Un ritorno alla grande de “La Gioconda” a Piacenza


di Andrea Zepponi

7 Apr 2018 - Commenti classica, Musica classica

Il grande ritorno de La Gioconda di Amilcare Ponchielli, assente dal Teatro Municipale di Piacenza da ben 57 anni e sulla scena italiana da moltissimo tempo, è risultato un’edizione superba di un’opera difficile – per eseguirla occorrono le migliori forze vocali in circolazione e, per metterla in scena, un coro duttile e multiforme, un plausibile corpo di ballo e cambi scenici credibili – riproposta anche per onorare il centenario della scomparsa del librettista Arrigo Boito (1918-2018), che ha avuto un meritato trionfo venerdì 16 marzo alle ore 20.30 al teatro piacentino.
Il recupero di titoli dormienti del grande repertorio tardo ottocentesco è possibile solo grazie alla presenza di interpreti eccezionali e di sicura presa vocale e scenica come Saioa Hernández, soprano lirico spinto dalle poderose capacità affermatasi ormai nel panorama operistico internazionale, già interprete un anno fa de La Wally sullo stesso circuito teatrale e debuttante ora nel title-rôle, e come il grandissimo Francesco Meli, il tenore italiano più rappresentativo a livello internazionale che ha scelto il palcoscenico del Municipale per l’importante debutto nel ruolo di Enzo Grimaldo. Con loro il baritono Sebastian Catana (Barnaba), il basso Giacomo Prestia (Alvise Badoero), il mezzosoprano Anna Maria Chiuri (Laura Adorno), il mezzosoprano Agostina Smimmero (La Cieca), Graziano Dallavalle (Zuàne), Nicolò Donini (Un cantore), Lorenzo Izzo (Isèpo) e Simone Tansini (Un pilota, Barnabotto). La direzione musicale di Daniele Callegari ha tenuto le redini di un evento lirico musicalmente complesso e grandioso che ha dimostrato ancora una volta la sua eccellenza come interprete del grande repertorio operistico, alla guida dell’Orchestra Regionale dell’Emilia Romagna, del Coro del Teatro Municipale di Piacenza preparato da Corrado Casati e delle voci bianche del Coro Farnesiano Piacentino guidato da Mario Pigazzini. Le sezioni ballabili del primo atto e la Danza delle Ore nel terzo erano interpretate dai danzatori della compagnia Artemis/Danza con le coreografie di Monica Casadei. A delineare l’ambiente e le atmosfere di Venezia, così essenziali in quest’opera, le scene piene di suggestioni lagunari di Andrea Belli e le luci opalescenti ed evocative di Fiammetta Baldiserri, mentre i personaggi avevano i costumi di Valeria Donata Bettella. La regia di Federico Bertolani, già collaudato dal Municipale piacentino nel 2016 con Il Turco in Italia, sceglie una ambientazione settecentesca per la Venezia di una Gioconda dove l’elemento dell’acqua ha una forte valore reale e insieme simbolico: «Bene fanno Ponchielli e Boito a trasferire la vicenda dalla terrena Padova di Victor Hugo alla più fluida e acquatica Venezia. – spiega Bertolani nelle note di regia –  Il portico della Carta, il Leone di San Marco e la Ca’ d’Oro sono lì a rappresentare il potere, lo stato sociale e la religione ma a noi piace spingere lo sguardo nella loro immagine riflessa nelle acque della Laguna, dove appaiono distorti, mobili e cangianti». Difatti il portato allusivo della regia ha evocato una Venezia più intravista e filtrata da nebbie che fanno emergere barene solitarie in lontananza e riflessi di bagliori della città lagunare già interiorizzata, che non ha bisogno di rappresentazioni oleografiche e ingenue come spesso è successo per quest’opera. Anche la trasposizione settecentesca – il libretto narra invece una vicenda del 500 – corrobora l’idea che non si tratti di un luogo reale in un preciso momento storico, ma di un non-luogo, proprio nell’epoca in cui Venezia corrisponde alla sua idealizzazione più comune da diventare simbolo. Congeniale pertanto l’invenzione scenica dell’acqua presente sul palcoscenico – anche nella scena della Ca’ d’Oro tutta paludata di rosso- che lambisce una piattaforma lignea sempre più ridotta ed isola progressivamente i personaggi consegnandoli al loro destino d’amore o di morte. La fluidità dell’acqua, su cui i personaggi vivono e si agitano pericolosamente – Zuàne ci cade addirittura dopo lo smacco della regata – e in cui disperdono lacrime ed oggetti dei personaggi e lo sguardo degli spettatori coincide con l’indeterminatezza delle coordinate etiche, esistenziali e razionali che in questo lavoro di Ponchielli, nato sotto la scapigliata stella di Arrigo Boito con lo pseudonimo anagrammatico di Tobia Gorrio, non sono più nette e definite come nel mondo verdiano, ma si fondono, su un piano acquatico di intrighi politico-amorosi dove il bene e il male più non si distinguono e il satanismo di Barnaba prelude a quello di Jago. Su questa complessa tessitura scenica e drammaturgica il valore del cast vocale ha giocato un ruolo potente per un successo e un consenso indiscutibili: gli impossibili paragoni nostalgici con grandi vocalità del passato cedono il posto alla considerazione sull’attuale estetica del personaggio lirico che si fonda su un equilibrio funzionale di qualità vocali e sceniche sempre più organico all’evento artistico totale quale è l’opera. Ecco perché lo spessore vocale di un’artista come la Hernández che affronta la parte con voce di petto nella zona grave dal primo atto fino a Suicidio! del quarto senza far sentire scalini di registro né disuguaglianze con appoggio costante sul fiato, scoccando acuti sfolgoranti seppur non immuni da qualche vibrato stretto, si equilibrava con una sicurezza scenica ed espressiva notevole: toccate tutte le corde emotive dalla speranza accesa d’amore sino allo strazio della rinuncia e della perdita, la perfetta dizione della Hernández si coniuga ad un solido fraseggio dinamico. Nel sistema di equilibri necessario tra ricchezza timbrica orchestrale e pienezza vocale degli altri interpreti si colloca l’immenso Meli, nel pieno del suo splendore vocale e del suo magistero musicale, che ci ha regalato una interpretazione sublime di un Enzo affascinante, eroico, dalla vitalità tenorile espressa in termini di colori, dinamiche sfumate fino alle sensibilissime mezze voci profuse in punti inattesi e profondamente rivisitati dall’artista nel rigore tecnico di lirico spinto che illumina le vocali ed appoggia la parola sulla valenza emotiva che merita: non solo Cielo e mar! ma anche i recitativi più frastagliati e i momenti di insieme – duetto con il mezzosoprano, Deh! non turbare … Laggiù nelle nebbie e quello finale irto di guglie melodiche Sulle tue mani l’anima cui si aggiunge il soprano hanno suggellato il conio di un amalgama timbrico perfetto ed equilibrato.  Padrona della scena lirica, Anna Maria Chiuri in Laura ha svolto un ruolo centrale sotto ogni aspetto – alcuni suoni acuti dal vibrato largo possono anche piacere – in equilibrio timbrico dinamico con le altre voci ma personalissima nella resa scenico-vocale: applauditissimo il duetto con il soprano L’amo come il fulgor del creato!. Valoroso il baritono Sebastian Catana, dal registro basso eloquente e dalla cavata vocale notevole, ha dato il giusto colore scenico ad un ruolo che rischia sempre di risolversi nel mefistofelico o nel grottesco e che, con qualche stanchezza comprensibile alla fine del primo atto: O monumento! Regia e bolgia dogale!, ha condotto il difficile gioco di interventi, entrate ed uscite continui dal prim’atto alla fine sulla forza della parola cantata senza mai ricorrere ad effettacci veristi o extramusicali. Di sicuro impatto timbrico la voce del basso Giacomo Prestia nel dare forma alla malvagità di chi è ai vertici del potere, ha avuto il suo exploit nell’aria Nel fulgor di questa festa, delineando i tratti nobili di un personaggio che avremmo voluto sentir dotato di maggior ampiezza nella zona acuta. Giusto rapporto di presenza vocale e scenica quello del mezzosoprano Agostina Smimmero, non propriamente contralto, nel ruolo de La Cieca che trascende il mero carattere patetico, e, come rievocato più volte dal tema musicale de A te questo rosario lungo tutta l’opera, rappresenta l’unica redenzione possibile nella vicenda, quella interiore. Come in ogni ottima produzione, ottimi erano gli interpreti di contorno: spigliato e dalla vocalità aperta e comunicativa nella dovuta gradazione timbrica il baritono Graziano Dallavalle in Zuàne, precisione e netto taglio del profilo vocale nel basso Nicolò Donini (Un cantore), nel tenore Lorenzo Izzo (Isèpo) e nel baritono Simone Tansini (Un pilota, Barnabotto).
Dal punto di vista orchestrale abbiamo assistito allo scoprimento di un grande affresco dai colori vividi e dai toni ben stagliati su uno sfondo brunito e madido di spessori timbrici che travalicano certa tradizione wagnerizzante di quest’opera, in realtà molto verdiana e molto italiana, tale che dovrebbe trovare ancora posto più frequente nei cartelloni dei nostri grandi teatri spesso occupati ad allestire ben altro. Piace notare che la coralità di quest’opera ha trovato degna espressione nella avvolgente compagine dei cori Teatro Municipale di Piacenza e Coro Farnesiano Piacentino i quali hanno contribuito, con i danzatori summenzionati, a ricreare dignità e grandezza nel ritorno di questo grand opèra à l’Italienne su una grande scena lirica come il teatro piacentino.

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