Più pro che contro per “Qualcuno volò sul nido del cuculo”


di Elena Bartolucci

7 Dic 2022 - Commenti teatro

Una rivisitazione piuttosto pretenziosa di un grande cult che, nonostante un cast eccezionale, non riesce a sopperire sempre all’estrema lunghezza della messa in scena. Grande prova di Daniele Russo.

(Fotografie © Rosellina Garbo)

Ancona – Lo scorso sabato 3 dicembre sul palcoscenico del Teatro delle Muse di Ancona è stato portato in scena lo spettacolo Qualcuno volò sul nido del cuculo.

Pubblicato nel 1962 da Ken Kesey, il romanzo fu poi trasformato in un adattamento scenico per Broadway e solo poco più tardi nell’omonimo film di Miloš Forman con cui Jack Nicholson portò sul grande schermo una delle interpretazioni più folgoranti della storia del cinema.

La drammaturgia iniziale di Dale Wasserman è stata rielaborata dallo scrittore Maurizio de Giovanni, che ha fatto un restyling del testo avvicinandolo ai tempi attuali. Randle McMurphy della versione originale americana diventa infatti Dario Danise, un goliardico sciupafemmine partenopeo e truffaldino che, per sfuggire alla galera, si finge pazzo. Viene quindi trasferito nell’Ospedale psichiatrico di Aversa, dove farà la conoscenza della rigida e cinica suor Lucia e di sei sconclusionati compagni di avventura.

La storia prende vita nel 1982, a ridosso della finale dei Mondiali vinti dalla nazionale italiana. Grazie alla sua simpatia e leggerezza, Dario conquista tutti sin da subito, ma al tempo stesso diventa simbolo di una piccola ribellione interna, che lo porterà ad affrontare diversi problemi con al suo fianco i suoi nuovi amici.

Le similitudini con il film di Forman ci sono, ma l’intera struttura narrativa è decisamente troppo calante.

Se l’opera originale aveva rappresentato un segno di denuncia delle pessime condizioni in cui versavano i pazienti nei manicomi statunitensi negli anni ’70, la versione proposta da Maurizio de Giovanni sdrammatizza troppo il testo, perdendo quella malinconia insita in un racconto tanto spietato quanto realistico. Ognuno dei personaggi diventa quasi una forzatura, dato che la leggerezza usata nel testo è più tendente alla caricatura delle singole vulnerabilità. Seppur molte battute riescono a strappare grasse risate al pubblico, è innegabile che a lungo andare, in particolare nel secondo tempo, la storia inizia a cedere allontanandosi definitivamente da quella che era la trama di base e cercando in tutti i modi di allungare il già visto.

Non avrebbe avuto certamente senso emulare un film che ha segnato la storia del cinema, ma l’adattamento teatrale che ne è stato fatto ha oltrepassato forse il limite, inciampando anche in alcune libertà di scrittura discutibili (ad es. l’uso della lobotomia per acquietare i pazienti più difficili in un periodo in cui questa tecnica non poteva essere più adoperata all’interno del sistema sanitario).

Inoltre, lo spessore psicologico e la dignità celati da ciascun personaggio vengono troppo appiattiti, sul finale, senza regalare troppe emozioni seppure sia la sceneggiatura che la regia ricorrono a diversi espedienti per poter dare più ritmo alla storia.

La bravura di tutti gli attori (Mauro Marino, Viviana Lombardi, Giacomo Rosselli, Emanuele Maria Basso, Alfredo Angelici, Daniele Marino, Gilberto Gliozzi, Gaia Benassi, Sergio Del Prete, Antimo Casertano e Renato Bisogni) è indiscutibile: sono riusciti a dare vita a figure a tutto tondo che, attraverso piccole manie, dialetti e gesti compulsivi, riescono subito a conquistare la simpatica degli spettatori.

Su tutti spicca però l’interpretazione di Daniele Russo, che attraverso tutta la carica partenopea del suo personaggio riesce a dimostrare di saper calcare il palcoscenico senza nessuna battuta di arresto, capace di mantenere un ritmo narrativo a dir poco eccezionale.

In quasi tre ore di spettacolo il pubblico avrebbe però preteso maggiori colpi di scena o quanto meno una rilettura dell’opera più strutturata e meno mortificante rispetto al cuore della storia originale: la speranza di essere liberi anche se si versa in condizioni non “normali”.

La regia di Alessandro Gassmann è ben calibrata anche se, a nostro avviso, quest’opera non rappresenta sicuramente il suo lavoro più riuscito. Neppure la tecnica del velatino sul proscenio, diventata ormai un marchio di fabbrica dei suoi spettacoli, è in grado di rilanciare una storia non sempre lineare. Le videoproiezioni riescono in alcuni momenti a dare maggiore ritmo alla storia, ma in altri sembrano solo aggiunte per creare un gioco di prospettive avvincenti.

Ottimo l’uso delle luci di Marco Palmieri, in grado di creare una giusta atmosfera, al contrario delle musiche di Pivio e Aldo De Scalzi che arrivano spesso in momenti poco opportuni. La struttura scenografica semichiusa (di ottime fattezze che porta la firma di Gianluca Amodio) non ha agevolato l’acustica del teatro delle Muse rendendo molto difficile, in alcuni momenti, per qualsiasi spettatore, poter seguire attentamente i dialoghi.

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