Paolo Volponi nel centenario della nascita


di Alberto Pellegrino

30 Nov 2024 - Letteratura, Libri

Presentiamo un approfondimento sul grande scrittore tormentato e profetico Paolo Volponi in occasione del centenario della nascita.

Nel 1924 nasce a Urbino Paolo Volponi, uno dei grandi scrittori del Novecento, un uomo scomodo perché continuamente spinto da una forza interiore e dal perseguimento di un ideale di società nella quale sia possibile conciliare utopia e realismo come dimostra la sua narrativa con quelle storie che hanno personaggi carichi di utopia e di follia. Volponi ha dentro di sé qualcosa di dirompente rispetto ai canoni della “classica” narrativa italiana, perché è sempre vissuto in una condizione di “combattente” emarginato eppure presente nella società che sente ostile ma che, secondo il suo pensiero, deve essere totalmente ricostruita. “La narrativa di Volponi dietro questa facciata polemica e aspra mostrava l’altra faccia tenera e carnale delle sue Marche e della sua Urbino, quasi un volto nostalgico, un nido, una culla illustre e “bella”, nella quale uscivano come virgulti carichi di forza e di illusioni, pregni di idee non importa se irrealizzabili, quei figli che vivevano per un altro mondo, un mondo forse remoto, impossibile ma presente almeno come teatro di lotta” (Claudio Marabini).

Volponi inizia a lavorare come responsabile dei servizi sociali poi ricopre l’incarico di direttore del personale per Adriano Olivelli, un industriale di nuova taglia che pensa di rendere più umana l’industria con il progetto Comunità. Ad Ivrea il giovane marchigiano conosce un gruppo di scrittori come Ottiero Ottieri, Giovanni Giudici, Franco Fortini, Geno Pampaloni chiamati a realizzare le idee di Olivetti e, in quel particolare clima culturale, ha modo di partecipare alla breve stagione della “letteratura industriale”. Con la morte di Olivetti il suo rapporto con l’industria si scioglie e nel 1971 viene chiamato da Agnelli come consulente culturale e, in seguito, come segretario della Fondazione Agnelli, incarico che dura poche settimane, perché firma un appello a favore del Pci per le elezioni comunali di Torino e deve dimettersi. Per alcuni anni si tiene lontano dalla politica, per riavvicinarsi al Partito comunista con la segreteria di Enrico Berliguer, convinto che la sua utopia integrale sia impossibile da realizzare, ma che bisogna partecipare con realismo, indipendenza e lealtà al dibattito politico. Volponi è stato un comunista fiero della sua libertà di pensiero, legato alle opere di Marx, che aveva previsto la disumanità del capitalismo, la sua forza distruttiva, la resistenza opposta alla liberazione dell’umanità dalle ingiustizie. Nei suoi libri i vari personaggi maschili e femminili sono contadini, operai, imprenditori, intellettuali che devono fare i conti con la presa del potere della finanza, la preparazione di guerre, la distruzione dell’ambiente in una visione di crescente pessimismo che tocca il suo culmine nel romanzo Il pianeta irritabile (1978), un’avveniristica favola post-atomica ambientata nel 2293, il capitalismo è riuscito a distruggere la Terra e in quel deserto sopravvivono solo quattro esseri viventi: la feroce scimmia Epistola, la placida oca Plan Cancule, l’impaurito elefante Roboamo, il nano Mamerte che viaggiano per il pianeta guidati da un misterioso imitatore del canto degli uccelli e impegnati nella battaglia per la sopravvivenza in un mondo ormai definitivamente devastato. Lo scrittore urbinate ha anticipato di decenni tutti gli altri autori nell’immaginare un mondo spaventoso dove l’impazzimento del clima, la cecità del capitalismo finanziario, le guerre hanno provocato la ribellione della natura e creato una situazione che è al di fuori delle capacità di controllo degli essere viventi.

La posizione ideologica di Paolo Volponi

Le opere di Volponi costituiscono la straordinaria testimonianza della mutazione della società italiana che passa da rurale a industriale, con la fuga dalle campagne e il sogno di trovare un futuro migliore nella città industriale, dove l’individuo consuma la propria esistenza per essere oppresso, oppure per vivere in una stato di continua rivolta, aggrappandosi ad abitudini, luoghi, persone che danno un valore e concretezza alla sua vita. Volponi ha raccontato, in modo fantasioso e appassionato ma anche razionale, la storia di questo Paese, dal dopoguerra al miracolo economico, dagli anni di piombo alla la crisi politica deli anni Ottanta, nella convinzione che la letteratura possa incidere sulla società per consentire all’umanità la possibilità di conquistare una libera espansione delle sue facoltà corporee e mentali, un uso positivo del lavoro, della scienza, una sua evoluzione in senso democratico.

Per questo Volponi ha visto nel comunismo l’ideologia con la quale le grandi masse di uomini sfruttati potranno liberarsi dal giogo del capitalismo, per resistere al degrado morale e culturale del nostro Paese senza rinnegare la sua storia e le sue secolari memorie. Nello stesso tempo egli ha individuato con estrema lucidità gli elementi negativi presenti nella società italiana: l’intreccio di politica e poteri occulti, l’onnipotenza delle telecomunicazioni, lo strapotere dell’industria e della città nei confronti dell’agricoltura e della campagna. “Del comunismo che impegnò l’immaginazione di Volponi scrittore non si capirà nulla se non si fa ricorso a quella mescolanza di dedizione e rampogna, di fervore solidale e di rigorismo che alligna nella cultura italiana delle piccole patrie, delle piccole pievi; e che si trasforma in ricchezza linguistica, in sermone illustre e umile. Volponi non ha smentito mai quella cultura dentro se stesso, e per questo, affrontando il mondo nuovo, il mondo del capitale, è riuscito a rappresentare l’animo italiano con spirito europeo, con intelligenza superiore, negligente verso le attrattive o le aspettative della moda” (Enzo Siciliano).

Tutta la sua opera è caratterizza dalla critica al capitalismo e dall’utopia del suo rovesciamento con la creazione di un mondo giusto e abitabile, per cui egli rimane sempre in bilico tra realismo e lirismo, tra analisi sociologica e levità poetica, proponendo una coerente visione del mondo dove i suoi personaggi sono individui isolati, emarginati dalla società, poco accomodanti, antipatici, costantemente “in rivolta” nei confronti della realtà circostante, sempre incompresi per il profetico coraggio con cui propongono un progresso a dimensione umana e si oppongono a un capitalismo imprevidente e compromesso con la politica, più interessato al profitto che alla ricerca in un periodo che vede affermarsi la globalizzazione, la flessibilità e la mobilità del lavoro, il predominio della finanza sull’industria, l’aumento degli esclusi e degli emarginati, lo sviluppo della comunicazione.

Volponi registra il verificarsi di una sconfitta dei propri ideali, ma non si mostra “pentito”, anzi rimane in vigile “attesa” di tempi nuovi, mantiene viva la sua “ragione critica”, la stessa che ha motivato la sua attività politica, che ha animato il suo impegno per una società più democratica e più civile. Continua a “restare fuori dal coro”, a tradurre l’angoscia e la esasperazione del singolo in un continuo confronto con la “ragione collettiva”, superando la sterile diatriba tra impegno di denuncia e interiorità esistenziale, tanto da avere ancora la forza, quasi al termine della sua vita, di autodefinirsi con queste parole: “Ho ancora delle inquietudini da selvatico. Mi piace chiamarmi Volponi e penso all’eroismo della volpe che, presa in trappola, si morde la zampa pur di scappare. Io sono così, non riesco a rimanere chiuso in trappola e mi strappo la gamba pur di scappare”. 

Il mondo poetico di Paolo Volponi

Il successo della narrativa, ha fatto in parte sottovalutare le sue opere poetiche (la prima raccolta Il ramarro è del 1948), che sono oggi finalmente riunite in un corposo volume intitolato semplicemente Poesie (Einaudi, 2024), nel quale è possibile comprendere quale statura abbia raggiunto nel tempo la sua arte poetica sempre complessa e originale, caratterizzata da una continua ricerca controcorrente rispetto alla tradizione lirica e alle avanguardie ufficiali che hanno portato da Le porte dell’Appennino alla piena maturità della raccolta Con testo a fronte.

La poesia di Volponi è caratterizzata da una continua ricerca della integrità e dignità dell’essere, da un sentimento di condivisa pietà, da una sacralità per una vita basata sulla giustizia e l’uguaglianza. Egli propone la costruzione di un “uomo intero” con una perfetta integrazione tra il singolo e la Terra, con una composizione armonica dell’esistenza, con la ricerca degli aspetti positivi nella natura e nell’uomo nonostante nella poetica siano presenti paure irrisolte, frustrazioni e rabbie, ferite personali e delusioni storiche. Il suo discorso poetico rimane sempre appassionato nonostante l’eterna tensione tra natura e cultura, tra eros e ragione, tra percezioni del corpo e conoscenza intellettuale, tra un sogno di comune redenzione e una realtà dove tutto appare diviso: l’io in crisi con se stesso, il mondo naturale (quello degli alberi, degli animali, dei monti, delle spiagge) scisso dal mondo industriale, la più antica civiltà appenninica separata dal mondo dell’innovazione tecnico-scientifica, gli antichi borghi emarginati dalle metropoli, il progresso e il regresso in continuo conflitto.

In Volponi c’è l’esigenza di un costante rapporto con la natura per far emergere la propria coscienza attraverso i colori, i suoni, le voci, un continuo scrutare nel buio delle cose per leggerne i segni e mettere a fuoco una propria visione della vita. Nel momento più alto della sua poesia si avverte una tenerezza rude e elegiaca, un culto della memoria ulcerante e consolatorio, ma anche il riconoscimento di una crisi che porta a un progressivo abbandono delle primitive certezze, a un senso di delusione che attraversa l’intero ordito poetico. All’interno dell’Appennino contadino si consuma una storia di conoscenze e di sentimenti fondanti, ma avviene anche una drammatica saldatura con il passato e con le ragioni del sangue che servono a mantenere vivo un rapporto con il mondo circostante, che trova una prima sintesi nel poemetto Canzonetta con rime e rimorsi (Poesie e poemetti 1946-66, Einaudi, 1980, pp. 186-192).

“Volponi dà l’impressione d’immagazzinare tutto ciò che la vita gli mette sotto gli occhi. Di qui la sua scelta per una sorta di diario incompleto che nello stesso tempo è essenziale e mutilo, totale e mancante. Fa delle scelte… e alla fine costruisce un mondo scritto ben preciso e codificato…C’è dentro di tutto, la campagna, l’esperienza della fabbrica e dell’industria, i viaggi, certi paesaggi, animali, ma soprattutto la luce e la voce dell’Appennino che costituiscono la vera patria del Volponi… Non si placa mai nel discorso della facile pietà e cerca di portare sempre alla superfice la tavola dei suoi umori e delle sue ribellioni. Non è una poesia inerte…è una poesia che nello stesso tempo tende a restituirci la vita così com’è e la vita come dovrebbe essere” (Carlo Bo).

Paolo Volponi narratore

Memoriale (1962) è il primo romanzo di Volponi, nel quale si affronta il tema dell’alienazione dei lavoratori nel momento in cui l’Italia si trova in pieno boom economico. Il protagonista, Albino Saluggia, è un reduce della seconda guerra mondiale ed è un ex contadino assunto come operaio in una grande fabbrica di Ivrea. È un uomo solitario e nevrotico, diviso tra l’antica e la nuova condizione lavorativa. È ossessionato da un’idea fissa: crede di essere vittima di un complotto ordito dai medici della fabbrica per emarginarlo e poi licenziarlo. In effetti l’organizzazione industriale si prende cura di lui e lo manda in un sanatorio per curarsi, ma Albino si sente sempre più isolato: una mattina, mentre passeggia lungo la riva di un lago, vede un pesce più grande divorare un piccolo luccio e questo evento, apparentemente banale, diventa la metafora della sua vita. D’ora in poi sarà prigioniero di una condizione del lavoro oppressiva anche se apparentemente comprensiva e generosa, la quale imprigiona l’individuo in un sistema di produzione alienato e lo trasforma in un’appendice delle macchine.

A partire da questa opera, il mondo narrativo di Volponi sarà diviso tra lirismo e realismo e avrà come punto centrale individui profondamente feriti da una società industriale che si sostituisce alla Natura, dove coloro che non si adattano a questa nuova realtà finiscono per essere classificati come “pazzi”.

È questo il tema centrale del romanzo La macchina mondiale (1965), nel quale il protagonista Anteo Crocioni è un contadino marchigiano che vive nelle aride e quasi spopolate terre del Montefeltro. Mosso da un paradossale ottimismo, egli progetta una “macchina” animata e dotata di pensiero, capace d’indirizzate l’operato della altre macchine per rendere “felice” l’intero sistema produttivo e la stessa società. Preso da questa idea fissa, Anteo compromette la sua vita a cominciare dal matrimonio con Massimina che non lo capisce e vorrebbe vivere in pace; viene inoltre guardato con scettica sufficienza dalla comunità degli scienziati; si mette contro il suo paese, la Curia, la polizia, il tribunale, il mondo romano del potere;  finisce per essere espulso dalla comunità ed etichettato come un “folle”. Anteo è un anarchico che non appartiene a nessuna classe sociale e a nessun partito, che crede di poter agevolare il progresso, che pretende di dettare un Trattato mondiale in grado di favorire l’avvento di una nuova famiglia umana. Questo Don Chisciotte di campagna, quando si rende conto che la sua “utopia scientifica”, indirizzata a costruire un mondo più giusto e più umano, è stata sconfitta, sceglie la strada del suicidio: è il destino di un “veggente” che vede gli errori della società, ma finisce per essere annientato dai pregiudizi, dall’autoritarismo e dalla mancanza di pietà che lo circondano; è il secondo “folle innocente”, dopo Albino, ad essere stritolato dalla società urbana.

Corporale (1974) è il romanzo più complesso e più elevato di Paolo Volponi: Carlo Bo ha detto che in esso vi sono “le cose forse più belle che Volponi abbia mai scritto”. Il protagonista Gerolamo Aspri è un dirigente di uno storico partito della sinistra, portatore d’idee e piani che appartengono al dibattito ideologico degli anni Sessanta, un periodo che termina con la crisi del boom economico e con il progressivo spegnersi di ogni vivacità politica e culturale. Nella sua città Gerolamo ha proposto un progetto politico-sociale incentrato sul ruolo trainante di un’industria a misura d’uomo, ma è stato sconfitto dal suo stesso partito e dagli imprenditori locali, che hanno preferito dedicarsi ad attività di speculazione edilizia e a scelte finanziarie parassitarie, dimostrando l’arretratezza e la miopia culturale di una borghesia non all’altezza dei suoi compiti. Agli occhi di Gerolamo questa inerzia e povertà d’ideali è il sintomo di una crisi generale della sinistra concentrata sul presente e ormai incapace di elaborare teorie politiche e progetti rivolti al futuro. A questa delusione si aggiunge la paura quasi maniacale per un possibile conflitto atomico, per i misteri di Stato, per lo sviluppo incontrollato della politica degli armamenti, per lo spreco delle risorse e l’assalto alla natura. Sul piano personale Gerolamo vive una crisi familiare ed esistenziale che lo portano alle soglie della sofferenza mentale, per cui la narrazione procede su due piani che s’intersecano: da un lato la realtà quotidiana fatta di accadimenti veri (le sedute del consiglio comunale, le riunioni della segreteria di partito); dall’altro una irrealtà visionaria fatta di catastrofi naturali e di fantasie deliranti che si susseguono come le sequenze di un film noir o un thriller, segnata dalla presenza di malavitosi, oppure di personaggi avventurosi che perseguono sedicenti obiettivi rivoluzionari o  vogliono instaurare un regime dittatoriale. A sottolineare questo carattere realistico-visionario, nel racconto si alternano la prima e la terza persona; cambiano continuamente scenari che propongono angolazioni e punti di vista diversi; si accentua la scissione del protagonista sempre più incapace di distinguere tra realtà e fantasmi della psiche, ormai privo di motivazioni politiche e di aperture verso il futuro. Gerolamo progetta allora la costruzione di un bunker antiatomico dove rinchiudersi per sfuggire alle radiazioni di una guerra nucleare che provocherà la “morte” del mondo. Acquista un preciso valore simbolico la collocazione di questo bunker-bara a Urbino, la terra natale del protagonista che immagina un rientro nel grembo materno, una scelta che non è più vita, perché è morta prima ancora di nascere. È la conclusione di una crisi senza possibilità di riscatto, di una caduta che non è arginata neppure da un risveglio della coscienza e che simboleggia la crisi esistenziale e politica dell’autore.

Il sipario ducale (1975) è Il quarto romanzo dell’autore urbinate e può essere considerato un altro testo fondamentale giocato su un filone drammatico e un filone comico-grottesco, con un chiaro riferimento al mondo teatrale, dove i personaggi si muovono su un palcoscenico ideale sul quale si scontrano una superstite anarchia e una anacronistica aristocrazia. La storia si svolge a Urbino dove vive il professor Gaspare Subissoni, un anarchico che considera un inganno l’unità d’Italia, denuncia i privilegi di classe mascherati dietro un’apparente democrazia, condanna la televisione che propina agli spettatori le sue false verità preconfezionate, che rimane sconvolto dalla notizia della strage milanese di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969. Al centro di questa vicenda vi sono due figure femminili: Vivés, la compagna catalana che ha conosciuto Subissoni negli anni Trenta, quando combattevano per i repubblicani nella guerra civile spagnola; Dirce, una povera ragazza di estrazione contadina e innocente perché estranea al mondo del potere. Sul versante opposto agiscono il giovane conte Oddino Oddi-Semproni, le due zie zitelle Clelia e Marzia, l’autista-domestico Giocondini, un piccolo Jago di provincia abietto e calcolatore che vorrebbe arricchirsi alle spalle del padrone. Vivés, nel vedere la televisione, è la prima a capire che la colpa della strage di Piazza Fontana sarà attribuita agli anarchici o ai comunisti, mentre i reali responsabili sono i fascisti coperti dai servizi segreti per dare inizio a quella “strategia della tensione” volta a gettare le premesse per un golpe di destra, sospetti confermati dall’arresto dell’anarchico Pinelli, che precipita dal quarto piano della questura, dall’arresto e l’incriminazione del ballerino Valpreda. Nel palazzo Oddi-Semproni il giovane Oddo e le zie giudicano invece i fatti in modo opposto, perché vedono la televisione in modo passivo e acritico, per cui si riempiono la testa di luoghi comuni e di pregiudizi, peraltro in sintonia con l’ideologia qualunquistica e reazionaria della classe parassitaria a cui appartengono. Oddo è un ventenne malinconico, introverso e stranamente autoritario, incapace di riflettere con intelligenza sulle cose, orgoglioso solo delle sue origini nobili. Le zie sono preoccupate perché non è mai stato con una donna e si accontenta di vedere dei filmini porno, per cui si rivolgono all’autista per far conoscere qualche ragazza al nipote che viene accompagnato da una prostituta di Fano. Secondo le intenzione dell’infame, questa dovrebbe umiliare il giovane, ma la donna è malata e si fa sostituire dalla serva Dirce per questa prova sessuale che il giovane supera brillantemente, tanto che nel postribolo si diffonde la fama che sia un uomo sessualmente superdotato. Contro ogni previsione Oddo s’innamora di Dirce che ricambia questo sentimento, per cui il contino decide di sposarla e si accorda con la prostituta per mandare a prendere la ragazza che viene prelevata dall’autista e portata nel Palazzo Oddi-Semproni di Urbino, dove deve subire sia la diffidenza delle zie, sia l’arroganza e pignoleria di Oddo, che si rivela incapace di amare e sottopone la giovane ad assurdi cerimoniali, perché vede nel matrimonio uno strumento di affermazione sociale. Dirce si sente tradita negli affetti e fugge dal palazzo, ma per la strada cade e s’infortuna proprio vicino alla casa di Subissoni che, malgrado sia disperato per la breve malattia e la morte della sua compagna, cura e ospita la ragazza. La famiglia Oddi-Semproni fa cercare Dirce a Urbino e a Fano, perché Oddo la rivuole a tutti i costi e ritiene sia stata rapita. Giocondini chiede aiuto a Subissoni anche per promuovere politicamente il giovane conte che a Urbino è diventato popolare per la sua virilità, un simbolo da contrapporre alla nemica Pesaro. Subissoni finge di non saper nulla e mette in scena piste false per ingannare il subdolo autista. Per coordinare le indagini e per promuovere la campagna politica, il professore viene invitato a palazzo, dove capisce che Oddo è un povero demente, che Giocondini è un mascalzone che corrompe il giovane per i suoi interessi.  Subissoni cerca di far capire a Oddo che il problema italiano sta nella sua struttura unitaria, che sarebbe preferibile tornare agli stati-città confederati con libera scelta popolare; sostiene persino che sarebbe machiavellicamente possibile sottostare a una breve dittatura per arrivare a una reale democrazia del popolo, ma Oddo non capisce e non accetta queste idee. Il professore decide allora di fuggire a Milano insieme a Dirce, perché Urbino è ormai una trappola e in taxi partono per la stazione di Pesaro. Giocondini, informato da un benzinaio, dove il tassista ha fatto un controllo alle gomme, convince Oddo a inseguire i fuggitivi con la sua auto che, nell’affrontare una curva, finisce fuori strada a causa del ghiaccio, per cui il giovane conte muore, mentre l’autista probabilmente riuscirà a salvarsi. Volponi traccia una quadro socio-politico dell’Italia con una narrazione su due piani, tra commedia e tragedia, un atto d’accusa contro una società che perseguita persone come Subissoni e Vivés, che profana e offende gli innocenti come Dirce, che nasconde dietro il fiabesco “Sipario ducale” un allarmante quadro politico.

Il lanciatore di giavellotto (1981) è un romanzo storico ambientato nel periodo di maggiore potenza del regime fascista e il tema centrale riguarda l’ideologia fascista che condiziona le masse giovanili attraverso i miti della conquista dell’Impero e il successo nello sport. Il protagonista Damin e un giovane lanciatore di giavellotto che una educazione sbagliata ha fatto precipitare in una insuperabile immaturità, in un vuoto interiore, in una crisi morale e psichica causata anche dall’adulterio della madre con un gerarca fascista. L’incrinatura della fede nei miti del fascismo coincide con una serie di ossessioni che rimangono nascoste nel profondo fino a che si ha una esplosione di pazzia che spinge il giovane a uccidere la sorella e a suicidarsi. Ancora una volta la follia travolge una persona che vede crollare tutti i miti su cui aveva fondato la propria esistenza.

Le mosche del capitale (1989)è un romanzo dedicato ad Adriano Olivetti che l’autore considera un “maestro dell’industria mondiale”. Si tratta di un’opera visionaria e profetica che annuncia le profonde trasformazioni sociali e politiche che oggi contrassegnano la società contemporanea, un romanzo di fantasia che unisce agli aspetti autobiografici precisi riferimenti storici degli anni Settanta e Ottanta, popolato da personaggi che ricordano potenti uomini dell’economia e della politica italiana. L’autore, oltre a tracciare il drammatico bilancio personale, vuole rappresentare l’allegoria di un universo in frenetica trasformazione a causa di una industria che non è più al centro del progresso democratico del Paese, sostituita da un nuovo ordine politico-economico che privatizza i profitti e socializza i costi della comunità, inaugurando la vorace e trionfale stagione del capitalismo finanziario che esalta i consumi e provoca una lenta erosione della democrazia. “Il capitale – scrive Volponi – è un monarca assoluto, terribile, più duro del Re Sole, molto più potente e prepotente…Il capitalismo ha avuto vari collassi, vere crisi, perché è così ingordo, avido, mangia troppo, molto più di quello che può digerire e poi sta male, e naturalmente fa pagare agli altri sempre le sue sofferenze”.

Il protagonista Bruto Saraccini è un dirigente d’azienda e un umanista che vorrebbe attuare un progetto per una riforma democratica e progressista del mondo industriale. Il presidente della sua impresa, Ciro Nasàpeti, all’inizio lo vuole promuovere amministratore delegato, poi finisce per scegliere il conservatore Ing. Sommersi Cocchi. Allora Saraccini si licenzia e viene contattato dal Megagruppo di Donna Fulgenzia ma, dopo i colloqui preliminari, capisce che neanche lì potrà realizzare i suoi progetti, per cui ritorna a lavorare per la precedente azienda. Con la vicenda di Saraccini s’intreccia la storia dell’operaio Antonino Tecraso, accusato di azioni sovversive e incarcerato insieme ad altri 56 compagni: è il segno del degrado della condizione degli operai legati alla catena di montaggio, considerati dei residui da espellere e cancellare dalla società. Sarracini è considerato un libertario sconfitto che ha visto fallire tutte le sue speranze umane e politiche e la sua vita è ormai ridotta un calvario di umiliazioni e sopraffazioni che riflettono l’intera geografia morale del Paese, dove prevale la conquista del potere da parte degli esponenti di una nuova religione che sta travolgendo la classe operaia e i partiti politici, genera un vuoto destinato a essere riempito dalle “mosche del capitale”. Lo stesso Nasàpeti disprezza “l’umano” Sarracini e arriva ad accusarlo di connivenza con i terroristi, ma il presidente cade gravemente ammalato, intorno al suo letto di morte, si accalcano tutti i servi d’un tempo, i manager del futuro che si ora si dilaniano per la conquista di un ruolo prestigioso: sono le “mosche del capitale”, i nuovi ingranaggi eterodiretti da una minoranza che ha il monopolio del potere.

La strada per Roma (1991) è l’ultimo romanzo di Volponi dal chiaro carattere autobiografico e collocato nella città di Urbino. La storia inizia nel 1950, quando il protagonista Guido Corsalini, che sta per laurearsi, avverte una spinta a fuggire dalle soffocanti atmosfere familiari e cittadine, un sentimento comune ad alcuni suoi amici: Alberto appartiene a una famiglia povera e va in Belgio per lavorare nelle miniere; Ettore è uno studente senza mezzi che cerca di affermarsi con l’insegnamento. Guido rimane ancora legato alla sua città, perché ha una relazione con Letizia Cancellieri, ventiduenne nobile, bellissima e moralmente “disinvolta”, sogno proibito di tutta la gioventù urbinate. Finito questo rapporto, Guido decide di laurearsi e, per la improvvisa morte del padre, è costretto a occuparsi della vendita dei beni di famiglia e della ristrutturazione della casa, per cui rinvia sempre la partenza per rimanere a Urbino fino alle elezioni politiche del 1953. Ma il tempo è scaduto e non ha più scuse per restare per cui parte per Roma, dove prende servizio in una banca. Non riesce però a stabilire un rapporto costruttivo con la città e con l’ambiente anche quando ha una relazione con la giovane Fiorenza, pensando così di spegnere l’irrequietezza, la solitudine e l’insoddisfazione. Durante un breve ritorno a Urbino, si abbandona ad animate discussioni durante le quali un certo Venanzi gli rinfaccia che suo padre non aveva per lui nessuna stima, per cui si accende uno scontro violento e Guido rischia di uccidere l’avversario. Alla fine tutto si risolve per il meglio, ma Guido capisce di essere vissuto per anni nella convinzione di avere una superiorità intellettuale, mentre ha solo recitato una parte nella commedia della vita, per cui decide di partire definitivamente per la capitale.

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