Intervista al musicista e produttore Gianni Maroccolo


di Francesca Bruni

28 Nov 2023 - Approfondimenti live, Interviste

La nostra collaboratrice Francesca Bruni ha intervistato il musicista e produttore Gianni Maroccolo, figura tra le più importanti nel panorama musicale italiano. Ne è scaturito uno splendido racconto della musica rock e della produzione musicale italiana.

Gianni Maroccolo (ph Marco Olivotto)

Intervista a Gianni Maroccolo, ex bassista dei Litfiba, eccellente produttore discografico, racconta per Musiculturaonline la sua affascinante carriera attraverso decenni di storia del rock alternativo italiano, buona lettura.

D. Ci racconti degli esordi e delle tue esperienze personali vissute con i Litfiba?

R. Per parlare della bellissima esperienza condivisa con i Litfiba non basterebbe un libro. Si tratta di dieci anni vissuti intensamente sia a livello umano che artistico. Dieci anni che dai primissimi concerti a inizio anni ‘80 ci hanno portati in breve a fare dischi, tour e soprattutto a suonare moltissimo all’estero dove spesso abbiamo condiviso il palco con i grandi artisti di allora. Una scuola di vita che mi ha permesso di confrontarmi sin da giovane con altri paesi, con diversi modi di pensare la musica e non solo, con tradizioni e culture a me fino ad allora sconosciute. La grande intuizione fu di Piero; fu lui dopo meno di un anno che ci eravamo formati, a farci comprendere quanto fosse fondamentale (nonostante avessimo scelto di cantare in italiano) provare a costruire una nostra dimensione all’estero senza limitarci solo all’Italia. Ed ebbe ragione. Grazie ad una sua carissima amica francese (Claude Guyot) che faceva la restauratrice di mobili, ci ritrovammo molto presto a fare i nostri primi tre concerti in Francia. Esaltante, in tutti i sensi. Claude decise di improvvisarsi nostra manager per l’estero e in pochissimo tempo diventò bravissima a tal punto che tra Desaparecido e Litfiba 3, fummo catapultati a suonare in tutti i più prestigiosi festival musicali dell’epoca e a costruirci una forte credibilità. Tanti tour, rassegne, e tanti concerti in Francia, Spagna, Belgio, Germania, Olanda, Russia, Canada, Australia, Svizzera, Jugoslavia, etc…. E in diversi di questi paesi riuscimmo anche a pubblicare i nostri dischi. Esperienze che a quell’ età ti fanno aprire la mente; una sorta università della vita che ti resta dentro e che, nel mio caso, mi aiutò non poco a crescere e maturare. Certo, non fu facile…. Viaggi interminabili in furgone, pochissimi soldi soprattutto all’inizio, una certa diffidenza da parte del pubblico che ci accoglieva spesso pensando ad un gruppetto spaghetti rock… ma poi salivamo sul palco e l’atteggiamento cambiava perché riuscivamo sempre a coinvolgere tutti. Inutile negarlo, quella formazione soprattutto dal vivo, era da paura, ma è innegabile che la presenza scenica di Piero sia sempre stata l’arma in più dei Litfiba. Una delle ragioni che mi spinse ad abbandonare il gruppo fu appunto la scelta di concentrare i nostri sforzi più in Italia che all’estero. Io adoravo quella vita un po’ nomade e avrei continuato a farla volentieri anche perché il progetto continuava a crescere costantemente.

Litfiba reunion 2013 – ph Paolo De Francesco (MoltiMedia.it)

D. Gli anni ’80 sono stati un periodo molto importante per la nascita della New Wave sia in Italia che all’estero; secondo te perché soprattutto a Firenze ha imperversato maggiormente?

R. Non ho ancora capito se gli anni ‘80 siano stati davvero così importanti. In realtà non li lego solo al fenomeno new wave, ma ad un cambiamento generazionale, forse culturale, e di costume. C’era una gran voglia ovunque di creare qualcosa di diverso che provasse a rovesciare il “no future” che stavamo vivendo. In una Firenze piena di stimoli, di creatività collettiva, ci ritrovammo nel posto giusto, nel momento giusto. La scossa la dette indiscutibilmente il punk intorno al ‘77, noi Litfiba però, provammo ad andare oltre e a creare un nostro stile musicale.  Il fermento a Firenze fu collettivo e non riguardò solo la musica… nacquero radio private, locali per suonare dal vivo, fanzines, negozi specializzati di dischi. E poi etichette indipendenti come la Materiali Sonori, Contempo, Lacerba, Ira. Ma il fenomeno andava oltre la musica: moda, teatro di avanguardia e sperimentale, rassegne, grandi concerti come quello di Patti Smith allo stadio. In quel periodo, ad esempio, nacquero i Krypton che vollero farci musicare la loro Eneide multimediale e tecnologica, ma anche scrittori, nuovi attori come Benigni, Riondino, Giancattivi, Paolo Hendel e molto altri. Insomma, in ogni disciplina artistica e performativa spuntavano come funghi nuovi artisti e nuove progettualità. E poi nacque, per volontà di Bruno Casini, il primo meeting internazionale delle etichette indipendenti, luogo dove si incontravano tutte le principali realtà discografiche indipendenti del mondo e dove nascevano connessioni e collaborazioni. Indiscutibilmente e, seppur con qualche limite, fu un periodo stimolante e intenso, dove ogni sera a Firenze avevi l’imbarazzo della scelta su cosa fare; andare ad una perfomance o a uno spettacolo teatrale, oppure ad un concerto di artisti stranieri al Tenax o al Manila, oppure semplicemente a ballare o a sentire qualche gruppo sperimentale, alla presentazione di un libro o a vedere un film d’essai. Bastava sintonizzarsi su Controradio che giornalmente oltre che passare buona musica, ti informava su tutto quanto accadeva in città. Abbiamo vissuto per qualche anno in un mega laboratorio creativo.

D. Come avvenne l’incontro con Giovanni Lindo Ferretti e Massimo Zamboni della band CCCP – Fedeli alla Linea, da cui nacque l’album “Epica Etica Etnica Pathos” del 1990?

R. Ci eravamo sfiorati in qualche rassegna dove si suonava insieme, ma in realtà ci siamo conosciuti meglio durante il minitour in Unione Sovietica organizzato dal Comune di Melpignano nella persona di Sergio Blasi. Ricordo soprattutto una sorta di empatia quasi immediata con Giovanni. Fu strano, ma ci ritrovammo insieme ad occuparci di un sacco di aspetti organizzativi e burocratici. Ci toccò trovare camion in affitto per trasportare gli strumenti, trattare con una capostazione cattivissima che non accettava di trasportarli da Mosca a Leningrado, ma facevamo anche delle splendide colazioni mattutine nell’ostello moscovita che ci ospitava. Ma soprattutto porterò sempre nel cuore il viaggio notturno tra Mosca e Leningrado dove, in un’atmosfera fumosa e alcoolica, Giovanni mi fece ascoltare la cassettina del loro ultimo disco, “Canzoni preghiere danze del secondo Millennio”. Lui non era particolarmente soddisfatto della produzione e del suono del disco; io invece ascoltavo le canzoni, i testi; la composizione insomma. E quando arrivò Madre ricordo che mi vennero i lucciconi agli occhi. Passammo la notte in chiacchiere e mi parve di capire che, proprio mentre stavo decidendo di abbandonare i Litfiba, anche Giovanni avesse dubbi e incertezze sul futuro dei Cccp. E poi c’è il ricordo indelebile dei due concerti: quello di Mosca dove suonammo in un palazzetto gremito di militari e dove Giovanni fu gentilissimo e si sdraiò per terra per tenere ferma l’asta del charleston di Ringo che ad ogni colpo si muoveva. E quello di Leningrado, più sobrio e di fronte ad un bellissimo pubblico di giovani. Durante il viaggio di ritorno feci un po’ di chiacchiere anche con Zamboni che finirono con il più classico “dai, teniamoci in contatto, magari risentiamoci”. Poco dopo il mio ritorno in Italia, lasciai i Litfiba e dopo qualche mese mi telefonarono i Cccp invitandomi a cena dalle loro parti. In quella occasione mi proposero di occuparmi della produzione artistica del loro prossimo disco. Mi dissero che avrebbero desiderato un disco musicalmente più ricco e soprattutto più libero a livello formale. Comprendendo anche la loro allergia agli studi di registrazione, agli orari fissi, agli alberghi etc.  proposi di prendere una casa in affitto per una quarantina di giorni; io mi sarei occupato di allestirci uno studio di registrazione. Durante quei giorni avremmo vissuto insieme, composto, arrangiato e registrato il disco. Un metodo di lavoro che avremmo poi utilizzato anche per tutti i dischi dei Csi. Proposi anche di creare una line-up più larga che prevedesse Giorgio Canali come tecnico del suono e Francesco Magnelli alle tastiere, e ad occuparsi con me degli arrangiamenti. Chiesi se avessero qualche provino da ascoltare e ricordo che a casa sua Zamboni mi fece sentire quella che poi sarebbe divenuta Campestre, e Giovanni una versione a cappella di Aghia Sophia. Massimo trovò la casa; un grande casolare tra i vigneti emiliani; la mitica Villa Pirondini che, ahimè, di villa aveva ormai ben poco. Ridotta male, senza arredi, fredda, e anche un po’ pericolante… ma perfetta lo scopo! Lui e sua moglie l’arredarono alla meno peggio portando letti, materassi, stufe e un po’ di pentolame per cucinare. Io e Giorgio allestimmo lo studio nella piccola cappella sconsacrata adiacente, mettendo il mixer sopra l’altare. Bastarono pochi giorni per creare una sorta di officina musicale. Giorgio ogni tanto attaccava la sua chitarra, Magnelli seguiva molto Giovanni nel canto e pian piano di fatto ci ritrovammo a comporre il disco tutti insieme. Eravamo come un fiume in piena e in una ventina di giorni avevamo praticamente finito. Io però sentivo che il “flusso” non si era ancora esaurito e così proposi a tutti di continuare a comporre e registrare, e di chiedere alla Virgin se ci facevano pubblicare un album doppio senza chiedere una lira in più di quanto previsto. Parlammo dell’ipotesi di creare un concept album, e Giovanni il giorno dopo arrivò con l’ idea del concept e con il titolo: Epica, Etica, Etnica, Pathos. Credo sia stata una fortuna andare avanti… alcune canzoni non sarebbero mai nate se avessimo fatto un disco singolo: una su tutte, Annarella. Ma anche Narkos e, se non ricordo male, Depressione Caspica. Verso la fine delle registrazioni Giovanni invitò me, Francesco e Giorgio a partecipare ad una riunione dei Cccp. Purtroppo, assistemmo, senza proferire parola, allo scioglimento del gruppo. Fu un momento molto triste ovviamente e dopo qualche giorno, esattamente la mattina dopo avere registrato la batteria di Annarella (la canzone che chiude il disco), morì Ringo De Palma. Ringo lo volle a tutti i costi Giovanni. Io me ne ero andato da poco dai Litfiba e non desideravo in quel momento riaprire quella storia, ma accettai la scelta di Giovanni. E feci bene. Missato il disco, lo facemmo ascoltare alla Virgin che, nonostante l’oggettiva complessità, lo accolse molto bene. Mentre parlavano di futuro, di promozione, di concerti più musicali etc. Giovanni gelò tutti comunicando che i Cccp si erano sciolti e che quel disco sarebbe stato l’ultimo. Col senno di poi forse è lecito pensare che nel momento in cui ognuno di noi si lasciava alle spalle un passato importante, stessero nascendo inconsapevolmente i Csi. Ma questo lo capimmo qualche anno dopo.

CSI (ph di Claudio Martinez)

D. Quali sono i motivi che ti hanno spinto alla fondazione dell’etichetta discografica “CONSORZIO PRODUTTORI INDIPENDENTI”?

R. Il CPI è nato più o meno insieme ai Csi. Io e Ferretti andammo da Stefano Senardi, all’epoca presidente della Polygram, per proporgli di collaborare con i Csi. Raccontammo brevemente l’esperienza di Eeep, e dei pochi concerti che avevamo provato a fare insieme. In parole povere gli chiedemmo di metterci a disposizione un budget per poter andare in Bretagna a realizzare un disco, quello che poi sarebbe diventato “Ko de mondo”. Non volevamo vincoli artistici e gli chiedemmo di avere libertà su ogni decisione. Stefano (come spesso gli accade) fu illuminato. Una parte dei Litfiba e una dei Cccp insieme, un nuovo gruppo… ci disse di partire il prima possibile e senza un contratto firmato, ci mise a disposizione un anticipo di 50 milioni di lire senza avere ascoltato nemmeno un provino. Prima di partire tornai alla carica con Stefano e gli parlai di questa mia idea coltivata da anni, di creare una sorta di “factory”, il CPI appunto. Qualcosa di simile alla factory di Wharol ma anche all’ esperienza della Cramps di Gianni Sassi. E ovviamente i miei riferimenti nel presente furono le grandi indie dell’epoca: 4AD, Cramned, Ralph records, Les disques du crépuscule, Mute, su tutte. La factory sarebbe stata gestita da due entità distinte e indipendenti tra loro; “I dischi del mulo” a Reggio Emilia curata da Giovanni e Massimo, e Sonicafactory a Firenze gestita da me, insieme a Giovanni Gasparini, Gianni Cicchi e Marzio Benelli. Chiedemmo a Senardi di darci un piccolo anticipo annuo e che Polygram distribuisse i dischi degli artisti che avremmo prodotto. Giovanni e Massimo desideravano produrre artisti emergenti per lo più legati al loro territorio (Ustmamo, Disciplinatha, Afa, etc.), con Sonica invece ci concentrammo più sugli aspetti legati alla musica a 360°. Marlene Kuntz, Andrea Chimenti, Yann Tiersen, Venus, Yo Yo Mundi, Marco Parente, Umberto Palazzo, Theo Teardo, e molti altri.  Ci inventammo anche una piccola collana per i progetti più sperimentali, “Taccuini”, curata dal pittore Andrea Chiesi. Ogni tanto producemmo insieme qualche progetto: “Tributo a Robert Wyatt”, “Materiale Resistente”, “Matrilineare”, “il Maciste”.  La volontà era quella di produrre “musica altra” mettendo a disposizione di giovani artisti spesso esordienti una struttura che permettesse loro di esprimersi in libertà. Noi pensavamo a tutto; avevamo il nostro studio di registrazione, fonici preparati, grafici, videomakers. E soprattutto la possibilità, grazie alla preziosa collaborazione con Paolo Bedini e Mario Lo Presti, di farli suonare dal vivo. Poi curavamo promozione, ufficio stampa e, a differenza di tanti, sostenevamo interamente tutti i costi di produzione garantendo a tutti il pagamento delle royalties. È durata quasi un decennio, ed è stata, al netto di qualche inevitabile errore, una storia indimenticabile vissuta parallelamente all’attività con i Csi. Altro pezzo di vita che ti lascia un segno indelebile nel cuore. Con Magnelli, Canali, Ginevra, Zamboni e Ferretti, abbiamo prodotto tre album fantastici e credo anche importanti per la musica italiana. Niente a che vedere con le esperienze che ci avevano preceduto (Cccp e Litfiba), Csi era davvero un Consorzio musicale/creativo che mai era esistito in Italia, un progetto unico e probabilmente, irripetibile. Ma questa è un’altra storia.

D. Tu hai scoperto numerosi talenti musicali, tra i quali la rock band Marlene Kuntz, puoi raccontarci di quell’incontro e delle innumerevoli collaborazioni con loro?

R. Conobbi i Marlene grazie a Francesco Caprini di “Divinazione”. Lui curava Rock Targato Italia, un contest molto conosciuto in quegli anni di cui curavo la produzione artistica del disco che annualmente veniva prodotto e poi distribuito su Tutto Musica e Spettacolo. Il disco conteneva i pezzi dei dieci artisti vincitori di ogni edizione. Avevo iniziato (erano i primi anni ‘90) già a produrre i vari pezzi del disco quando Francesco mi chiamò e mi disse che uno dei gruppi aveva deciso di non partecipare al disco e che sarebbe stato sostituito da un altro che era arrivato undicesimo; i Marlene Kuntz. Così un giorno arrivano i Marlene in studio, attaccano gli strumenti e cominciano a suonare. Beh, rimasi di stucco, senza parole. Rimasi sconvolto oltre che dal loro modo di suonare, dalla composizione. Creavano delle polifonie utilizzando note singole o al massimo dei bicordi. L’armonia delle canzoni veniva creata con una sorta di contrappunto simile a quello di un’orchestra classica e usavano anche feedback e larsen ad aggiungere ulteriori armoniche. E poi il drumming del mitico Luca Bergia; particolarissimo. Se ci si concentra sulle sue parti di batteria si percepisce che suonava e componeva seguendo la melodia vocale di Cristiano. E di Cristiano poi che dire… Talento puro e carisma indiscutibili. Alla fine di quella session si parlò poco; loro sono discreti di natura, io tendenzialmente sono timido, ma gli dissi che stavamo aprendo il Cpi e gli proposi di farne parte. Loro ci pensarono un po’ e alla fine decisero di unirsi al Consorzio. Inizialmente si pensò che mi dovessi occupare della produzione artistica del loro primo disco, “Catartica”, ma poi dopo averci riflettuto molto, proposi loro di farsi produrre in studio da Marco L. Lega, un giovane produttore molto talentuoso. Avevo il timore che una mia produzione li avrebbe condizionati e soprattutto non volevo rischiare di modificare in alcun modo la loro splendida e preziosa alchimia. Ho preferito che lavorassero con un produttore della loro generazione in modo che il loro linguaggio non venisse contaminato in alcun modo. Ovviamente ho seguito tutte le fasi della lavorazione del disco (e anche quelle successive), ma in modo discreto lasciando liberi loro e Marco, e intervenendo solo se necessario e/o per qualche consiglio o per superare qualche momento di difficoltà. Come, ad esempio, quando i Marlene decisero di togliere Lieve dal disco per questioni di minutaggio. Cercai di convincerli in tutti i modi a non farlo e alla fine, preso dalla disperazione, chiesi aiuto a Ferretti; gli dissi: “prova tu a parlare con Cristiano e vedi se riesci a convincerli”. Beh, per fortuna ci riuscì. D’altronde Giovanni (e non solo) si era innamorato di quella canzone a tal punto che i Csi la suonavano dal vivo ancora prima che uscisse il disco. “Catartica” fu una deflagrazione in tutti i sensi. Il disco fu accolto benissimo da critica e pubblico, e i Marlene iniziarono a fare un casino di concerti e a farsi conoscere e apprezzare ovunque. Il problema diventava a quel punto fare il secondo disco. Le aspettative erano altissime e quindi aleggiava qualche timore. Ricordo che parlai a lungo con Cristiano; lui era dell’idea di evitare di fare una sorta di “Catartica 2”, e di provare a spaziare altrove. Condivisi in pieno il suo sentire e gli consigliai di seguire i suoi desideri e le sue suggestioni. Insomma, un disco scevro da ogni condizionamento e senza mezze misure. Si decise di lavorare ancora con Marco Lega, ma di evitare lo studio di registrazione, almeno nella prima fase. Ascoltai un po’ di provini e, mi si perdoni, godetti come un matto. Si rinchiusero in una casa dalle loro parti per lavorare in tranquillità e in poco tempo si manifestò “Il Vile”. Andai poche volte a fargli visita, tutto procedeva così bene, stava venendo fuori un disco meraviglioso, perlomeno dal mio punto di vista. Forse il disco a cui sono più affezionato dei MK. Nonostante fosse un disco più violento di “Catartica”, entrò pure in classifica, la prima volta per loro e per un disco del Cpi. Poi negli anni siamo diventati amici. Amici nel vero senso del termine. Siamo cresciuti insieme e mi sono ritrovato a collaborare con loro in tutti i ruoli possibili e immaginabili: discografico appunto, manager, produttore artistico, bassista sia in studio che dal vivo. Lo dico spesso, percepisco i Marlene Kuntz al pari degli altri grandi progetti della mia vita.

Gianni Maroccolo e Cristiano Godano (ph di Marco Olivotto)

D. Il rock di oggi rispetto a quello degli anni ’80-’90 è cambiato molto?

R. Che dire, non so rispondere a questa domanda. Per certi aspetti il rock cominciò a sfumare, perlomeno nella sua ragion d’essere primordiale, nel periodo in cui nacquero i Litfiba. Non dico che non ci siano stati altri bravi artisti e dei bei dischi, ma in linea di massima in contesti sociali, temporali e generazionali, un po’ lontani dai 60/70 quando nacque il r&r. Il rock era quasi una scelta di vita, era fare parte di una società che necessitava di un contraltare dirompente e di protesta, e al tempo stesso era condivisione, comunione di intenti, desiderio di migliorare il mondo. Da anni è diventato un “genere musicale”. Spesso leggo artisti improbabili che affermano di voler fare un disco rock o amenità simili; come se bastasse schiacciare un distorsore e fare la voce urlicchiata o un po’ rauca. Oggi, salvo rare eccezioni, assistere ad un concerto rock è un po’ come andare ad ascoltare un’opera di musica lirica. Prendi ad esempio i Maneskin o i Greta Van Fleet; sono due gruppi indiscutibilmente talentuosi, suonano molto bene, ma sono band che celebrano, e anche bene, la rappresentazione di qualcosa che è stato. Forse rimane una certa attitudine rock, ma non incide più a livello sociale e culturale. Se penso al nostro paese, credo che gli ultimi artisti rock doc siano, MK, Afterhours, Verdena e Ritmo Tribale. Forse è giusto così, è il momento che nascano nuove avanguardie e nuovi linguaggi. Per quanto, ben vengano giovani rockettari soprattutto se invogliano le nuove generazioni a prendere una chitarra e a suonarla.

D. E cosa significava in quel periodo storico essere musicisti “alternativi”?

R. Tutto e niente. Non mi sono mai sentito alternativo. A cosa poi? A chi? Personalmente ho sempre lottato nella vita per essere indipendente. E credo di avercela fatta dato che in fondo ho sempre scelto cosa fare, con chi fare, e cosa non fare. Certo, non un percorso facile, ma oggi come ieri, rimane una scelta possibile per chiunque. Dove apparentemente non si intravedono spazi per emergere l’unica alternativa è quella di crearsene dei nuovi. È quello che credo sia accaduto ultimamente per il movimento trap qui da noi. Questi artisti non interessavano al mercato e il mercato non interessava a loro. Se ne sono fregati e si sono creati un loro modo di esistere inventandosi un percorso diverso e alternativo a quello esistente; autoproduzioni casalinghe, video girati col telefonino, YouTube, pubblicazioni digitali. E pian piano si sono costruiti anche un loro mercato e un circuito per suonare dal vivo. Senza entrare in merito a discorsi artistici dove è solo una questione di gusti personali, sono stati grandiosi a parer mio e, come sempre accade, quando il mercato ha iniziato ad essere interessato alla trap, ha dovuto sborsare un sacco di soldi per accaparrarsi gli artisti più noti.

D. Secondo te quale decennio è stato più prolifico per la musica rock italiana?

R. Non saprei. Se mi volto indietro penso che gli ‘80 e i ‘90 siano stati prolifici e molto belli. Se vado ancora più a ritroso però mi rendo conto che abbiamo avuto grandi artisti che avevano quell’attitudine di cui parlavo: Area, Franco Battiato, Claudio Rocchi, Faust’o, Krisma, Pfm etc. Purtroppo tendiamo spesso a sottovalutare ciò che il nostro paese produce musicalmente, ed è un vero peccato.

D. Se tu dovessi descriverti, che tipo di artista ti definiresti?

R. Non mi ritengo un artista, ma un musicista come tanti. Se proprio devo definirmi beh, mi diverte pensarmi come un alchimista sui generis.

D. Storia e musica vanno di pari passo, a tal proposito tornando agli anni’ 90, come fu realizzato l’album “Materiale resistente” pubblicato nel 1995?

R. Nacque da un’idea di Massimo e Giovanni che ci proposero di unire le forze per costruire insieme questo progetto sulla Resistenza. Inizialmente avrebbe dovuto essere un disco per festeggiare il 50° Anniversario della Liberazione dal nazifascismo in cui ogni artista avrebbe rielaborato una canzone della Resistenza. Poi tutto si trasformò in modo naturale ci fu un concerto memorabile e piovoso a Correggio, poi un libro, poi il film curato da Davide Ferrario e Guido Chiesa. Tra la distribuzione nei negozi e quella del “Il Manifesto”, ricordo che coinvolgemmo davvero tantissime persone. Il titolo del progetto fu inventato da Taver, il leader degli Afa che, se non sbaglio, è proprio di Correggio.

D. Che ricordi hai dell’esperienza da solista vissuta con il tuo primo album “A.C.A.U. La nostra meraviglia” realizzato nel 2004, che vide la partecipazione di diversi artisti della scena musicale italiana?

R. Uno dei momenti più difficili della mia vita. “Acau” nasce, inconsapevolmente, all’inizio degli anni duemila. Accadde nel giro di una settimana: una lettera di Ferretti in pratica mi comunicava che l’esperienza dei Csi si chiudeva, una telefonata e scopro che avremmo dovuto chiudere il Cpi, e poi un tumore incurabile diagnosticato a mio padre. Mi si prospettava un presente a dir poco destabilizzante e complesso, e un futuro tutto da ricostruire. Pensai che con i progetti di gruppo avrei chiuso, stetti accanto a mio padre e alla mia famiglia, cercai di superare anche il fatto che sia Csi che Cpi non esistessero più. Decisi di dedicarmi unicamente alla produzione artistica, ma avevo un gap da colmare: rendermi indipendente in studio. Ormai il “computer” stava sostituendo i registratori a nastro analogici, e quelli digitali. Fino a quel momento quando si registrava con questa nuova tecnologia, dovevo sempre affidarmi ad un fonico. Era necessario colmare quel gap perché non potevo produrre altri artisti senza queste conoscenze. Mi presi un software free a 8 tracce e cominciai a passare le notti a cercare di capirci qualcosa. Smanettavo, imparavo, frequentavo forum, martellavo gli amici in orari assurdi per farmi spiegare (uno su tutti, Lorenzo moka Tommasini). Scaricavo montagne di plugins ed effetti per poi scoprire che la maggior parte di questi non mi servivano perché funzionavano solo su windows e io avevo un portatile mac. Cmq iniziai a registrare da solo le prime cose; usavo basso, qualche batteriola elettronica, un synth e una scheda audio con due canali. Più che altro componevo musica per sperimentare il sistema e senza pensare minimamente alla musica che veniva fuori. Dopo un anno, mi ritrovai una trentina di spunti musicali e finalmente pronto a gestirmi da solo in studio. In quel periodo si rifece vivo Giovanni; mi raccontò che il disco che aveva pensato di fare con Massimo a Berlino (Codex) lo avrebbe fatto da solo. Si parlò a lungo; ricordo che venne a trovarmi a Rubiera dove stavo producendo la Bandabardò, ci salutammo e ci promettemmo di rifare musica insieme, di fatto nacquero i Pgr. Si pensò di creare qualcosa che risultasse, per quanto possibile, discontinuo ai Csi, un progetto nuovo. Pensai che per agevolare questo percorso non dovessi occuparmi io della produzione artistica, cosa che avevo sempre fatto in tutti i dischi dei Csi, e che dovessimo ricercare un produttore lontano da noi e dal nostro modo di fare musica. Venne fuori il nome di Hector Zazou, mitico producer della Real World e raffinato artista di confine. Mi innamorai di lui ai tempi di Made to misure, una collana bellissima di musica “altra” legata all’arte pittorica. Iniziammo a lavorare insieme ad Hector al primo disco dei Pgr a casa di Ginevra nel Cilento. Dopo qualche giorno, feci sentire qualche mio esperimento casalingo ad Hector per avere un suo parere sulla qualità delle registrazioni e sul suono. A lui piacquero a livello compositivo e sonoro tanto che decise di utilizzarne tre o quattro per il disco dei Pgr. Mi consigliò anche di pensare ad un disco solista e di farlo alla svelta. Secondo Hector quegli spunti dovevano prevedere delle voci e dei cantati. Io decisi di sistemare bene i pezzi e iniziai a lavorare però ad un disco strumentale. Quando finii e riascoltai tutto mi resi conto che Hector aveva ragione; mi mancava la voce, la parola. Di getto scrissi a tutti coloro che hanno poi partecipato al disco chiedendo se gli piacesse l’idea di cantare una canzone e di scrivere un testo. Il concept era molto semplice: il mare e la profondità declinata in senso universale. Incredibilmente tutti mi risposero accettando di partecipare al disco. Pazzesco, no? Alcuni di loro mi mandarono direttamente le voci registrate, altri andai a registrarli insieme a Moka. Il cameo più grande me lo regalò comunque Gianni Cicchi; non riuscivo a percepire Acau come un disco solista, non combaciava esattamente con la realtà. Lui con nonchalance disse: beh, definiamolo un disco multisolista. Un genio! Sono molto affezionato a quel disco per varie ragioni molte delle quali profondissime, ma soprattutto perché rappresenta un momento di rinascita. Stessa cosa, anche se per motivi molto diversi, posso dire di “vdb32/nulla è andato perso” creato a quattro mani con Claudio Rocchi. Un’altra meraviglia. L’ennesima rinascita. Peccato che sia lui che Hector abbiano lasciato questa vita terrena troppo presto. Eterna riconoscenza e amore a tutti e due. Due incontri speciali.

Gianni Maroccolo (ph courtesy OGR Torino)

D. Tu sei uno dei produttori discografici più influenti del rock italiano, attualmente pensi ci siano dei nuovi talenti?

R. Il talento non muore mai. Va scovato. Uno dei limiti dei nostri giorni è quello di dare per scontato che non esista altra musica se non quella che ti propone/propina il mercato che, però, rappresenta il 10% al massimo della musica che ogni giorno viene suonata e prodotta nel mondo. Se si ha voglia e passione, il talento lo trovi spesso nel 90% rimanente, e andando in giro ad ascoltare concerti di artisti sconosciuti. Ho un software bellissimo, ce ne sono tanti simili a dire il vero, ma questo lo adoro. È un mappamondo gigante, tu lo fai girare e a caso lo fermi e magari ti ritrovi in stazioni radiofoniche del Mali o dell’India o dell’Alaska. Scopri tanta bellissima musica di cui ignoravi l’esistenza. Che poi lo stesso discorso si potrebbe applicare anche al contesto temporale in cui viviamo dove se ti accontenti di quello che ti propinano i media e magari non hai la possibilità di andare all’estero ogni tanto, avrai sempre una percezione parziale e distorta di quello che avviene nel resto del pianeta. Vale per tutto, per tutte le forme di arte, ma anche per rendersi conto che in questo mondo dovremmo imparare a conoscerci e ad arricchirci attraverso il confronto (e non lo scontro) con chi vive diversamente da noi e proviene da culture a noi sconosciute. Abbattendo ogni pregiudizio forse riusciremmo a comprendere quanto sia vitale per noi esseri umani scoprirci, condividerci e cooperare.

D. Con quale artista ti piacerebbe collaborare oggi?

R. IOSONOUNCANE. Spero possa accadere prima o poi.

D. Ci parli della tua recente collaborazione con Edda e della realizzazione dell’album “Illusion”?

R. Edda è un artista con cui desideravo incrociarmi. Dopo avere abbandonato i Ritmo Tribale è scomparso per tanti anni. Non si sapeva dove fosse, cosa facesse. Poi di punto in bianco riappare dal nulla e pubblica un album solista, “Sempre Biot”. Un disco bellissimo, un vero gioiello. Inizio così a seguirlo e ad ascoltare e ad apprezzare gli album successivi. È un cantautore unico dotato tra l’altro di una vocalità incredibile. Lo invitai a collaborare ad alone, una sorta di collana musicale dove sperimentavo musica di “flusso” ovvero, registravo la primigenia di ogni composizione senza modificarla. Insieme registrammo “L’Altrove” sul primo volume. E poi bissammo nel quarto realizzando insieme una nostra versione di “Sognando” di Don Backy. Nel frattempo, ci siamo conosciuti meglio e insieme in piena pandemia decidemmo di fare un disco a quattro mani e di regalarlo, grazie anche alla grande disponibilità della Contempo records, a chiunque lo desiderasse. Cosa potevamo fare in quel periodo se non musica, questo fu il nostro piccolissimo contributo in quel periodo buio e pieno di contraddizioni e sofferenze. Dopodiché Edda iniziò a preparare il suo nuovo disco, “Illusion”, e mi propose di occuparmi della produzione artistica. È stato un disco che ha necessitato di un anno di lavoro. Lui desiderava un disco molto minimale e diverso dagli altri. Voleva che le canzoni fossero brevissime e senza troppe lungaggini strumentali. Io desideravo che lui cogliesse l’occasione per pensare alla sua vocalità e alle sue capacità di interpretazione. La sua voce avrebbe dovuto spaziare tra tutti i suoi registri e soprattutto gli chiesi di suonare tutte le chitarre del disco. È valsa la pena investire tutto questo tempo perché alla fine Edda è riuscito a fare il disco che aveva in mente e a sentirlo suo interamente. Quando produco qualcuno tutto ha un senso se alla fine l’artista è felice, in questo caso lo siamo stati tutti e due. E colgo l’occasione per ringraziare Toni Verona (Ala Bianca) e Luca Bernini per avere saputo attendere e per avere avuto fiducia in noi, e a tutti gli amici che hanno collaborato al disco: Antonio Aiazzi, Simone Filippi, Flavio Ferri e Andrea Pelosini.

Cristiano Godano, Gianni Maroccolo e Antonio Aiazzi (ph Alessandro Astegiano)

D. Stai lavorando a nuovi progetti?

R. A breve inizierò a preparare le musiche per uno spettacolo teatrale sulle migrazioni insieme alla banda di “nulla è andato perso”: Aiazzi, Beppe Brotto, Andrea Chimenti e Simone Filippi. Dovremmo debuttare la prossima primavera. Poi all’orizzonte c’è anche il nuovo capitolo dei Deproducers e in cantiere anche un progetto in trio sempre con Aiazzi e Flavio Ferri alla voce, sul “capitale”. Per ora non ho intenzione di fare nulla in solitaria, ma mai dire mai.

Grazie infinite Gianni per avermi concesso questa interessante e bellissima intervista, onorata di avere avuto questa grande possibilità.

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