La “Tosca” allo Sferisterio: una occasione mancata


di Alberto Pellegrino

4 Ago 2022 - Commenti classica

Dopo l’intervento critico già uscito nel nostro magazine sulla Tosca dello Sferisterio di Macerata (https://www.musiculturaonline.it/la-tosca-dello-sferisterio-tra-teatro-e-cinema/), Pellegrino prende in esame la messa in scena deludente di Valentina Carrasco, già ammirata, per la sua indiscussa bravura, per la sua Aida 2021, uno spettacolo che fu definito intelligente, raffinato e affascinante.

(ph Luna Simoncini)

Gli aspetti vocali e musicali di Tosca sono già stati analizzati sulla nostra rivista dalla collega Roberta Rocchetti (https://www.musiculturaonline.it/la-tosca-dello-sferisterio-tra-teatro-e-cinema/), per cui a me tocca prendere in esame una messa in scena deludente e, per certi versi,  oserei definire imbarazzante, vista la stima che nutro per la regista argentina Valentina Carrasco, che ha già alle spalle un notevole curriculum internazionale e ho avuto modo di ammirare per la sua Aida 2021, uno spettacolo che, a suo tempo, ho definito intelligente, raffinato e affascinante, la più bella Aida apparsa allo Sferisterio insieme a quelle di Bolognini del 1989 e di Hugo De Ana del 2000.

Una premessa storico-analitica

La Tosca di Puccini è un’opera praticamente perfetta, sorretta dalla grande drammaturgia del libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa, due autori di teatro che hanno migliorato il dramma originario di Victorien Sardou, il cui successo parigino del 1887 era stato soprattutto da attribuire all’interpretazione di Sarah Bernhardt. Il libretto, rispetto al dramma, riduce da cinque a tre gli atti; elimina molti particolari di carattere storico-realistico e diversi personaggi secondari; costruisce un’azione priva di tempi morti e ricca di colpi di scena; fa corrispondere alla concatenazione logica degli avvenimenti una perfetta unità di tempo della vicenda racchiusa nell’arco di 16 ore(dalle 12 alle 4 del mattino seguente), collocandola in tre celebri monumento romani. I due autori concentrano la vicenda non tanto sul grande affresco storico, quanto sul dramma dell’amore appassionato e perseguitato, sulla gelosia, la violenza e la morte, mettendo come protagonista il triangolo Scarpia-Tosca-Cavaradossi. Su queste basi Puccini compone un capolavoro originale che stravolge l’opera romantica e persino quella verista con una partitura che affascina per la raffinatezza della orchestrazione, per la continua mutevolezza delle frasi musicali e il ricorso al leitmotiv, per alcune sonorità che anticipano dell’espressionismo musicale.

La regia di Valentina Carrasco

Mi rendo conto che non è un’impresa facile mettere in scena un’opera  complessa come Tosca e dalle note di regia apprendo che per la Carrasco si è trattato di “un percorso accidentato”, perché il progetto originario studiato nel 2019 ha subito quattro diverse versioni, che si è cominciato a lavorare sull’attuale progetto solo nel febbraio 2022 e nel frattempo, pur non essendo mutata l’idea generale, molte cose sono cambiate, per cui “la Tosca che vedrete a Macerata non corrisponde nei dettagli né all’una né all’altra né all’altra ancora” delle  versioni susseguitesi negli anni con il risultato, si può aggiungere, che è arrivato sulla scena un progetto farraginoso che ha disorientato spettatori e critica.

La “confessione” della regista può essere accettata come spiegazione di un susseguirsi di eventi negativi, ma non può costituire una giustificazione per uno spettacolo disorganico e pasticciato. Era sufficiente attenersi a una maggiore semplice e linearità di pensiero, rifarsi a modelli già esistenti, mentre si è voluto seguire un percorso originale (?), mettendo insieme attualizzazione della vicenda e conservazione della cornice storica. Si è voluta creare una chiesa senza che fosse una chiesa; si è messo in scena un banale banchetto di regine, ecclesiastici e aristocratici che è sparito senza lasciare traccia di sé; si è trasformato Palazzo Farnese in uno squallido container dove ha imperversato un Scarpia diviso a metà tra un infoiato produttore cinematografico e una perfida spia del “Federal Bureau Investigation”, impegnato in una “crociata” anticomunista messa in piedi dalla Commissione guidata dal senatore John McCarthy contro gli intellettuali di Hollywood (scrittori, sceneggiatori, registi, attori, compositori). Rimane tutta da dimostrare la validità della connessione storica tra la più squallida e antidemocratica vicenda statunitense e la realtà politica di un’Italia anni Cinquanta, tra Hollywood e Cinecittà, tra il Senato di Washington e il romano Castel Sant’Angelo. Si è aggiunta solo confusione a confusione con questi set cinematografici disseminati lungo il palcoscenico, dove si sono mescolati figuranti in costume e in abiti moderni (poliziotti americani, cow boys, un marinaio della flotta francese, addirittura un Batman), con la cantata del pastorello eseguita al microfono da una ragazzina (forse una citazione da Bellissima di Visconti?), con quel finale così poco drammatico, dominato (si fa per dire) da una foto di Castel Sant’Angelo grande come un cartellone pubblicitario, con quella fucilazione davanti a un muretto di finti mattoni e un plotone d’esecuzione composto da due soli soldati, con una morte di Tosca che è sembrata più un gioco a nascondino che una tragedia.

Tosca e il cinema: un’occasione perduta

Giustamente Valentina Carrasco ha ricordato che quest’anno Macerata Opera Festival ha puntato sul binomio cinema-melodramma e giustamente ha sottolineato che, per certi aspetti, “Puccini anticipa il cinema sia in senso drammaturgico (il modo in cui costruisce le sue opere) sia per lo stile musicale”.

Era allora sufficiente rifarsi alla storia più o meno recente del cinema.  Si poteva, per esempio, tenere presenti i tre film su Tosca proiettati a luglio nel Cinema Italia di Macerata e, in particolare quel Avanti a lui tremava tutta Roma di Carmine Gallone (9146), nel quale si mescolano cinema e melodramma, “teatro nel teatro”, con la storia di due cantanti lirici appartenenti alla Resistenza e impegnati a interpretare la Tosca in un teatro romano durante l’occupazione nazista.

Sarebbe stato ancora più utile fare riferimento alla Tosca del regista francese Benoit Jacquot, realizzata nel 2001 e interpretata da tre cantanti di altro prestigio internazionale come Angela Gheorghiu, Roberto Alagna e Ruggero Raimondi. Presentato alla Biennale Internazionale del Cinema di Venezia, il film aveva suscitato feroci critiche da parte dei melomani, ma era stato accolto con favore da buona parte della critica cinematografica, che l’aveva giudicato un valido esempio di commistione tra cinema e opera lirica.

Intorno a una passionale protagonista, divisa tra un angelo e un demonio, il regista ha creato una messa in scena articolata su tre livelli che sottolineano la realtà fittizia del melodramma: gli interpreti in costume che agiscono sul set dove sono stati ricostruiti i tre luoghi deputati previsti dal libretto; le immagini fuori del set mostrano gli attori e l’orchestra impegnati nella registrazione della “colonna sonora”; l’inserimento di spezzoni di film in Super8 suggeriscono dei luoghi reali dove si svolge l’azione. Jacquot ha realizzato in questo modo un’opera ariosa, contestualizza e concentrata, soprattutto quando i primi piani incorniciano emozioni e sentimenti profondi come amore, gelosia, orgoglio, rabbia, paura, coraggio, amarezza, delusione, sconforto. Le immagini in bianco e nero mostrano l’orchestra che suona e gli attori che cantano; svelano il meccanismo filmico; simulano la contemporaneità della messa in scena e quanto accade dietro le quinte. L’autore riesce a creare con il pubblico un contatto immediato e forte come quello che si prova a teatro: non c’è palcoscenico, non c’è orchestra che suona dal vivo, non ci sono gli interpreti in carne ed ossa, ma è come se tutto fosse presente, perché il film ha la capacità di attrarre l’attenzione e scuotere gli animi, riesce a costruire in modo chiaro un racconto fedele e concitato, nel quale vengono simulate le atmosfere teatrali. Ci si avvale del linguaggio cinematografico per arricchire la narrazione con l’assenza di vincoli spaziali, con la capacità di annullare le pause grazie all’incalzare degli avvenimenti, ottenendo quella “contaminazione” tra cinema/melodramma/teatro che valorizza i diversi linguaggi e rende gli spettatori complici della finzione scenica.

Era sufficiente rifarsi a questo modello cinematografico e trasferirlo sul grande palco dello Sferisterio. A destra il luogo deputato per attori e comparse con cambio di costumi, trucco e “parrucco”, impiegando quei deliziosi camerini all’aperto già realizzati e pochissimo sfruttati. Al centro della scena un unico set cinematografico con i tre luoghi deputati (la Chiesa di Sant’Andrea, il Palazzo Farnese e Castel Sant’Angelo) da allestire ogni volta per i tre atti, con i protagonisti e le comparse tutti rigorosamente nei costumi d’epoca. All’intorno la troupe composta da regista, aiuto regista, macchinisti, elettricisti, tecnici del suono, operatori di macchina; sulla sinistra i coristi “in borghese” pronti a interpretare le loro parti “fuori campo”.  Tutto molto semplice e funzionale.

Peccato non averci pensato senza lasciare che gli spettatori fossero disorientati da una grande confusione, abbandonati a se stessi senza sapere dove guardare e come interpretare il significato di una storia sfilacciata in mille particolari. E’ logico che alla fine della rappresentazione il pubblico si sia rifugiato in un tiepido applauso di circostanza.  Che cosa si salva della serata? La scena della tortura di Cavaradossi con occhio e rasoio in primissimo piano, una citazione (?) dal film Un chien andalou di Buñuel (1929); la bella sequenza di Vissi d’arte proiettata sullo schermo da uno Scarpia trasformato in un voyeur televisivo (non si poteva evitare di uccidere Scarpia a colpi di telecamera, avendo già visto una Carmen uccisa a colpi di macchina fotografica?); la chiusura del secondo atto con una Tosca imprigionata in un drammatico gioco di luci-ombre; il duetto del terzo atto tra Tosca e Mario dinanzi a un gigantesco e rottamato San Michele Arcangelo…E “tutto il resto è noia” per citare il grande Califano.

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