Al via con “Traviata” la stagione lirica del Delle Muse di Ancona


di Roberta Rocchetti

22 Set 2019 - Commenti classica, Musica classica

La stagione lirica 2019 del Teatro delle Muse di Ancona apre con “Traviata”. Debole la regia, perfetto il Germond di Angelo Veccia.

La stagione lirica 2019 del Teatro delle Muse – Franco Corelli di Ancona ha preso il via venerdì 20 settembre con La Traviata di Giuseppe Verdi, titolo forse poco coraggioso, ma sempre valido e un po’ del coraggio che è mancato nello scegliere il titolo da rappresentare è stato compensato da una messa in scena che ha presentato invece elementi di freschezza.
Sul palco l’esistenza romanzata prima da Alexandre Dumas figlio, poi ripresa da Francesco Maria Piave e Verdi della sfortunata Alphonsine Plessis, poi Marguerite Gautier ed infine Violetta Valery, nomi diversi per la stessa fragile creatura vissuta il tempo di un respiro dopo una vita fatta di mondanità e stenti, che divenne figura iconica nella Parigi di metà ‘800 fino a che il cigno di Busseto decide scegliendola come sovversivo e provocatorio soggetto di una sua opera di consegnarla definitivamente all’immortalità.
Partiamo appunto dalle scene di Andrea De Micheli essenziali ed eleganti, interni che ricordavano molto, anche grazie ad alcuni dei costumi di Veronica Pattuelli, i quadri di Hammershoi e crediamo che soprattutto il personaggio di Annina sia stato funzionale ai due per evocare le atmosfere del pittore danese.

Al centro della scena a troneggiare un disco rialzato che cambiava aspetto e funzione mano a mano  le vicende della cortigiana parigina andavano verso il tragico epilogo. Ad aumentare l’effetto di inquietudine e minaccia incombente la presenza di tre mimi di sesso femminile onnipresenti a turno sulla scena a rappresentare degli alter ego della protagonista, prima bambina, quindi adolescente, infine donna con in braccio quel neonato che mai le sarà dato concepire, le quali alla morte di Violetta si dirigono insieme verso un cielo apertosi sulla parete lasciando finalmente il corpo esanime.
Nella regia di Stefania Panighini è mancato qualcosa, è strano che in un periodo nel quale ogni variazione sul tema in termini di scenografie e costumi è ritenuta giustamente assolutamente lecita, la recitazione debba fermarsi a gestualità ottocentesche stucchevolmente melodrammatiche e paradossalmente emendate da quella passionalità e drammaticità di cui la musica di Verdi è piena. Non si è vista passione tra Violetta e Alfredo, l’”Amami Alfredo” cantato a braccia aperte, in cima al supporto rialzato verso il proscenio mentre il povero Alfredo era ignorato in un angolo in basso, o tutta la parte finale del terzo atto dove Violetta è stramazzata al suolo di continuo tranne quando avrebbe dovuto (Gran Dio, non posso!) scacciando ripetutamente da sé Alfredo con tono capriccioso e poco disperato quasi fosse una molesta mosca settembrina, non hanno aiutato a creare quel pathos di cui quest’opera dovrebbe essere pregna.
Bellissime le luci di Michele Cimadomo, mai fine a sé stesse e sempre efficaci.
Vocalmente la Violetta di Francesca Sassu ci è sembrata tecnicamente soddisfacente, possiede buone agilità e ottima tenuta di fiato, migliorabile l’interpretazione sul piano drammatico, in parte a causa della voce che tende ancora a perdere un po’ corpo nei centri e nei gravi, un po’ a causa di una regia angelicante che vedeva la protagonista più come una virginea e casta apparizione eterea con qualche guizzo di corporeità solo durante la festa iniziale che come una prostituta profondamente innamorata, una Violetta un po’ all’acqua di rose.
L’Alfredo di Jay Kwon tenore coreano, ha esibito anni di studi eseguiti con applicazione impeccabile, ma il giovane tenore deve imparare a mettere anche l’anima nella voce e a coinvolgere il pubblico nella narrazione, coinvolgendo di più se stesso.

Perfetto abbiamo trovato invece il Giorgio Germont di Angelo Veccia, una voce piena ma elegante, capace di riempire il teatro ma anche colma di colori, capace di sussurrare, insinuare, manipolare la povera madamigella Valery, alla fine lui stesso vittima della propria ipocrisia. Presentatosi sul palco con un costume che lo ha reso praticamente una materializzazione di Verdi stesso è stato sicuramente il pezzo forte della serata al quale anche il pubblico ha tributato il giusto consenso.
Il resto del cast ha fornito una buona prova, abbiamo apprezzato il Gastone di Saverio Pugliese, il Dottor Grenvil di Davide Procaccini, la Flora Bervoix di Beatrice Mezzanotte forse un filo troppo frivola e cinguettante, il Barone Douphol di Gianni Giuga poco autorevole forse, ma vocalmente buono, soddisfacente l’inquietante  Annina di Elena Sizova, chiudono il cast il Marchese D’obigny di Jenisbek Piyazov, Alessando Pucci come servo di Violetta, Bruno Venanzi come Commisario, e Gianluca Ercoli come domestico di Flora.
L’Orchestra Sinfonica G. Rossini guidata da Andrea Sanguineti ha fornito una buona prova, capace di sottolineare con forza i passaggi drammatici, e fornendo una versione integrale, cosa non scontata in un periodo nel quale anche in templi della lirica come l’Arena di Verona si sente tagliare la seconda strofa di “Addio del passato”, mentre qui abbiamo potuto godere anche della seconda parte quasi sempre decurtata di “Ah forse è lui”, una visione integrale sul capolavoro verdiano, nel quale è fondamentale mantenere tutto il senso drammatico del testo di Piave.
Il Coro Lirico Marchigiano professionale e coeso come sempre ha esibito un’ottima performance sia sul piano vocale che su quello recitativo, l’equilibrio tra gioco e pathos della scena delle zingarelle e matadori, sicuramente merito anche della regista, ha messo insieme credibilità, eleganza e misura senza scadere nell’iconografico.
Il  numeroso ed eterogeneo pubblico della prima ha tributato calorosi applausi a tutto il cast.
Il prossimo titolo in cartellone sarà la Sonnambula di Bellini ad ottobre, altro capolavoro immortale.

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