Il primo dopoguerra e l’elaborazione del lutto collettivo; monumenti e sacrari


di Alberto Pellegrino

8 Set 2018 - Arti Visive

Monumento di Salò

“Guerra! – una voce d’abisso urlò/E la parola divina e tremenda/passò rossa e devastatrice sopra il mondo/celere come una fiamma/che in un attimo solo/brucia e divora una bandiera…/E tutti gli uomini si sentono uomini finalmente,/plasmati d’odio e di ferocia/assetati di sangue e di vendetta/solo vestiti dei loro istinti belluini:/perdutamente avvelenati di coraggio e d‘eroismo/passano bellissimi cantando/verso la strage e la morte./Bella è la guerra!” (Corrado Govoni).
Con questi sentimenti futuristi, nazionalisti e interventisti dannunziani andarono in guerra per risvegliarsi dal loro sogno dopo quattro sanguinosi e drammatici anni, accorgendosi che la Grande Guerra aveva prodotto milioni di morti, aveva annientato intere generazioni con la decimazione della giovane popolazione maschile. Il pensiero di questi lutti continuò a incidere per molti anni sull’immaginario collettivo, provocando uno sgomento misto a stupore, un profondo senso di colpa collegato a una forte voglia di espiazione e ci vollero decenni per conoscere l’esatto costo umano della guerra: “Non esistevano famiglia, gruppo di amici, scuola o fabbrica in cui non si piangesse un parente o un conoscente: i morti divennero una presenza ossessiva e il lutto di massa impregnò le società europee” (M. Mondini, La guerra italiana. Partire, raccontare, tornare 1914-1918, Il Mulino, 2014).
L’intera Europa è costretta ad affrontare questo diffuso sentimento di morte che grava sulla società dell’immediato dopoguerra, minando alla base quell’illimitata fiducia nel progresso nata con il positivismo, lo sviluppo scientifico e tecnologico e la rivoluzione industriale. Per fronteggiare e controllare queste emozioni collettive, per evitare che esse alimentassero gli ideali pacifisti di condanna del massacro bellico, i vari governi europei cercano di collegare l’identità dei morti con l’esaltazione della Nazione, in particolare in quelle società, dove la classe dirigente punta sul nazionalismo per rilanciare la propria credibilità e promuovere l’unità del Paese. Si avvia, pertanto, una mobilitazione di energie pari all’enormità del massacro e si prendono numerose iniziative pubbliche e private per esorcizzare il lutto legato alle tante morti provocate dalla prima guerra di massa: “L’elaborazione politica del lutto fu in effetti un lavoro imponente che richiese molti anni, ingenti investimenti materiali, la definizione di nuovi codici simbolici, un uso intensificato di forme di comunicazione capaci di coniugare sentimenti privati di pietà e richiami spettacolari” (A. Gibelli, La Grande Guerra degli Italiani. 1915-1918, Sansoni, 1998).
La Grande Guerra è riuscita a colpire l’immaginazione collettiva non solo per le dimensioni della morte legata al suo carattere massificato e seriale, ma per una serie di caratteristiche del tutto particolari e storicamente nuove: la mancanza di umanità e di riservatezza propria della guerra di trincea con i morti abbandonati nella “terra di nessuno”, esposti alle intemperie e alla decomposizione fino a diventare oggetti informi sotto gli occhi dei compagni; l’identificazione spesso impossibile di quei cadaveri, per cui molti corpi sono rimasti senza un nome e molti nomi senza un corpo, perché l’enorme incendio, che ha bruciato i campi di battaglia e arso all’interno delle stesse trincee, ha annientato l’identità di tante persone.

Ancona

I monumenti come documenti storici
Alla fine della prima guerra mondiale in l’Italia proliferano statue di bronzo, gruppi marmorei, lapidi e targhe commemorative, mausolei, delle testimonianze che assumono il nome generico di “Monumenti ai Caduti” e che hanno lo scopo di commemorare chi ha perso la vita in guerra, di tramandare alla memoria delle generazioni future il ricordo di quella che nell’immaginario collettivo è la Grande Guerra.
Le migliaia di monumenti, che appaiono dinanzi ai nostri occhi distratti, hanno perso oggi il loro specifico carattere di segni immediatamente riconoscibili e carichi di precisi significati: sono diventati degli oggetti privi di significato, oppure costituiscono un labile ricordo che si va offuscando nel tempo. Al di là dei contenuti ideologici, essi sono stati il centro focale di ricorrenti riti della memoria, il punto convergente della retorica e delle cerimonie del lutto individuale e collettivo d’intere comunità locali; sono stati caricati di significati politici e sociologici; hanno rappresentato le aspirazioni di rivincita o di potere di un’intera Nazione; sono stati infine un notevole investimento di risorse pubbliche che ha mobilitato un piccolo esercito di artisti specializzati nell’arte funeraria e monumentale, di marmisti, scalpellini, muratori, fonditori.
I monumenti ai caduti, collocati al centro di piazze e giardini pubblici, sulle facciate dei municipi e sui sagrati delle chiese, rimangono dei “documenti” materiali, la testimonianza visiva di un lutto collettivo che si è espresso attraverso delle precise aspirazioni artistiche, sacrali e decorative. Questi “reperti di archeologia urbana” ci aiutano a capire meglio le circostanze, le modalità, i sentimenti con cui le varie comunità hanno elaborato il loro lutto, hanno pianto i loro morti e hanno cercato, attraverso un preciso linguaggio figurativo e letterario, di riaffermare (o giustificare?) quei valori che hanno spinto tanti esseri umani a sacrificare la loro giovane vita. Nello stesso tempo, essi hanno rappresentato un particolare “censimento” del numero di caduti, che sono stati rigorosamente classificati secondo un ordine previsto da una rigida tradizione militare: ufficiali, sottufficiali, graduati e truppa.
Sotto una spinta emotiva, che ha attraversato tutta l’Europa, vi è stata una notevole fioritura di un’arte monumentale che ha prodotto progetti anche molto costosi, tali da sollevare pesanti questioni economiche, perché non tutte le comunità locali hanno avuto le possibilità finanziarie per realizzare questi monumenti con le sole ricorse pubbliche. In molti casi si è mobiliata un’intera comunità e si sono messi insieme gli sforzi delle autorità cittadine, del clero, degli artisti e della popolazione con la creazione di appositi comitati formati da pubblici funzionari ed eminenti cittadini. A queste istituzioni cittadine sono stati affidati i compiti di redigere un progetto e di trovare gli artisti capaci di realizzarlo, di raccogliere sovvenzioni pubbliche e sottoscrizioni popolari, di sovrintendere all’acquisto dello spazio individuato, alla costruzione e collocazione di un monumento, che fosse in grado di rappresentare sia i sentimenti di lutto di quanti hanno perso in guerra un figlio, un fratello, un marito, un fidanzato, sia lo spirito cameratesco dei reduci che intendono onorare il sacrificio dei commilitoni caduti e tramandarne la memoria. “Nella fase iniziale dell’arte commemorativa…la glorificazione del sacrificio era deliberatamente espressa con un linguaggio arcaico, cantando di eroismo e cavalieri, di aneliti e battaglie idealizzati. Il problema di questo linguaggio è che era troppo irreale, troppo edificante, troppo patriottico, e scarsamente sensibile al senso di desolazione portato dalla perdita” (J. Winter, Il lutto e la memoria. La Grande Guerra nella storia culturale europea, Il Mulino, 1998). In una fase successiva si è cercato, invece, di esprimere il cordoglio delle masse con diretti riferimenti al sacrificio della vita e la guerra è stata vista non tanto come un fatto nobile ma come un evento tragico e doloroso, portatore di lutti.

Reggio Calabria – Monumento ai caduti, statua fante

La storia e la memoria personale
A distanza di anni questi monumenti non sempre belli, figli più di esercitazioni retoriche che di istanze estetiche, la superstite testimonianza o meglio la documentazione storica di qualcosa che non è più un “presente”, ma costituisce un “passato” affidato alla memoria di pochi e destinato a perdersi nella vastità dell’immaginario collettivo. Bisognerebbe ritornare a riflettere e ha cercare di capire come questi “segni” della prima guerra mondiale abbiano perduto ogni forma di sacralità e non facciano più parte nemmeno dell’arredo urbano, ma siano ridotti a “feticci” appartenenti a un passato ormai sepolto dal tempo, pur continuando a rappresentare una drammatica testimonianza storica. Si sono scolorite nel tempo la figura del legionario romano che inneggia alla Vittoria e impugna “la spada ancora fresca di stragi e di trionfi”, espressioni come “per la Patria più grande”, “ai figli suoi/gloriosamente caduti/per la grandezza”, “Valorosi in guerra/si spensero per malattia/i compagni caduti sul campo/invidiando”, una frase che lascia intendere, secondo la “maschia” retorica del tempo, che solo la morte sul campo è “una bella morte”, una retorica presente in molti monumenti più recenti.
Siamo di fronte a dei manufatti che appaiono come i “segni” superstiti di una retorica nazionalista ormai dimenticata, dei “reperti archeologici” che, nel loro attuale contesto urbano, presentano un quadro abbastanza desolante.  Sono soprattutto le lapidi, segno un tempo di cordoglio cittadino, restano collocate sulle facciate di edifici privati, oppure sembrano “naufragate” sulle facciate di edifici pubblici o di chiese con testi che nessuno legge e nomi che nessuno più ricorda. Vittorie alate sì librano inutilmente in volo, fanti protendono il braccio verso la conquista di un’impossibile gloria, monumentali donne italiche, sono “parcheggiate” in piazze urbane invase dalle automobili, senza nessuno che le degni di uno sguardo.
Quelle che nel primo dopoguerra apparivano come delle parole chiave, tendono ora a “scolorirsi”, a smarrire il significante e il significato e, una volta estrapolate dal proprio contesto, perdono il loro valore semantico di suono, di elemento grafico, di simbolo: virtù italiche, unità, ricordo, unanime, memori, premio, i concittadini, ai prodi ed eroici figli, i caduti, contro l’Austria. Lo stesso elenco di nomi propri comuni e meno comuni diventa il segno di persone anonime dietro i quali si nasconde il segreto di giovani vite mai vissute con il loro bagaglio di sogni, speranze, illusioni, una “ricchezza” smarrita e stroncata dall’immane tragedia della guerra. Dinanzi a questi reperti è possibile fare alcune considerazioni generali che riguardano i caratteri fondamentali della elaborazione del lutto.
Il primo elemento, che connota questi monumenti, è la loro funzione di sacrario dinanzi al quale i cittadini possono esprimere il loro cordoglio grazie a un’arte funeraria capace di fornire una legittimazione collettiva del dolore per aiutare i parenti a riprendersi dal trauma della perdita; nello stesso tempo essi sono il luogo deputato capace d’inculcare la speranza in una Patria resa più grande dal sacrificio di tanti, un altare dove celebrare i valori del patriottismo e del nazionalismo.
Il secondo elemento è costituito dall’esaltazione del debito contratto dai caduti verso la Patria, per  spingere i vivi a condurre un’esistenza migliore e più sicura grazie al sacrificio di chi è morto per il proprio Paese. A esso fa da contraltare il debito contratto verso i caduti che non potrà mai essere ripagato, perché si tende a rappresentare una “decostruzione della morte” con lo scopo di seppellire l’orrore, l’ignominia e il trauma connessi alla guerra. Il monumento diventa il simbolo di un sacrificio collettivo che trasmette un messaggio spersonalizzato, perché i morti non sono più degli individui (anche se i loro nomi compaiono incisi nella pietra o nel bronzo), ma sono l’espressione di un sacrificio voluto e approvato dallo Stato, il quale ha il diritto di chiedere ai propri cittadini d’impugnare, se occorre, di nuovo le armi per uccidere e farsi uccidere per la Patria comune.
Il terzo elemento è rappresentato dall’immenso sacrificio di vite umane da non ripetersi più, anche se questi monumenti non hanno mai avuto una connotazione pacifista, anzi ridondano di una simbologia militaresca, lasciando passare il messaggio che, se la Patria dovesse chiamare, i suoi figli dovranno essere pronti a offrire di nuovo la loro vita.
Il quarto elemento è la raffigurazione di un culto dei caduti, basato sul valore eroico dei simboli e sul “trionfalismo” delle epigrafi celebrative, sulle quali compaiono dei lunghi elenchi di nomi, che non suggeriscono più niente alla nostra memoria, ma hanno avuto un grande significato come indicatori della pietà collettiva, perché devono aiutare le singole persone (madri, padri, fratelli, sorelle, figli, figlie, mogli e fidanzate) ad accettare la cruda realtà della morte in guerra. Lapidi e monumenti non si rivolgono solo alla sensibilità di chi ha perduto i propri cari, ma alle autorità e ai commilitoni che partecipano alle commemorazioni della vittoria e rendono omaggio alla memoria dei caduti. Questi manufatti celebrativi hanno, inoltre, lo scopo d’indirizzare un preciso messaggio agli ignari passanti per invitarli a meditare, almeno per un istante, sul sacrificio di quanti hanno il proprio nome inciso sulla pietra.
L’ultimo elemento riguarda il lutto collettivo che assume spesso delle forme idealizzate attraverso l‘uso di componenti allegoriche (corone di alloro, imponenti statue della vittoria, animali simbolici, bandiere). Domina fra le altre la figura del fante, umile eroe delle trincee, destinata a evocare l’immagine della “bella morte”, esorcizzando l’orrore delle battaglie e presentando la fine come il coronamento di una nobile scelta. In questo modo si cerca di rimuovere gli aspetti sgradevoli della guerra con il soldato che muore solitamente colpito al petto, stringendo il fucile o baciando la bandiera, secondo la tradizione patriottico- risorgimentale dell’Ottocento.
A volte sono utilizzate delle icone femminili legate alle tradizionali allegorie risorgimentali (la madre, la sposa, la sorella, la fidanzata), anche se si tratta di scelte meno frequenti rispetto alle immagini del maschio combattente. Quando appare, la figura femminile si traduce nell’immagine della Vittoria alata, oppure di una donna che porge il serto d’alloro ai caduti vittoriosi; sono madri  che abbracciano un corpo morente per trasportarlo in un paradiso visto come una promessa d’immortalità. Con l’affermarsi del regime fascista, la glorificazione dell’evento bellico prende il sopravvento sul lutto; il tema della pace e del rifiuto della guerra è annullato e nei monumenti si predilige il tono celebrativo, per cui la stessa Vittoria alata diventa un simbolo di gloria e di supremazia su ogni possibile nemico, preferendo esaltare la Patria più che commemorare i caduti.

Sacrari per i caduti e Parchi della Rimembranza

Ossario – Asiago

Sacrario militare cima Grappa

Intorno alle metà degli anni Venti, si ha un cambiamento del ruolo dello Stato rispetto al culto dei caduti, perché il regime impone una nuova visione monumentale che collega la Vittoria e l’Italia mussoliniana. Il mito di fondazione dell’universo simbolico fascista affonda le radici da un lato nello squadrismo, dall’altro nella Grande Guerra, proclamandosi diretto erede dell’aristocrazia combattentistica delle trincee e vantandosi di rappresentare la parte migliore della Nazione “forgiata” dall’olocausto del conflitto mondiale. Il giorno dell’armistizio (4 novembre) è consacrato come festa nazionale al pari della data dell’intervento (24 maggio), andando incontro a esigenze fortemente sentite dal mondo combattentistico e dalla borghesia conservatrice.
Alle pubbliche cerimonie in onore dei caduti si unisce la creazione dei sacrari che costituiscono un nuovo modo d’interpretare il culto dei caduti, che si propongono di dare una sistemazione definitiva delle salme dei militari italiani caduti in guerra per la “perpetua conservazione dei gloriosi Resti”, per assicurare l’individualità delle tombe a ogni salma che abbia un nome, per diventare con la loro “monumentalità” la documentazione storica dell’immane guerra, un segno della perenne riconoscenza dell’Italia verso i suoi gloriosi Caduti, che dovranno essere una “feconda e virile scuola per i vivi”.  Si dà pertanto inizio alla realizzazione dei grandi sacrari del Monte Grappa (1935), di Asiago, Montello e Redipuglia (1938), dei templi-ossario di Bassano e Udine con l’obiettivo di “consacrare” i principali teatri di guerra, di mettere ordine all’enorme numero dei cimiteri di guerra provvisori (circa 2.800), dei piccoli camposanti di montagna, delle tante sepolture improvvisate (circa 15 mila) sparse lungo il fronte.

Redipuglia

Redipuglia

Nel suddetto quadro celebrativo si colloca il Sacrario di Redipuglia che è il più imponente complesso monumentale d’Europa: vi si accede attraverso una gigantesca scalea in cima alla quale si distende in leggero declivio un ampio piazzale, lastricato in pietra del Carso e attraversato nella sua linea mediana dalla Via Eroica. Lungo questa strada sono disposte due file di lastre in bronzo, 19 per lato, su ognuna delle quali è inciso il nome di una località dove si sono svolte le battaglie più aspre e sanguinose. In fondo s’innalza la solenne gradinata, formata da 22 gradoni nelle quali sono custodite, in ordine alfabetico e dal basso verso l’alto, le spoglie di 40.000 caduti, i cui nomi sono incisi in singole lapidi di bronzo. Vi sono poi due grandi tombe comuni, dove riposano le salme di 60.330 caduti ignoti. Alla base dellamaestosa scalinata sorge isolata la tomba del Duca d’Aosta, comandante della 3ª armata, fiancheggiata dalle urne dei suoi generali caduti in combattimento. L’insieme ricorda il poderoso e perfetto schieramento di un’intera armata di centomila unità e, accanto a ogni nom e di un caduto, è stata incisa la scritta “Presente”. La costruzione del Sacrario di Redipuglia ha poi rappresentato per il fascismo “il passaggio di testimone fra la generazione degli eroi caduti in guerra e quella dei figli, dei futuri cittadini-soldato per un’altra grande guerra” (Marco Mondini).
Dal 1922 si procede alla creazione dei Parchi della Rimembranza che nascono con la messa a dimora di alberi in modo da formare un boschetto, oppure un viale alberato con la collocazione su ogni tronco di una targhetta con il nome di un soldato caduto. In questi parchi si fondono il culto dei caduti e il “culto della natura” della tradizione germanica dei boschi degli eroi, secondo la quale l’eroe morto in battaglia ritorna a fondersi con il mondo naturale e diventa un preciso “segnale” da consegnare alla storia. Questi Parchi sono pertanto dei monumenti vegetali esaltati dalla mitologia fascista, delle vere e proprie selve votive da collocare entro il tessuto urbano per simboleggiare la comunione spirituale tra i vivi e i morti, la continuità del ricordo, la rimozione del dramma della morte stemperato nel clima idilliaco della natura, la rappresentazione di una palestra morale destinata ai più giovani per educarli alla “santa emulazione” degli eroi.

Altare della Patria, milite ignoto

In questa fase di esaltazione dei sacrari rientra anche il culto del Milite Ignoto che tocca il suo punto apicale con la collocazione nell’Altare della Patria del corpo di un soldato sconosciuto caduto  in battaglia e per questo motivo scelto per rappresentare tutti i soldati morti della prima guerra mondiale. Il viaggio verso la Capitale della salma dell’Ignoto ha dato luogo a un’enorme partecipazione popolare ed è stata la “più grande manifestazione patriottica corale che l’Italia unitaria abbia mai visto” (B. Tobia, L’Altare della Patria, Il Mulino, 1988).
Il trasloco della salma culminò con la solenne tumulazione avvenuta a Roma il 4 novembre del 1921 in occasione della Giornata dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate. Da quel momento il Milite Ignoto  è divenuto l’espressione della rinnovata pacificazione e compattezza nazionale, perché all’omaggio della popolazione si è unito quello delle autorità e delle varie forze politiche.
Gli stessi mass media del tempo si occupano della vicenda e il compositore E. A. Mario rinnova il successo riscosso con La leggenda del Piave, componendo nel 1922 una canzone  intitolata Soldato ignoto, il cui ritornello suona così: “Soldato ignoto, e tu?/Sperduto tra i meandri del destino/brilla il tuo bel nastrino/fregiato della palma;/tu  sei l’Eroe che non morrà mai più…/E solo la tua salma/ch’è volta ad oriente/da Roma può rispondere: PRESENTE!”.

Soldato – Monumento Ceprano, Roma

Lutto collettivo e il socialismo italiano
La prima guerra mondiale non è stata solo un’immensa carneficina che ha sconvolto e trasformato l’Europa sul piano politico, economico, sociale e culturale, ma ha costretto le forze politiche ad adattare le proprie azioni a quella radicale attesa di cambiamento generata dalla guerra.
In questo clima rientra anche il reducismo, un movimento costituito da un insieme di sentimenti, rivendicazioni morali, economiche, sociali e politiche degli ex combattenti con forti tendenze nazionalistiche, anche se l’equazione combattentismo-fascismo non era applicabile a questo movimento che, prima dell’avvento del fascismo, non aveva una connotazione politica univoca.
Nell’immediato dopoguerra, accanto all’Associazione Nazionale combattenti d’ispirazione nazionalista e all’Unione Nazionale Reduci d’ispirazione cattolica, viene fondata nel 1920 la Lega Proletaria Mutilati Invalidi Reduci Orfani e Vedove di guerra, che supera in breve il milione d’iscritti ed è aperta ai socialisti riformisti e massimalisti, ai sindacalisti rivoluzionari, agli iscritti
del Partito comunista italiano, agli aderenti al movimento anarchico antimilitarista. Osteggiata dagli stessi partiti della sinistra, la “lega Proletaria” entra rapidamente in crisi e si scioglie nel 1924.
La posizione del movimento socialista nei confronti della prima guerra mondiale è stata fin dall’inizio contraddittoria: i socialisti erano stati coinvolti loro malgrado da una minoranza interventista a partecipare a una guerra non condivisa e non voluta. Questa situazione aveva comportato che i socialisti in grigioverde fossero continuamente sottoposti a una doppia violenza: durante la vita di trincea erano spesso accusati di essere dei “traditori” e dei “disfattisti”; come “politici” erano guardati con sospetto e sottoposti auna stretta sorveglianza, a una disciplina di guerra ancora più dura rispetto agli altri soldati, con i quali condividevano la stessa vita di stenti e di pericoli. I “sovversivi” più noti e i dirigenti di partito ritenuti più pericolosi erano rinchiusi nelle carceri militari o erano assegnati alle compagnie di disciplina destinate a svolgere i lavori forzati o a compiere le missioni più pericolose.
Nel dopoguerra il dibattito politico tra nazionalisti e socialisti si ripropone nei medesimi termini e la discriminante è ancora costituita dal significato da dare alla guerra: per il movimento socialista l’immagine mitica ed eroica della vittoria si deve confrontare con la descrizione dei patimenti e delle sofferenze del popolo delle trincee, con lo sfruttamento delle masse da parte della borghesia. Agli appelli pacifisti e internazionalisti dei socialisti, nazionalisti e fascisti rispondono con l’esaltazione del sacrificio e del martirio. Queste due visioni antitetiche attingono al patrimonio simbolico e ideale della guerra per legittimare le proprie scelte politiche, ma è soprattutto il fascismo ad appropriarsi e a gestire simboli e miti della prima guerra mondiale. Sarà Mussolini in prima persona a presentare il fascismo come l’unico erede dell’Italia combattente e a fare dell’esperienza bellica il fulcro di una visione politica basata sull’eroismo e sul culto dei caduti.
Le ricerche storiche hanno dimostrato come sia una leggenda confezionata dal fascismo quella che indicava come i “disertori” tutti gli appartenenti al movimento socialista, mentre le cifre di quanti sono comparsi dinanzi ai tribunali di guerra, per aver disertato di fronte al nemico, stanno a dimostrare che a disertare sono soprattutto di soldati-contadini portatori di un naturale e individuale rifiuto della guerra, senza contare che difficilmente essi sono influenzati dalla pur capillare propaganda socialista che certamente ha maggiore presa sul proletariato urbano e sugli intellettuali della sinistra. Bisogna inoltre tenere conto che, fra i valori propri del movimento socialista, vi è anche il senso del dovere verso i propri simili e verso la collettività che, in determinate circostanze, può essere la Patria, anche se questo senso del dovere non deve necessariamente implicare un’adesione politica. (Cfr. G. Isola, Immagini di guerra del combattentismo socialista, in AA. VV., La Grande Guerra, Il Mulino, 1986, pp.519-543; S. Ortaggi Cammarosano, Testimonianze proletarie e socialiste sulla guerra, in op. cit., pp.577-604).
Tra il 1919 e il 1924 nel Paese sono state affisse delle lapidi di chiara intonazione socialista, ma si tratta di testimonianze che sono state distrutte dalla violenza fascista. In esse si parlava di “soldati proletari” che “imprecavano” per essere “caduti vicino e lontano/ …straziati e recisi/da tutte le mitraglie/spenti senza sorrisi e senza lacrime,/piagati e non piegati”; ci si rivolgeva agli “oppressi di tutto il mondo/al prorompere vittorioso/della forza proletaria” per ricordare che dalla “orrida carneficina…/sale irresistibile/la collera secolare degli schiavi./Spartaco vince”; per tramandare la memoria delle “vittime dell’immane flagello”, tutti quei martiri “rinnovatori della coscienza proletaria” e tutti quei compagni superstiti sono stati definiti “testate d’angolo/della Terza Internazionale”; per affermare che i caduti erano le “vittime ignorate/d’oligarchia bugiarda d’ingordi bari/mercanti di stragi/che Cristo fustigò ma la stola benedisse/per una patria di pochi/molti compagni nostri soccombettero/ma il sangue è il seme/e da nuova stilla nuovo allor/rinasce”.

Il significato attuale dei monumenti ai caduti
Attualmente sacrari, monumenti e lapidi, anche quando sono delle opere d’arte, sono caduti nell’oblio, pur restando sotto gli occhi distratti dei passanti. Eppure, essi sono dei documenti storici di grande valore, sono pagine di marmo e di bronzo che ci richiamano una parte importante del nostro, che dovrebbero essere restaurati e riproposti all’attenzione collettiva, perché il loro messaggio, al di là degli spunti nazionalistici e dell’enfasi retorica, dovrebbe trasmettere un messaggio e un monito di pace. Per una vera partecipazione dei cittadini occorre costruire società non conflittuali e collaborative, riducendo la disuguaglianza, l’ingiustizia e la mancanza di libertà che sono tra le cause principali delle guerre. È indispensabile un ritorno all’educazione civile delle generazioni presenti e future, basata sulla conoscenza e sul rispetto della nostra Costituzione, sul recupero critico e costruttivo della memoria, sulla riscoperta della parola “Patria” con un diverso significato rispetto a neofascismi e sovranismi. In una società sempre più globalizzata e informatizzata, dove stanno scomparendo i confini, la Patria deve essere intesa come un contenitore della nostra memoria storica, di quel patrimonio costituito dalla lingua, dalle arti, dalla religione, dal paesaggio, dalle tradizioni popolari, dalla conoscenza del nostro passato che costituisce un ponte gettato verso il futuro.

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