Ricordo del grande fotografo Sebastião Salgado
di Alberto Pellegrino
16 Giu 2025 - Arti Visive, Libri
Sebastiano Salgado. Un grande fotografo sempre coerente con il suo impegno civile e umanitario.
“Pur senza la minima traccia di sensazionalismo, le immagini di Salgado hanno una loro spettacolarità. I suoi vigili del fuoco, i suoi operai metallurgici sono eroi al lavoro, talvolta ai limiti dell'idealizzazione romantica. I coltivatori delle piantagioni di canna da zucchero cubane brandiscono i loro machete come guerrieri di epoche arcaiche. E i fuggiaschi etiopi avvolti nei loro panni, ai margini del deserto, sembrano i personaggi di una tragedia antica. Sono immagini estreme di realtà estreme. Il pathos, il gesto elegiaco emana dai soggetti quanto dal modo in cui vengono rappresentati. Gruppi di madri con bambini, scene di passione, masse in gran movimento: queste immagini raccontano storie bibliche che Salgado cita con la passione di un teologo marxista della liberazione” (Peter Sager).
La carriera
Sebastião Salgado (1944–2025) è considerato per il suo impegno civile e la sua carica di umanità uno tra i maggiori fotografi dei secoli XX e XXI. È stato insignito con i titoli di Cavaliere dell’Ordine della Legion d’Onore (Francia, 2016), “Doctor Honoris Causa”, University of Evora, Evora, Portugal, 2001, Honorary Doctor of Fine Arts, New School University, New York, USA., 2001, Honorary Doctor of Fine Arts, The Art Institute of Boston at Lesley University, Boston, USA, 2001, Honorary Doctor of Letters, University of Nottingham, Nottingham, United Kingdom, 2002. Ha ricevuto prestigiosi premi internazionali in Usa, America Latina, Europa e Asia. Ha realizzato i suoi primi reportage sulla desertificazione del Sahel (1973) e sulle condizioni di vita dei lavoratori immigrati in Europa (1974); ha documentato la rivoluzione in Portogallo e la guerra coloniale in Angola e in Mozambico. Nel 1975 è entrato a far parte dell’Agenzia Gamma e nel 1979 nella celebre Agenzia Magnum Photos.
La prima parte del suo impegno umanitario e civile
Salgado ha scattato immagini eccezionali, restando sempre fedele sia alla pellicola in bianco e nero, sia alle fotocamere da 35 m, strumenti portatili e poco ingombranti con i quali ha continuato a girare per il mondo e a concentrare la sua attenzione su tematiche scottanti come i diritti dei lavoratori, la povertà e gli effetti distruttivi dell’economia di mercato nei Paesi in via di sviluppo con una serie di raccolte. Per anni si è dedicato a sviluppare una serie di fotoreportage a carattere umanitario e sociale per approfondire progetti riguardanti tematiche di ampio respiro che lo hanno portato per primo in America Latina, dove ha documentato la vita delle campagne con immagini pubblicate il libro Other Americas.
Nel 1991 è stato l’autore dello straordinario fotoreportage Giacimento petrolifero di Buhran (Kuwait, 1991); ha quindi realizzato dei fotoreportage sui settori di base della industria e dell’occupazione che sono stati riuniti nel volume La mano dell’uomo (1993), una pubblicazione monumentale di 400 pagine, uno dei grandi capolavori della fotografia mondiale, tradotto in sette lingue e accompagnato da una serie di mostre allestite in oltre sessanta musei e luoghi espositivi di tutto il mondo. In Italia ha pubblicato 100 Foto per difendere la libertà di stampa (Edizioni Gruppo Abele, 1996).
Dal 1993 al 1999 ha lavorato sul tema delle grandi migrazioni e i suoi fotoreportage sono stati pubblicati in molte riviste internazionali per diventare poi dei preziosi volumi, fra cui segnaliamo In Cammino e Ritratti di bambini in cammino editi in Italia da Contrasto; con la stessa casa editrice ha pubblicato Terra. 100 foto in bianco e nero, con prefazione di José Saramago (2001), Dalla mia Terra alla Terra, con Isabelle Francq, (2014).
Una delle sue opere più famose è ambientata nella miniera d’oro della Serra Pelada (Brasile, 1986), dove ha fotografato migliaia di persone, giunte da tutto il mondo a causa della presenza di filamenti auriferi nel terreno, che lavorano in un’enorme cava e che risalgono in superfice su primitive scale a pioli, spinti dalla propria dipendenza nei confronti dell’oro e quindi costretti a caricarsi sacchi di fango che potrebbero contenere tracce del metallo.
Successivamente Salgado ha documentato la tragedia delle grandi migrazioni in Asia con Bangladesh (1990) dove riprende miglia di lavoratori che a mani nude estraggono rottami da grandi vascelli arenati; in Africa con Rifugiati del campo di Korem (Etiopia, 1986), Ragazzi in un campo profughi(Sudan del Sud, 1993), Dinka. Pascolo di Amak (Sudan del Sud, 2006), fotoreportage nei quali denuncia gli orrori dello sfruttamento minorile in Piccoli schiavi (Tanzania, 1997). Molte di queste immagini fanno ormai parte del patrimonio dell’umanità e per la loro drammatica intensità e impressionante bellezza sembrano richiamarsi iconicamente alle grandi tragedie del teatro greco classico. Sempre negli anni Novanta con Cuba. La fabbrica degli Avana si occupa della produzione e della lavorazione del tabacco nell’isola caraibica.
Salgado si dedica alla salvaguardia del Pianeta Terra
A partire degli anni Novanta questo straordinario artista dell’immagine ha concentrato la sua attenzione sullo stato del Pianeta Terra animato dal suo grande amore e rispetto per la Natura, impegnandosi a documentare le ferite inferte dalla mano dell’uomo al nostro sistema ecologico planetario, denunciando in modo particolare le violenze e i danni inflitti da una industrializzazione selvaggia. Per questa sua attività l’Accadémie de Beaux-Arts di Parigi l’ha definito il “grande testimone della condizione umana e dello stato del pianeta”.
Come una nuova forma d’impegno umanitario e civile, Salgado negli ultimi anni della sua vita si è completamente dedicato ad analizzare e rappresentare lo stato di salute del Pineta Terra ed è partito, come era logico, dal suo Paese natale con la documentazione delle gravi minacce che gravano sulla foresta amazzonica, il più grande polmone verde dell’intero pianeta, un ecosistema soggetto a forsennati disboscamenti; a incendi di lunga durata, perché gli alberi tropicali non bruciano subito, essendo il loro legno fresco, per cui bisogna abbatterli e aspettare che secchino prima che si possano sviluppare degli incendi massicci. Su questo tema il grade fotografo si autodenuncia: “Sono figlio di contadini e anche io ho partecipato alla deforestazione atlantica del Brasile. Da piccolo mio padre mi faceva andare a dorso di mulo con i carichi di legname. Allora non sapevamo dei danni che stavamo facendo”.
Grazie anche ai suoi lavori, una nuova sensibilità sta nascendo nel mondo e sono stati individuati i responsabili di questo continuo attentato al più importante ecosistema terrestre. Si tratta dei grandi gruppi agroalimentare sostenuti dall’estrema destra che vogliono creare nuovi spazi per destinarli al pascolo e all’allevamento dei bovini. L’altra forza destabilizzante è costituita dalle sette evangeliche che vogliono convertire gli indigeni e far loro abbandonare la foresta con la conseguenza di favorire da parte dell’industria alimentare lo sfruttamento di una manodopera a basso prezzo con la creazione di nuovi spazi urbani inquinanti.
Salgado indica, come elemento positivo la sopravvivenza di alcuni parchi naturali statali relativamente tutelati, anche se il pericolo di una devastazione è sempre presente. Vi sono inoltre le riserve indiane protette che sono estremamente importanti, perché non bisogna proteggere solo la fauna e la flora, ma anche gli abitanti dell’Amazzonia che un tempo erano 10 milioni e ora si sono ridotti a circa duecentomila. L’etnia amazzonica più estesa è la cabloco, nata dalla fusione tra Indio e africani importati come schiavi dal Golfo di Guinea. Gli Indio “puri” cioè sfuggiti alla “civilizzazione” sono rimasti una minoranza è stanno nascosti nel profondo delle foreste, dove vivono ancora un rapporto armonico e dinamico con la natura e mantengono la loro identità attraverso la conservazione del loro linguaggio e del loro patrimonio culturale, anche se il loro spazio vitale si sta sempre più riducendo.
Queste persone vivono soprattutto nel bacino dell’Alto Xingu, un fiume lungo 2300 chilometri che sfocia sulla riva destra del Rio delle Amazzoni. Si tratta di un territorio poco noto e situato nello Stato del Mato Grosso, che forma un ecosistema di confine tra la foresta pluviale del sud dell’Amazzonia e la savana del Brasile centrale. L’area si chiama Parque National do Xingu e in esso si trovano tredici villaggi abitati da 2500 indios appartenenti ai gruppi etnici dei Caribi, Tupi e Arawak, un mosaico di culture con una lunga storia di migrazioni e adattamenti imposti dall’avanzare della colonizzazione, una vera e propria unità multilinguistica e intertribale rimasta ancora intatta, che si può considerare un modello antropologico di purezza culturale, di bellezza fisica, di ammirevole culto per la cura del corpo. “Sono nudi, in ogni senso. – ha detto Salgado – Non conoscono la dissimulazione, esprimono le loro emozioni in totale libertà, il loro comportamento non manifesta quell’arroganza che nella nostra cultura maschera profondi problemi.
Salgado, con un primo gruppo di lavoro, ha lavorato sulle seguenti sezioni: Panoramica della foresta, I fiumi volanti, Tempeste topicali, Montagne, La foresta, Isole nel fiume, arcipelago del bacino del Rio Grande; mentre un secondo gruppo ha documentato la vita quotidiana e la cultura delle tribù superstiti dell’interno. Salgado ha voluto denunciare il consumismo e il mito del progresso senza regole che stanno minacciando gli spazi essenziali per la sopravvivenza della specie umana. “Sono già state praticamente abbattute le foreste dell’Asia e dell’Africa. Ci sono grandi porzioni delle foreste tropicali – la più grande concentrazione di biodiversità del pianeta, le aree dalle quali dipende la distribuzione dell’umidità dell’intero pianeta –che stiamo per annientare costruendo una vera e propria bomba di CO2, che restituiremo all’atmosfera creando danni irrecuperabili”.
In un secondo momento l’interesse del grande fotografo si è concentrato sui ghiacciai che sono il nostro termometro per misurare la temperatura della Terra, che mostrano un gravissimo degrado ma che possono essere ancora in parte salvati. I ghiacciai, anche se vecchi di millenni, sono ancora vivi e ci ricordano con la loro bellezza, quanto siano preziosi come riserva idrica del pianeta.
Nasce il più grande progetto nella storia mondiale della fotografia
L’ultimo grande progetto di Salgado s’intitola Genesis ed è stato ispirato dal primo Libro dell’Antico Testamento, anche se l’autore ha dichiarato di essere un non credente: “Per me il grande pensiero spirituale è l’evoluzione del mondo minerale, vegetale, animale. Da quando ho cominciato Genesis mi sento parte di questa armonia. C’è una perfezione che mi sorprende ogni volta […] Finora mi ero occupato di un solo animale, l’Uomo. Poi ho scoperto che, quale che sia il soggetto, bisogna cominciare con un atto d’amore. Ci devi metter il cuore”.
Genesis è nello stesso tempo un inno alla bellezza della Terra, un grido d’allarme per il pianeta che potrebbe autodistruggersi in una vera e propria apocalisse, una riscoperta di un paradiso perduto che ha richiesto otto anni di lavoro e un impegno di 32 viaggi in tutto il mondo. Il grande fotoreportage è come un atlante antropologico che investe il paesaggio e il mondo vegetale, animale e umano che si suddivide in cinque sezioni: Il Pianeta Sud, Santuari della Natura, l’Africa, Il grande Nord, l’Amazzonia e il Pantanàl per mostrare come sia possibile vivere in armonia con il mondo senza ignorare le leggi di natura invece di imporre le proprie regole, prendendo l’esempio da popolazioni un tempo definiti “incivili” che sanno affidare il loro futuro alle regole di Madre Natura, come i popoli dell’Amazzonia, i Pigmei delle foreste equatoriali del Congo o i Boscimani del Kalahari, le tribù delle zone africane più remote e lontane dai centri urbani. Nonostante le distruzioni, il 45 per cento del pianeta è ancora come al tempo della Genesi ed è possibile proteggerlo e ricostruirlo altrimenti l’homo sapiens rischia di essere una specie in estinzione, per cui è necessario risvegliare una coscienza ecologista. “Il mondo vegetale è quello per quanto riguarda l’acqua – dice Salgado – l’umidità del pianeta: le foglie degli alberi sono i capelli del pianeta…Le foglie trattengono l’acqua come i capelli, sono un ricostituente del ciclo che porta l’acqua ai fiumi, al mare. Per questo è molto importante ricostruire le foreste native, obiettivo da non confondere con la riforestazione di chi pianta gli alberi per trasformarli in mobili. Nella foresta primaria è importante l’intero, non solo gli alberi ma tutto ciò che cresce al di sotto…Si può recuperare l’ambiente. Serve un miliardo di dollari per costruire quattro bombardieri…Le risorse ci sono, il problema è cambiare atteggiamento”.


Questo grande progetto ha come scopo principale il risveglio delle coscienze, il richiamo alla necessità di una educazione ambientale che coinvolga giovani e adulti e per questo Salgado ha percorso i cinque continenti alla ricerca degli ultimi “Santuari della Natura”, con un viaggio fotografico in bianco e nero che va dalla foreste tropicali dell’Amazzonia al Congo, dall’Indonesia alla Nuova Guinea, dai ghiaccia dell’Antartide alla taiga dell’Alaska, dai deserti americani e africani alle montagne dell’America, del Cile, della Siberia. Si tratta della più grande antologia antropologica planetaria composta da immagini di rara bellezza che mostrano un patrimonio unico e prezioso del nostro pianeta che è sottoposto a gravi pericoli ma che può essere ancora salvato preservandone l’armonia e la perfetta sintonia con tutto il sistema ecologico. Possiamo concludere questo discorso con le parole dello stesso Salgado: “Il mondo è in pericolo, e questo vale tanto per la natura quanto per l’umanità. Eppure questo grido di allarme si sente così spesso che ormai viene in gran parte ignorato. […] la quotidiana lotta per la sopravvivenza della maggioranza delle persone da una parte e l’accumulazione di ricchezze da parte di pochi privilegiati dall’altra, dimostrano come nella pratica questi problemi fondamentali siano affrontati solo in maniera superficiale. Abbiamo perso il contatto con l’essenza stessa della vita sulla Terra. La concezione moderna secondo cui l’uomo e la natura sono in qualche modo due entità separate è semplicemente assurda. Il nostro rapporto con la natura – con noi stessi – è andato perduto. […] Vedo questo progetto come un percorso potenziale verso la riscoperta del ruolo dell’uomo in natura. L’ho chiamato genesi perché, per quanto possibile, desidero ritornare alle origini del pianeta: all’aria, all’acqua e al fuoco da cui è scaturita la vita; alle specie animali che hanno resistito all’addomesticamento e sono ancora “selvagge”; alle remote tribù dagli stili di vita “primitivi” e ancora incontaminati; agli esempi ancora esistenti di forme primigenie di insediamenti e organizzazioni umane. Nonostante tutti i danni già causati all’ambiente, in queste zone si può ancora trovare un mondo di purezza, perfino d’innocenza. Con il mio lavoro intendo testimoniare com’era la natura senza uomini e donne, e come l’umanità e la natura per lungo tempo siano coesistite in quello che oggi definiamo equilibrio ambientale”.