festival nei giorni 20 e 26 luglio, 2 e 9 agosto, è un’opera da camera in cinque scene composta da Carlo Boccadoro per due pianoforti e tre ensemble di percussioni. Il musicista ha scritto una partitura volutamente priva di orientalismi formata da “una musica come qualsiasi altra – dice il compositore – è ascoltabile da chiunque, anche da chi non è abituato al linguaggio contemporaneo”. Questo risultato è stato raggiunto, perché la musica non ha mai dominato la scena, ma ha accompagnate le vicende di questa rappresentazione, sottolineando i vari passaggi della narrazione e facendo da supporto al canto.
Bello e poetico il libretto scritto da Cecilia Ligorio (autrice anche di una regia molto lineare e altrettanto efficace), nel quale si è voluto ricreare il percorso di vita di un uomo fatto di scienza e di fede, di determinazione e gusto per la scoperta, ma anche di solitudine, di fatica, di rinunce e dubbi, un uomo tuttavia deciso a sacrificare la propria vita per un ideale religioso, artistico, esistenziale, condividendo le proprie speranze e conquiste con i propri compagni d’avventura.
La Ligorio ha portato sulla scena tre personaggi che sono altrettante sfaccettature di Matteo Ricci: il viaggiatore rappresenta il Matteo più giovane deciso a partire per seguire la sua vocazione, pronto a superare le asperità e i pericoli del viaggio persino quando la sua nave fa naufragio e lui rimane l’unico superstite; L’uomo che guarda incarna il dubbio, le difficoltà a superare gli ostacoli che la vita quotidianamente impone; infine il Matteo storico è l’uomo che s’impegna, lavora, si batte contro le difficoltà nonostante lo scorrere del tempo, l’uomo che invecchia e muore, che avverte il peso dei tanti fratelli gesuiti che in Cina ha perduto la vita per malattie o per incidenti.
Questa trinità onirica – come la definisce l’autrice – prende vita sulla scena con continui passaggi dalla recitazione al canto secondo la tradizione degli antichi oratori sacri, grazie anche alla presenza di tre bravissimi interpreti: l’attore Simone Tangolo (Il viaggiatore), i due baritoni Roberto Abbondanza (Matteo) e Bruno Taddia (L’uomo che guarda), che “con la stessa tessitura – dice Carlo Boccadoro – risultano omogeni e praticamente interscambiabili affinché, data l’unicità della persona, le due parti si fondano spesso insieme diventando quasi una voce sola”.
La prima scena riguarda la tempesta in mare e il difficile approdo in Cina di Matteo, che promette d’impegnarsi a imparare il cinese per effettuare la sua missione di evangelizzazione. Nel 1583 Matteo, che è dotato di una straordinaria memoria, è impegnato a scrivere il dizionario, a inventare ogni tipo di giochi e strattagemmi per apprendere una lingua difficilissima, risolvendo anche il problema di assegnare un nome cinese al Dio dei cristiani: poiché tutti sono figli del Padre nostro che è nei cieli, lo chiameranno Tienzhu, perché in cinese “tien” significa cielo e “zhu” significa signore, per cui Dio si chiamerà il “Signore del Cielo”.
Si accende un contrasto tra Matteo e L’uomo che guarda, perché questi sostiene che bisogna partire dal popolo per poter penetrare in un paese così misterioso, mentre Matteo afferma che bisogna conquistare il Re e allora tutte le strade dinanzi a loro si sarebbero aperte. Matteo è impegnato nella costruzione di un grande mappamondo da donare all’imperatore della Cina e finalmente arriva la notizia che l’imperatore, ricevuto il dono, vuole conoscere Matteo. Nel 1601 a Matteo è stato concesso di vivere a Pechino, gli hanno aperto le porte della Città Proibita, ma soffre di una nuova inquietudine, perché ci sono voluti 23 anni per arrivare fin lì e l’imperatore ora vuole degli orologi che lo fanno tanto divertire. Matteo è giunto alla fine del suo tempo (“È il tempo affamato/che addenta anche le viscere”), un improvviso malore lo fa cadere a terra ed è consapevole di non aver compito in pieno la sua missione anche se “sente vicino il respiro di Dio. Matteo muore mentre i suoi due compagni pregano per lui e giunge la notizia che per la prima volta l’imperatore ha concesso la sepoltura a chi “s’era fatto cinese/e morto era da cinese”.
Alla piena riuscita di questo spettacolo hanno contribuito le scene, i costumi e le luci progettate dall’Accademia di Belle Arti di Macerata: si è trattato di uno spettacolo nello spettacolo in un continuo caleidoscopio di colori, di un procedere dal giorno alla notte in una successione d’ideogrammi, segni dello zodiaco e costellazioni, mappe geografiche, orologi e mappamondi ottenuta attraverso l’animazione video di Igor Renzetti.

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