Torna a Venezia l’estro barocco di “Orlando furioso”


di Andrea Zepponi

3 Mag 2018 - Commenti classica, Musica classica

Il ritorno di un’opera vivaldiana a Venezia era attesissimo per un pubblico rimasto con l’acquolina in bocca in occasione della Juditha Triumphans di tre anni fa per ascoltare finalmente un melodramma vero e proprio: è stata la volta di Orlando furioso di Antonio Vivaldi andato in scena quest’estate al Festival della Valle d’Itria di Martina Franca ed ora allestito anche a Venezia al Teatro Malibran in partnership con la Fondazione Teatro La Fenice. L’edizione critica a cura di Federico Maria Sardelli in collaborazione con l’Istituto Antonio Vivaldi della Fondazione Giorgio Cini di Venezia, rivista per la parte drammaturgica dallo stesso regista Fabio Ceresa, che ha praticato diversi tagli di recitativi ed arie, è parsa una condicio sine quā non del suo grande ritorno che ha ridotto programmaticamente la mole barocca dell’opera di quasi un’ora e quella cui ho assistito domenica 15 aprile in pomeridiana comprendeva circa tre ore di spettacolo, intervallo compreso. Sennonché la musica e il canto vivaldiano piacciono, affascinano, incantano e, se ben eseguita e ben rappresentata come in questo caso, l’opera barocca è amabile anche perché rappresenta un momento estetico totale dove il pubblico odierno si ritrova a godere delle stesse piacevolezze di quello settecentesco che tanto gradiva il virtuosismo vocale, quello strumentale e le ricchezze della messa in scena: l’Orlando vivaldiano esibisce la follia come episodio di capriccio totale della mente che realizza in sede logica quello dell’arte barocca con la sua ricerca della meraviglia a prezzo della rottura di ogni schema che poi si ricompone nel prevalere del classico senso del limite e della ragione; in tal senso Orlando furioso è l’emblema del barocco e lo spettacolo pieno di esuberanze con la scenografia di Massimo Checchetto, apprezzabile anche di più in uno spazio contenuto come quello del Malibran, soddisfaceva il senso dinamico dell’azione nel ruotare di una piattaforma ekkyklematica che mostrava, con il suo sfondo concavo, quello di un’enorme conchiglia dorata – forma barocca per eccellenza – e, ruotandone il lato convesso, il dorso grigio cosparso di crateri di una luna misteriosa, evocativa della spettacolare ambivalenza simbolica che contrapponeva il brillio fallace ma vitale delle passioni all’arido rigore della ragione e della verità: organicamente complici, anche i luccicanti e voluttuosi costumi di Giuseppe Palella riportavano lo spettatore all’atmosfera tipicamente veneziana, con il suo colorismo cangiante, le sue fascinazioni cromatiche non esenti da quel senso di allettante capziosità tipica del carattere commerciale di tante creature di Venezia, Vivaldi compreso, che, lungi da vane considerazioni di tono etico, ne sono invece il vero fascino segreto e ineludibile. Il lavoro scenico era capillare in ogni versante: la magnificenza dei costumi sontuosi e brillanti (Pizzi docet), esemplati su suggestioni pittoriche e di tradizione melodrammatica, dei personaggi amorosi come Alcina, Angelica e Medoro cedeva il passo alle severe ma fluttuanti tuniche bianche di cui erano investiti quelli eroici come Astolfo, Ruggiero ed Orlando una volta rinsaviti dalle loro passioni; il regista inoltre denotava, da una parte, l’ambiguità sessuale dei demonici ministri di Alcina, i quali tentano anche omoeroticamente i due sposi Angelica e Medoro dopo il rito del loro matrimonio celebrato dalla maga, connotato a dir il vero in modo satanico, e, dall’altra, quella morale dello stesso Ruggero nei confronti della moglie Bradamante, nel fargli indossare una mise in genere destinata alle parti en travesti. Remote ma evidenti anche le allusioni al famoso Orlando furioso ronconiano con la macchina scenica dell’ippogrifo addomesticato ed imbrigliato dalla maga ora con uno sgargiante chaperon ora privato del cuore dalla stessa spietata che lo tratta come un talismano. Macchine sceniche tutte, compreso il gigante Aronte con il suo smembramento a vista, che mostravano l’iperbolica improbabilità della vicenda degli innamorati illusi e delusi in uno sfondo di meraviglia barocca dove alla follia e all’errore dei sensi si risponde con la morale insita nell’ultimo endecasillabo del libretto di Braccioli: “Saggio chi dal fallir prudente impara”.
La direzione del Maestro Diego Fasolis, alla testa dell’Orchestra e Coro del Teatro La Fenice, si avvaleva del basso continuo al clavicembalo e ai recitativi di Andrea Marchiol, ed ha ricreato ricchezza e varietà di sostegno armonico, pienezza di suono strumentale e inaudito impulso ritmico che davano spessore anche allo spettacolo in un caleidoscopio di colori e di riflessi dinamici su cui si riflettevano, come su una superficie specchiata, i diversi affetti distribuiti ai vari interpreti dal libretto musicato da Vivaldi: per questo si sarebbe apprezzata una scelta più ponderata per l’Orlando di Sonia Prina la quale, spacciandosi anche stavolta per contralto dietro il paravento specialistico del canto barocco, non è più riuscita a nascondere la natura leggera della sua voce (sopranile direi), sebbene furbescamente collocata dalla regia in postazioni piuttosto remote sul palcoscenico, e le sono mancati timbro, smalto, spessore e, in certi punti, anche intonazione proprio perché, impegnata a pompare un volume che non le appartiene, ha fatto capire al pubblico che la sua coperta dinamica è troppo corta. Esonerata prudentemente dal cantare l’aria E’ troppo fiero il nume arciero, ha stranamente esordito con quella di tempesta Sorge l’irato nembo in cui è parsa subito affaticata e poi, con la celebre Nel profondo, cieco mondo, ha sciorinato in modo sfuggente e ipercinetico (la vorticosità delle note ne avrebbe dovuto nascondere o giustificare il mancante peso vocale), quelle agilità che in Vivaldi hanno una precisa funzione melodico-armonica e che meritavano una “dizione” molto più sonora soprattutto di fronte ad un linguaggio orchestrale così eloquente. A poco le sono valsi i successivi momenti più recitanti ma non privi di tratti virtuosistici Son tradito, il veggoIo ti getto elmo ed usbergo, per rendere incisivo il canto quanto lo era la resa attoriale. Tranne questo neo, direi, ormai in stato degenerativo – la Prina appartiene a quell’idealtipo di cantante d’opera che ha voluto sdoganare il fatto che tutti possano cantare tutto – gli altri interpreti hanno corrisposto ad un target adeguato e ben equilibrato tra proprietà canore e sceniche: la Alcina del mezzosoprano (o soprano secondo) Lucia Cirillo dalla vocalità ben spesa nel variare i da capo con pertinenza ed estro sfruttando ogni occasione per svettare e risolvere in acuto: fulcro emotivo dell’opera paritario con il protagonista, la parte fu scritta dal Prete Rosso per la sua compagna Anna Girò, ed è stata sostenuta con espressione anche nelle parti più “affettuose” come la celebre Così potessi anch’io, aria piena di finezze, con figurazioni al ritmo  lombardo, gruppetti e acciaccature, fino all’aria di furore finale con il retorico recitativo accompagnato Oh ingiusti numi, o fatiAnderò, chiamerò dal profondo dove la Cirillo ha suggellato un equilibrio tra gesto vocale e scenico. Bel timbro quello del soprano Francesca Aspromonte che, sensibile e tecnicamente sicura nel ruolo di Angelica, parte dove in realtà non ci sono particolari virtuosismi tranne forse nella prima aria Un raggio di speme con le sue roulades, ha assolto molto bene al ruolo scenico; il mezzosoprano Loriana Castellano dalla cavata vocale credibile nel colore e nei registri, in Bradamante, ha dato un carattere di sensualità al personaggio distinguendolo dalla diversamente sensuale Alcina. Il controtenore Raffaele Pe ha interpretato un Medoro leggermente caricaturale ben lontano dalla tempra tenorile cui si affida in altre occasioni il ruolo, con emissione morbida e una dizione ben scandita nella sua distribuzione di pezzi per lo più dal canto sillabico: l’unico brano con passaggi melismatici Rompo i ceppi, lo ha impegnato con discreto successo; più versato nel virtuosismo era il Ruggiero di Carlo Vistoli dalla emissione molto naturale, un fraseggio ampio e in ottimo rapporto con l’appoggio sul fiato per qualità e quantità: applauditissimo nella celebre aria con il flauto traverso obbligato (in questa occasione si trattava di strumento filologico), Sol da te, mio dolce amore, il suo ruolo è stato reso dalla regia in tono inspiegabilmente effeminato, con chioma lunga e vestaglioni, quasi a sottolineare un ridondante travestitismo che non aveva nessuna ragione di essere in quanto l’eroe, sposato con Bradamante e irretito da Alcina, è anzi l’esempio dell’amore coniugale trionfante, ma, siccome le regie attuali devono dare evidentemente il loro tributo al mainstream omosessualista e genderista imperante, si è scambiata la vocalità del controtenore per un tratto di effeminatezza, non tenendo conto che il canto barocco è astratto e rifugge dalla concretezza romantica, anche se il personaggio è amante e sposo. A parte questo scivolone registico, la compagnia di canto risultava ben fornita con l’Astolfo di Riccardo Novaro dalla vocalità pastosa, dizione funzionale e bella presa nelle agilità che tanto in Vivaldi partecipano del carattere strumentale: ben applaudito nell’aria Benché nasconda la serpe in seno, ha esibito un’ottima tecnica di basse-baritone le cui cifre fondamentali sono flessibilità e versatilità.
Il Coro del Teatro La Fenice, preparato dal Maestro Ulisse Trabacchin, ha partecipato alla fastosa eloquenza orchestrale nella scena degli sponsali di Angelica-Medoro e pertinenti all’azione erano le coreografie di Fattoria Vittadini ad opera di Riccardo Olivier.
Gremito da un pubblico molto attento e soddisfatto, il Teatro Malibran, ha dato il via ad una felice ripresa del melodramma vivaldiano a Venezia che, si spera, sia costante e duratura.

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