“Ossi di seppia” di Montale compie cento anni
di Alberto Pellegrino
9 Mag 2025 - Letteratura
La raccolta di poesie “Ossi di seppia” di Eugenio Montale ha compiuto cento anni e mostra ancora la sua assoluta bellezza.


Nella mia prima giovinezza di liceale, tormentato dalla ossessiva presenza dantesca, due libri hanno portato una ventata di salvifica aria fresca: il primo è stato L’allegria di Giuseppe Ungaretti, autore dall’asciutta e avvolgente tragicità; il secondo è stato Ossi di seppia di Eugenio Montale, di cui possiedo la prima edizione postbellica del 1948 pubblicata nella mitica collana dei “Poeti allo Specchio” di Mondadori. L’elemento che ha attirato la mia attenzione è stato proprio quel titolo così irrituale con il riferimento ai residui calcarei di molluschi respinti e depositati sulla riva del mare, che in questo caso diventano la metafora dell’inconsistenza e della caducità della vita umana, il centro di una poetica di quegli “scarti” che formano un meraviglioso “canzoniere lirico” destinato a rendere l’autore uno dei maestri della poesia contemporanea, una poesia che troverà la sua consacrazione nel 1975 con l’assegnazione del Premio Nobel per la letteratura.
Questi versi, nati tra il 1916 e il 1925, hanno trovato una immediata corrispondenza nell’animo di un giovane degli anni Cinquanta già cresciuto nel mito della poesia leopardiana e rimasto affascinato da una raccolta poetica così innovativa e costruita sullo “spartito” di otto sezioni: l’introduzione In limine; Movimenti che appartengono al “proto-Montale”; Poesie per Camillo Sbarbaro, un grande poeta ligure; Sarcofaghi e Altri versi, una sezione dominata dal tema dell’infanzia e dell’adolescenza, miti da cui è necessario staccarsi, anche se bisognerà pagare il prezzo di una maturità segnata dal dolore; Ossi di seppia che costituisce il nucleo centrale di un allucinato e misterioso universo; Mediterraneo, una sezione dominata dal tema del mare visto come elemento primordiale e vitale con il quale è necessario stabilire un rapporto per costituire un ponte tra adolescenza e maturità; Meriggi e ombre, una sezione che ripercorre la storia dall’infanzia alla giovinezza dell’autore, fornendo un sostanziale contributo alla creazione della figura novecentesca dell’antieroe; Riviere che è l’ultima sezione in cui il poeta ritorna al tema del paesaggio marino per scoprire che l’adulto di oggi vive nella stessa dolce cattività dell’adolescente di allora, un essere umano che continua a sentirsi un “osso di seppia” sballottato dalle onde, spinto a dissolversi nella natura per “svanire a poco a poco; / diventare / un albero rugoso o una pietra / levigata dal mare”.
La lingua e la struttura metrica
Montale usa un linguaggio carico di richiami alla musica e alla pittura, di riferimenti alla classicità tradizionale, finendo per costituire un fenomeno unico nel panorama poetico del Novecento italiano. Il poeta usa determinati strumenti linguistici per creare uno stile personale e intenso, aspro e attuale, capace di conferire un particolare fascino a una condizione umana “infernale”, impiegando delle scelte metriche che non vogliono istituire un collegamento con il passato, ma servono a infondere una maggiore profondità e un arricchimento al proprio mondo interiore.
La lingua viene usata come una lente d’ingrandimento per evidenziare quegli elementi più piccoli e comuni che in poesia non hanno un nome altisonante; diventa un mezzo per dare un senso a una natura ostile e minacciosa, per rappresentare un “impressionismo interiore” che si propone di associare eventi naturali ed emozionali. Montale mostra un debito nei confronti di D’Annunzio per la rigorosa ricerca metrico-ritmica, per l’invenzione di nuove parole, per un rapporto privilegiato che egli riesce a stabilire con la natura che però non è vista come la forza vitale e armoniosa di Alcyone, ma come un elemento negativo che appare deformato allo sguardo del poeta.
Le composizioni, che formano Ossi di seppia, sono state scritte in un periodo in cui futuristi e “vociani” stanno sperimentando la “rottura” del ritmo, della forma, della struttura sintattica nelle sue componenti più elementari. Montale si distacca da questi movimenti, perché trasforma e adatta le loro novità alle proprie esigenze, per cui la sua lirica si presenta come una consapevole e misurata ricostruzione del verso nella sua forma “classica”, quasi a dimostrare che, anche con uno stile rigoroso, chiaro e semplice, è possibile dare forma a una poetica modernissima e fondata sulla drammatica disgregazione della vita.
La “classicità” di Montale è inoltre arricchita dalla musicalità della lingua che si manifesta attraverso rime, assonanze e consonanze, un uso raffinato della sintassi poetica, l’adozione di un uso “classico” del verso parallelo a quello di D’Annunzio, il quale recupera questo stile in funzione di un “messaggio ideologico” e di un “programma” poetico finalizzato a recuperare simboli e significati della memoria storica, mentre in Montale il recupero della classicità diventa uno strumento linguistico-formale da contrapporre allo sperimentalismo delle avanguardie con l’impiego di strutture metriche più vicine alle Myricae pascoliane.
Non bisogna nemmeno sottovalutare l’influenza che ha avuto sulla sua poetica l’educazione musicale ricevuta in gioventù (Montale ha frequentato il conservatorio per studiare come baritono): infatti, sotto influsso di Debussy, egli ha cercato d’imitare la musica nell’armonia del verso come avviene nelle composizioni Musica sognata, Corno inglese e Falsetto che sono caratterizzate dall’alternarsi di movimenti musicali distesi e meditativi (l’adagio) con l’improvviso irrompere d’immagini più frementi e inquiete (il presto), che rappresentano una novità assoluta nella poesia contemporanea.


I temi fondamentali
Ossi di seppia, al primo approccio, appare il diario di un’estate passata sulla Riviera Ligure, dove il mare diventa un elemento centrale segnato da un rapporto ambiguo di attrazione/repulsione dell’autore, il quale sintetizza questo particolare legame con la metafora di uno scheletro di animale marino che, dopo la morte, galleggia sulle onde ed è trascinato a riva come una “inutile maceria”. È proprio questo relitto naturale a diventare il simbolo di una raggiunta maturità da parte di un adolescente che il mare ha gettato sulla riva della vita, costringendolo a guardare verso un orizzonte lontano e indecifrabile anche se carico di una misteriosa fascinazione.
A una seconda lettura si rileva che Montale affronta i grandi temi del tempo, dell’alienazione, del dolore (“il male di vivere”) in un controcanto (quasi leopardiano) nei confronti di una vita scialba e inconsistente, ma caratterizzata dalla “necessità” di vivere come unica alternativa da opporre al Caso, di esorcizzare un’angoscia e una negatività assoluta attraverso il distacco dalle emozioni. Il poeta è consapevole che l’individuo non riesce a raggiungere la felicità, perché è incapace di vedere e rappresentare la vita nella sua globalità, ma è solo in grado di catalogarne i vari aspetti fenomenici grazie alla continua aderenza ai molteplici dati reali che sfociano poi in una poesia fortemente dominata da un senso di negatività e disgregazione.
Dopo la rivoluzione operata da Ungaretti e dopo il tentativo di restaurazione classicista messo in atto dalla Ronda, Montale si distingue per adottare una poetica dai toni discorsivi che lo avvicinano sotto il profilo formale a Pascoli e a Gozzano, mentre nella sostanza egli assume posizioni esistenzialiste e filosoficamente “negative” destinate a esprimere quel sentimento di emarginazione e di aridità che caratterizza il rapporto dell’uomo con la realtà e con la natura.
Tutte le sue composizioni sono segnate dalla negatività, dall’inutilità delle cose morte (gli ossi di seppia), dall’impotenza dell’uomo di fronte all’angoscia che lo pervade, senza tuttavia escludere un rapporto dialettico con la ricerca di una positività vitale malgrado l’individuo sia “condannato” alla sconfitta, per cui non bisogna mai abbandonare la voglia di trovare un “varco”, una via di salvezza attraverso una “maglia rotta nella rete / che ci stringe” ma, per altri versi, va alla ricerca della lucida accettazione di un’angoscia non redimibile. Forse il fascino di questi versi deriva proprio da questa lotta che sfocia nell’accettazione di una sconfitta dietro la quale si può intravedere l’aspirazione dell’autore a creare una poesia che permetta di trovare un varco oltre il quale sia possibile dare un senso al vivere quotidiano: “Potere / simili a questi rami / ieri scarniti e nudi ed oggi / di fremiti e di linfe, / sentire / noi pur domani tra i profumi e i venti / un riaffluir di sogni, un urger folle / di voci verso un esito, e nel sole / che v’investe, vivere, rifiorire”.
Il rapporto del poeta con il paesaggio
Montale rifiuta la tradizione romantico-decadente fondata sulla fusione dell’io poetico con il mondo naturale e trasformando il paesaggio ligure in un simbolico, nudo e desolato deserto inaridito da un sole che dissecca tutto quello che raggiunge coi suoi raggi. Egli rinuncia ad affrontare argomenti “alti”; non vuole essere un “poeta vate” come D’Annunzio; non sa dare una spiegazione della vita e del rapporto dell’uomo con la natura, perché la realtà appare incomprensibile e inesprimibile, per cui il poeta riesce solo a mettere in evidenza la sua percezione negativa dello stare al mondo; sceglie come contesto la rappresentazione di un paesaggio aspro e scabro, l’uso un linguaggio modellato sulla sua profonda inquietudine personale.
Solo in qualche caso s’intravede un guizzo di speranza che permette all’uomo di scoprire la verità ultima rappresentata dal “male di vivere”, rifiutando ogni forma di consolazione, perché si ha la coscienza dello “scacco” determinato dalla sconfitta dell’uomo prigioniero di un indecifrabile determinismo. Nemmeno la poesia può indicare la strada per uscire da questa condizione esistenziale (“non domandarci la formula che mondi possa aprirti”); essa può al massimo offrire “qualche storta sillaba e secca come un ramo” per cercare di dare un senso a questa metaforica rappresentazione di dimensioni cosmiche, fornendo soltanto la consapevolezza del “non essere” del vivere umano emblematicamente rappresentato da “questo seguire una muraglia / che ha in cima cocci di bottiglia”.
Per questi motivi il paesaggio geografico assume una importanza fondamentale nella poetica montaliana, perché ad esso corrisponde un paesaggio interiore in cui alcuni elementi assumono una enorme forza simbolica come quel muro invalicabile che nasconde l’indecifrabile mistero dell’esistenza. All’interno di questo mondo naturale pari importanza assumono sia i segni di una pulsante vita animale (il canto degli uccelli e delle cicale, l’operosità delle formiche, il guizzo delle anguille, il fruscio delle serpi), sia particolari presenze di vita arborea (gli ulivi, i limoni), come assume un ruolo rilevante quel vento (il “maestrale”, lo “scirocco”, la “tramontana”) che rappresenta la forza della natura, che può essere violento come una sferzata, oppure dolce come una carezza che sfiora il mare e la terra per aprire uno spiraglio alla speranza. Sono tutti elementi naturali che si presentano di volta in volta come un’invocazione di salvezza, l’illusione di un improvviso prodigio, una invocazione simile a una sommessa preghiera di fonte la disperata rivelazione del nulla. C’è infine la presenza del mare con suoi deliranti colori, i lucenti riflessi, le pietre levigate dalle onde, spesso il mare è visto come un’autentica lezione di vita in cui identificarsi, anche se il poeta è consapevole di appartenere alla “razza di chi rimane a terra”, di non poter mai realizzare un sogno (“Avrei voluto sentirmi scabro ed essenziale / siccome i ciottoli che tu volvi / mangiati dalla salsedine”). L’unico rifugio possibile per il profeta moderno è quella “Divina Indifferenza”, che rimane l’unico modo per comunicare con il mondo, dopo avere abbandonato le grandi illusioni dell’infanzia e dall’adolescenza, quando cercava una irraggiungibile felicità.
Il contesto culturale di “Ossi di seppia”
Montale scrive questa raccolta tra il 1916 e il 1925, l’anno in cui esce il Manifesto degli intellettuali fascisti di Giovanni Gentile, nel quale il fascismo è presentato come una continuazione ideale del Risorgimento e nel quale si evidenzia il suo «carattere religioso» fondato sulla fede nella Patria e sul metodo della lotta per la conquista del potere, capovolgendo il rapporto individuo-Stato con la subordinazione del singolo al superiore interesse della Nazione vista secondo una concezione “mistica”. Al fascismo inteso come religione politica, Montale contrappone una totale laicità, una religione dei sentimenti, una visione della vita come dolore; la consapevolezza di non possedere delle risposte (Non chiederci la parola), per cui la sua opposizione al fascismo si è tradotta in un atto di dignità intellettuale e non in una militanza attiva: “L’argomento delle mie poesie (e credo di ogni possibile poesia) è la condizione umana in sé considerata, non questo o quell’avvenimento storico. Ciò non significa estraniarsi da quanto avviene nel mondo; significa solo coscienza, e volontà, di non scambiare l’essenziale col transitorio”.
Negli anni della sua formazione Montale mostra un grande interesse per la letteratura francese e inglese e questo può spiegare la sua vicinanza a La terra desolata di Thomas S. Eliot pubblicata nel 1922: “Nel nostro secolo, nel periodo tra le due grandi guerre, son sorti due poeti, nel mondo anglosassone e in Italia, i cui punti di vista offrono notevoli somiglianze che solo parzialmente possono spiegarsi attraverso i medesimi influssi culturali. La terra desolata e Ossi di seppia evocano la stessa visione d’un mondo isterilito, sconsolato, d’una disperata aridità che scandaglia ogni fessura delle rocce in cerca d’una goccia d’acqua…Il messaggio del poeta italiano che paragona la vita e il suo travaglio al seguitare una muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia, e il messaggio del poeta anglo-americano che passa tra paesaggi apocalittici la cui grandiosità ha qualcosa dell’inferno dantesco, collimano sostanzialmente” (Mario Praz).
L’analogia tra queste due raccolte poetiche è sorprendente: in entrambe si avvertono le medesime sonorità, lo stesso contesto arido e desolato, la presenza del deserto come simbolo drammatico. Si può credere alle coincidenze in letteratura? La poesia di un ligure educato in un collegio dei Barnabiti e di un bostoniano cresciuto ad Harvard possono essere l’indizio di una globalità culturale? In ogni caso esiste una fonte comune per quella desolata metafora esistenziale: è il deserto biblico, il teatro del lungo e drammatico esodo del popolo ebraico verso la terra promessa; una dura realtà quotidiana entra in crisi la speranza e si sperimenta la propria debolezza. Il deserto si presenta per entrambi i poeti come un luogo di penitenza che prosciuga ogni elemento di mondanità e orienta verso l’essenziale ma con una profonda differenza personale: in Thomas S. Eliot la fede religiosa è apertamente dichiarata, mentre in Montale si riscontra una religiosità laica a volte repressa e sottaciuta, a volte espressa per allusioni e simboli.
Nel poeta italiano si avverte inoltre la presenza di altre influenze europee: basti pensare al personaggio decadente del disadattato (Peer Gynt di Ibsen), alla impotenza dell’inetto di fronte allo scorrere del tempo (La coscienza di Zeno di Italo Svevo), ai lontani echi del futurismo e dell’espressionismo. La grandezza del primo Montale emerge da questo “manifesto” poetico che riguarda un’intera generazione formata da individui che non sanno dare una risposta a una fondamentale domanda: “Non domandarci la formula che mondi possa aprirti, / sì qualche sillaba storta e secca come un ramo. / Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. Siamo di fronte a una generazione che “spesso il male di vivere ha incontrato”, che si sente prigioniera di una realtà fatta di rottami, detriti, relitti portasti a riva dal mare, che trova la propria sublimazione in un brullo paesaggio di scabra bellezza fatta di aridi scogli di ciottoli e sugheri, di spiagge desolate e ondose. In questa terra desolata, amata e odiata il poeta passa dall’infanzia alla prima maturità e da essa vorrebbe fuggire per cercare una “evasione” che porti un barlume di speranza e l’illusione di “miracolo laico” capace di liberarlo dalla prigionia di un mondo indecifrabile, che lo spinga lontano dai tanti fantasmi dalla sua fantasia, da quelle “intermittenze del cuore” provocate dalle figure femminili che hanno segnato la sua giovinezza e vi hanno lasciato una qualche labile traccia.