Bello il “Federico II” di Jesi


Alberto Pellegrino

10 Ott 2004 - Commenti classica

Il Teatro Pergolesi ha inaugurato la sua XXXVII Stagione Lirica con la prima esecuzione assoluta dell'opera Federico II composta da Marco Tutino su libretto di Giuseppe Di Leva. La città di Jesi ha voluto mettere in scena questo lavoro per celebrare l'810 anniversario della nascita del più illustre personaggio cittadino. Infatti l'opera, commissionata nel 1992 dal Teatro di Bonn per sarebbe dovuta andare in scena con la regia di Luca Ronconi, ma non si trovarono i mezzi sufficienti per realizzare lo spettacolo a causa della sua lunghezza (tre ore e mezzo), della complessità della trama basato su un grande numero di episodi, di un cast assai vasto composto da 22 personaggi e da un coro di enormi dimensioni. Malgrado i robusti tagli (due ore e mezzo di durata e soltanto otto personaggi), l'opera non ha perduto la sua affascinante complessità determinata dalla centralità di uno straordinario personaggio storico che ha segnato il proprio tempo con la sua multiforme personalità di politico geniale, di grande condottiero, di scienziato e filosofo, di amante delle arti e della poesia, di costruttore di città e di castelli, di sostenitore di una cultura cosmopolita capace di gettare un ponte fra l'Europa e l'Islam. Questa sua passione per l'Oriente (Federico bambino era cresciuto nelle strade del quartiere arabo di Palermo) lo aveva portato ad amare ed apprezzare il mondo arabo visto sempre con nostalgia (“Amori veri, amori di una notte,/notti arabe, grida di cammelli,/mille notti diventano una sola,/fiori di Siria, splendidi e appassiti,/cavalcate e pomeriggi esausti”), tanto da opporsi al papa Innocenzo III, rifiutandosi di guidare una crociata in Terra Santa.
Dai versi di Giuseppe Di Leva e dalla musica di Marco Tutino emerge soprattutto la personalità fiera e ribelle di Federico uomo alle prese con i sentimenti dell'amore, della paternità e dell'amicizia, ma soprattutto il monarca spietato capace di odiare e uccidere i propri nemici, di incarcerare e far torturare amici a familiari colpevoli di tradimento: “Hanno orrore di me, i miei fedeli,/e quelli che amavo mi vogliono morto” dice ad un certo punto l'imperatore, manifestando la sua delusione nel dover respingere il precetto cristiano dell'amore: “Credevo possibile/amare il nemico Ho sbagliato” ed invano il suo fedele consigliere Omar lo mette in guardia sui pericoli del suo operato (“Se odi il nemico/diventi suo schiavo”): Federico risponde di aver creato un ordine sacro che ora il Papa vuole distruggere, per questo egli è “nel giusto/e il giusto è carbone rovente./Odio e vedetta sono virtù”). Emerge in questo modo l'anima laica di Federico, che reagisce alla scomunica papale dicendo di essere stato “per troppo tempo incudine/ora sarò martello” e che da filosofo razionalista preconizza cieli vuoti, ordinando “agli arcieri/ di lanciare frecce nel cielo/per annunciare/che gli dei sono morti”. Accanto a Federico politico c'è anche il poeta che avverte come l'acqua dei fiumi e l'ombra degli alberi “misurano il mistero del tempo”, che si
commuove dinanzi ad una rondine che ha fatto il nido in una sua statua abbattuta dal nemico (“Se ci chiediamo cosa serve un re/un dio potrà dire:/a fare una statua,/e ospitarvi una rondine), che sente il peso della vecchiaia (“l'orrore del corpo/che ogni giorno diventa più debole,/il peso del sapere,/la condanna/al mio volto, al mio nome, alla carne”), che avverte anche per lui come ultimo destino la morte.
Al fianco dell'imperatore agiscono altri personaggi: la figlia Violante innamorata di Pier delle Vigne, l'amico e consigliere a sua volta preso dalla passione per Isabella d'Inghilterra futura imperatrice; Enrico re di Germania, figlio di Federico che lo accusa di essere un sovrano troppo debole, per cui il giovane si uccide stroncato dal peso del potere e dall'amore infelice per Isabella (molto bello il quartetto in cui Violante e Piero, Enrico e Isabella esprimono i loro infelici sentimenti amorosi che, come un terribile vento, li trascinano nello spazio); poi Papa Innocenzo III, il legato pontificio Berardo, il consigliere arabo Omar, Michele Scoto, un dottore, cavalieri, soldati, cortigiani e cortigiane.
La vicenda ha inizio con Violante che canta ai piedi del trono paterno una canzone di Jacopo da Lentini Meravigliosamente un amor mi distinge, quindi ci si sposta a Palermo quando Federico, ancora bambino, scorrazza per le strade di Palermo e finisce nella bottega di un puparo e rimane affascinando dinanzi a queste grandi figure che l'uomo muove a suo piacimento, per cui il giovanissimo sovrano chiede di imparare: “Tu muovi questi uomini di legno/come vorresti si muovesse il mondo./Mostrami come si fa,/voglio imparare”. Poi si vede Federico bambino in vesti regali dinanzi ad Innocenzo III che intuisce il valore del giovane sovrano (“Agnello tra i lupi/è sopravvissuto /Basta un istante per capire/di che materia è fatto quel ragazzo /Quando saprà che deve conquistare/ciò che gli togliemmo e che era suo,/ci negherà rispetto ed ubbidienza”). Passano gli anni e l'imperatore ha mostrato al mondo “di che materia è fatto”. Nel mausoleo di Galla Placidia a Ravenna s'incontrano Violante e Pier delle Vigne che, di fronte alle parole d'amore della giovane, sembra nascondere una pena segreta. Sopraggiunge Federico che chiede al suo ministro quanto sia giovane e bella la sua futura sposa Isabella d'Inghilterra che vuole incontrare proprio in questo magico luogo che lui stesso ha scoperto (“Ogni mattina cacciavo/in questi luoghi che amo,/e sempre seguivo/ il mio falco fin qui./ Senza un motivo/decido di spianare il terreno. Meravigliosamente,/lenta la cupola appare./Sempre sarà negato(cogliere l'infinito,/ma in questo splendore/sento il dolore/di non poter credere/che c'è un'altra vita”). Arriva anche dalla Germania il figlio Enrico, segretamente innamorato di Isabella, e l'imperatore lo rimprovera perchè si dimostra troppo debole con i suoi sottomessi e quando Enrico dichiara di sentirsi umiliato perchè gli è concesso di adorare soltanto “miracolo di Federico imperatore, il padre gli rammenta il suo lungi cammino verso la gloria: “Ho costruito città ,/rinnovato l'impero,/questo regno è la casa/di poeti e scienziati./Lo so:/tu credi che agire/sia comunque un sopruso./Ma anche/temere di agire./Non è stato un miracolo:/la legge delle cose(/mi ha portato sin qua/dai vicoli oscuri di Palermo,/al tetto più alto del mondo”. Quindi ordina che il figlio sia incarcerato.
Nel finale del primo atto s'incrociano in una magica notte gli amori infelici di Violante per Pier delle Vigne, di Piero per Isabella, che ama riamata il giovane Enrico nel momento liricamente più alto dell'intera opera. Mentre il coro scandisce lentamente il “Miserere”, i quattro personaggi aprono l'anima ai loro sentimenti: per Enrico le “torbide stelle/non penetrano/coltri di afa,/la luna cerca/specchi di marmo /Inesorabile/come la febbre/la notte impone/magiche fatiche”; per Violante, che a scoperto l'amore di Piero per un'altra, “è il primo/grande dolore /Come un veleno,/ma dolce,/entra nel corpo/ e lo domina /Il pianto arriva come un sollievo”; per Isabella è l'occasione per confidare alla notte i suoi dubbi (“Destino?/Come si chiama la strada/che mi ha portato sin qui?/ Sposa domani di un uomo/chiamato stupore del mondo,/potesse sapere chi amo /Lunga la notte/folle l'attesa/se finirà ./Nulla/più nulla/appare certo/aspetto il sole/se sorgerà “. Su tutti l'amore passa come un tragico vento destinato a sconvolgere i loro destini (“Il vento porta l'alba intorpidita./Precipita, ci assale/dal fondo dello spazio./Incombe su di noi, terribile,/come il timore/di dover agire”). Distrutto dal peso del potere e di un amore infelice Enrico si uccide e, mentre Federico stringe fra le braccia il corpo senza vita del figlio, giunge un messo ad annunciare la scomunica papale. Federico si chiede chi potrà strappargli le sue corone, ma anche quanto sangue sarà versato affinchè “Roma consunta nell'antico errore/sarà un cumulo di inutili pietre”.
Il secondo atto si apre con un soldato che racconta la battaglia fatta per domare la ribellione di Parma e Federico, nel contemplare il terribile spettacolo dei morti sul campo, soffre fino a sentirsi male, ma quando scopre che il suo medico ha cercato di avvelenarlo perchè corrotto dal legato del Papa, ordina di uccidere tutti i prigionieri. Un tempo il filosofo Michele Scoto aveva detto di aver visto in sogno l'imperatore dormire sotto una coltre di fiori e che questo era un segnale di morte, per cui il sovrano doveva guardarsi da “quei luoghi dal nome di Fiore”, ora in una piazza Federico si fa leggere la mano da una maga che, dopo aver tratteggiato la sua personalità (“Hai cercato la verità ,/praticato l'inganno,/imposto la tua volontà ,/conosciuto il dolore”), gli annuncia che è minacciato da un grande nemico e che un amico lo tradirà .
In un buio carcere giace Pier delle Vigne torturato e accecato per odine dell'imperatore che lo viene a trovare e lo accusa di averlo tradito, derubandolo del suo denaro e provocando in lui un grande dolore (“Non volevo privarmi di te:/Ora nulla sarà come prima/Addio, caro amico mio”). Il tempo è passato ed ormai Federico ed Omar sono vecchi. L'uomo che ha rinnovato l'impero e costruito città , che ha amato e promosso la poesia e la scienza, che ha conosciuto l'amore e il tradimento, il dolore e la gloria, che ha imposto la sua volontà ai popoli del suo immenso regno, si trova infine a Castel Fiorentino e sente avvicinarsi la morte che purtroppo sarà “uguale a tutte le morti”. Il fedele Omar gli ricorda che “la volta del cielo/è come una grande lanterna;/magica di illusioni./Al suo interno, il lume del sole:/Noi burattini, giochiamo/per ricadere/nella cassa del Nulla”. Ma Federico non si rassegna al suo destino mortale consapevole che il suo nome entrerà nel mito: “Non sarò più nè cacciatore nè preda:/sarò il falco nella mia terra laggiù Nessuno crederà alla mia morte”.
Tutino ha rivestito i versi del libretto di una musica vibrante di impeti drammatici, ricca di citazioni, dal gregoriano alla “minimal music”, con aperture liriche nei momenti di tensione amorosa e con una conclusione coinvolgente che porta lo spettatore a rivivere la fine di un grande uomo. Efficace si è rivelata la direzione dell'inglese Stewart Robertson, come di buon livello è stata la prova degli interpreti: il baritono statunitense Randal Turner (Federico), il soprano Laura Chierici (Violante), il tenore statunitense Keith Olsen (Pier delle Vigne), il soprano Michela Sburlati (Isabella d'Inghilterra), il tenore inglese Mark Milhofer (Enrico di Germania), il baritono Filippo Bettoschi (Papa Innocenzo/Bernardo di Castacca), il basso Manrico Signorini (Omar/Michele Scoto). Di grande effetto infine la regia di Valter Malosti, che si è affidato a suggestivi costumi, a pochi elementi di scena e soprattutto al fascino delle immagini (le belle videoinstallazioni di Francesco Frongia), capaci di evocare lo scorrere del tempo, i volti di Federico tramandati dalla tradizione, il volgersi inesorabile della pagine che formano il Libro della Storia, cavalieri e arcieri, la natura e il fluire delle acque, il nascere e lo sfiorire dei fiori, mentre su tutta la vicenda si libra sublime e possente il volo del grande falco, fedele compagno e simbolo dell'Imperatore Stupor Mundi.

(Alberto Pellegrino)


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