Nabucco e Trovatore allo Sferisterio


Alberto Pellegrino

7 Ago 2013 - Commenti classica

MACERATA. La 49^ Stagione lirica nello Sferisterio di Macerata è stata celebrata nel segno di Giuseppe Verdi con due opere particolarmente amate dal pubblico accorso numeroso alle varie serate che si sono succedute fino all’ultima rappresentazione del 10 agosto. Il tema scelto per il festival è stato Muri e divisioni che, secondo il direttore artistico Francesco Micheli, vuole essere un promemoria per questi tempi difficili che ci invita ad abbattere le barriere tese a dividere senza ragione, un memento che ci sprona a colmare i divari figli del pregiudizio .
Primo titolo in cartellone Nabucco, opera verdiana carica di risonanze risorgimentali a causa del suo celebre coro divenuto uno dei canti patriottici degli italiani, forse al di là dalle stesse intenzioni del Maestro. Questo melodramma acquista una particolare valenza nella produzione verdiana, perchè segna l’uscita dalla profonda crisi esistenziale e professionale che aveva colpito il compositore. Finalmente nel 1842 Verdi trova la forza interiore per comporre questa opera e farne, nonostante i limiti drammaturgici e poetici del libretto di Temistocle Solera, un primo capolavoro che avrebbe aperto la strada a una serie di straordinari successi. Opera che, nonostante il suo impianto oratoriale in quattro parti (Gerusalemme, L’empio, La profezia, L’idolo infranto) presenta un forte contenuto lirico che preannuncia una stagione innovativa rispetto al panorama operistico in quel momento dominato da Donizetti e Mercadante, grazie al sapiente dosaggio tra lo spessore dei cori e i drammi individuali, le pagine solistiche e i quadri d’assieme. Nabucco si presenta come la prima opera italiana nuova anche per l’emergere di due protagonisti assoluti rappresentati dal sovrano babilonese, nel doppio ruolo di padre e di tiranno, e da Abigaille, personaggio finora trascurato dall’esegesi musicale ma finalmente rivalutato come figura di primo piano nel ruolo di avversario politico, antagonista familiare e rivale in amore della sorellastra Fenena. Gli interpreti dell’opera si sono calati perfettamente in questo clima, per cui il giovane soprano Virginia Tola è stata un’Abigaille capace di dare un forte spessore drammatico al ruolo della schiava che vuol farsi regina; al suo fianco il baritono Luca Salsi (che ha sostituito Alberto Mastromarino) ha fornito una bella prestazione, proponendo tutti i passaggi drammatici e le sfumature psicologiche del personaggio. All’altezza dei loro ruoli si sono mostrati il basso Giorgio Giuseppini (Zaccaria) e Gabriella Sborgi (Fenena), mentre fuori ruolo è apparso il tenore Valter Borin che, oltre ad alcuni limiti interpretativi, non ha saputo dare spessore drammatico al suo personaggio.
Nabucco è un’opera incentrata sullo scontro tra la volontà di dominio di un potente sovrano e l’anelito di libertà unito al desiderio della patria lontana del popolo ebraico oppresso e reso schiavo durante la prima diaspora sotto il dominio babilonese. A questi temi si aggiungono quelli del conflitto tra amore e odio, tra monoteismo e paganesimo. Da queste considerazioni è partito il regista Gabriele Vacis che, seguendo l’attuale e legittima tendenza alla modernizzazione del melodramma, ha puntato sul tema della guerra per l’acqua invece che sullo scontro schiavitù-libertà . Ne è venuto fuori un progetto eccessivamente carico di simboli (l’idea di ricostruire la pianta di Gerusalemme con delle bottiglie di plastica ricorda il labirinto di bicchieri entro il quale si muovevano i personaggi della Tosca di Latella nel 2005), ma senza un effettivo mordente drammatico, con poche scene cariche di patos perdute nel grigiore anonimo delle luci e dei costumi alquanto confusi (ebrei, guerriglieri palestinesi, soldati iracheni, profughi in fuga?), per cui persino il celebre Va pensiero non è riuscito ad accendere gli entusiasmi del pubblico. Non è sufficiente proiettare delle belle frasi programmatiche senza poi tradurle in pieno in un’efficace azione scenica. La stessa banalità delle immagini proiettate (tolta l’idea della pianta del Tempio distrutta dalle fiamme) non ha contribuito a conferire spessore e calore allo spettacolo, mentre quando sarebbe bastato, invece di una turistica Gerusalemme di oggi, evocare cinquant’anni della storia di Israele (1948-1997) attraverso le immagini dei grandi fotografi della Magnum (Israele, Federico Morra Editore, Milano, 1998). Certamente un’edizione di Nabucco che non rimarrà negli annali dello Sferisterio.
Come secondo titolo verdiano è stato scelto Il Trovatore, l’opera che a nostro giudizio rappresenta il vertice del melodramma romantico grazie all’eccezionale valore dello spartito verdiano e alla qualità del libretto di Salvatore Cammarano, che scrive in questo caso il suo capolavoro letterario. In questa storia, ambientata nella Spagna del XV secolo, s’intersecano amore e odio, gelosia e vendetta, sensualità e spiritualità , violenza e dedizione fino al supremo sacrificio della vita in un intreccio di sentimenti voluto dal Fato che solo alla fine arriva al suo scioglimento, quando sono abbattuti tutti i muri che dividono i vari personaggi. Nell’opera è presente tutto l’armamentario del dramma romantico: rapimenti di bambini in fasce, streghe bruciate, madri che uccidono per errore i propri figli, duelli, fanciulle che si rifugiano in convento da dove sono strappate per andare a insperate nozze, madri (presunte tali) decise a ostacolare la felicità del figlio, un gruppo etnico emarginato e perseguitato (Azucena è una abbietta zingara ), un avvelenamento intempestivo, una terribile vendetta che si rivela essere un fratricidio a causa di una tardiva agnizione. Questa specie di calderone diventa credibile grazie alla drammaturgia di Cammarano e soprattutto alla vulcanica e travolgente ispirazione verdiana capace di passare da pagine trascinanti come il coro degli zingari o Di quella pira alla somma liricità di brani come Tacea la notte placida, Il balen del tuo sorriso e la sublime aria D’amor sull’ali rosee.
Questa materia magmatica ha evidentemente sollecitato la fantasia e la creatività del regista messicano Francisco Negrin per questa eccellente messa in scena nella quale si sono fusi lirismo, senso del fiabesco e citazioni horror. A determinare il successo di questa edizione hanno concorso anche altri elementi fondamentali per questo allestimento. La scenografia di Louis Desirè ha posto al centro del palcoscenico una cupa torre nera che incombe minacciosa sul coro e sui personaggi; due lunghissimi tavoli sono usati come luogo deputato per racconti, pranzi e conversari, per poi diventare delle passerelle per accogliere momenti d’amore, violenti duelli, lo sfogo dei sentimenti dei protagonisti. A loro volta i costumi, ancora di Desirè, sono stati concepiti per sottolineare una visione atemporale che tuttavia non ha rinunciato a citazioni stilistiche tra Seicento e Ottocento, con abiti rigorosamente neri per le zingare, per le nobili dame (solo nel finale Leonora indosserà l’abito bianco di una mancata sposa), per le suore la cui presenza è stata marcata da lunghi veli rossi. Non va infine trascurato il progetto luministico di Bruno Poet, che è riuscito a dare finalmente una struttura narrativa alle luci sempre ritmate sulle cadenze dello spartito musicale, puntualmente votate a sottolineare i vari momenti lirico-drammatici con improvvise tempeste luminose, con continui passaggi dal bianco della stasi drammatica, all’azzurro della notte incombente, al rosso dei momenti eroico-passionali.
Negrin ha impostato il suo progetto registico su tre temi conduttori: la passione amorosa violenta e irrefrenabile, il fuoco e la morte. La presenza del fuoco ha percorso tutto lo spettacolo, a cominciare dalla presenza dal grande catino con una fiamma sempre accesa a evocare una pira sempre incombente, per continuare con improvvisi scoppi di fiamma a ricordare la ricorrente minaccia del rogo per Azucena, per finire con l’improvvisa striscia di fuoco che percorre tutto il palcoscenico a suggellare la conclusione di un dramma particolarmente violento. La passione amorosa ha fatto accendere di rosso le passerelle e i fondali di mattoni, ha coinvolto matericamente i protagonisti nel loro triangolare rincorrersi tra sensualità e amore sublimato. Infine la morte si è aggirata per tutta la vicenda con citazioni dal carnevale messicano, dove gioia di vivere e senso della morte costituiscono un’inscindibile realtà : in questo senso abbiamo letto le maschere bianche sul viso dei coristi che si sono mossi come una schiera di fantasmi; l’uso della falce (l’arma privilegiata dalla morte nelle danze macabre medioevali) che i due protagonisti maschili hanno usato nei loro duelli al posto delle spade; la presenza sulla scena sia del fantasma del bambino arso erroneamente sulla pira, sia del fantasma della madre di Azucena, la strega dai rossi capelli che prima ha eseguito in cima alla torre la sua terribile danza, poi è entrata direttamente nella scena per avvolgere, come una moderna Parca, i protagonisti con il filo rosso del Fato. La morte ancora una volta s’impone come protagonista con il potere delle sue ali di tenebra , per incarnarsi infine nella persona del Conte di Luna che (contro il libretto e contro la tradizione) pugnala sulla scena Manrico prima di scoprire che si tratta del fratello.
Tutto questo Negrin l’ha realizzato nel pieno rispetto dello spartito, del libretto e della sua struttura drammaturgica, con dei risultati estetici e narrativi che faranno entrare questo Trovatore nella storia dell’Arena Sferisterio. A completare il successo dell’opera ha sicuramente contribuito la qualità del cast degli interpreti a cominciare dal soprano Susanna Branchini particolarmente valida nei suoni acuti e medio-gravi e grande interprete dell’aria D’amor sull’ali rosee; il giovane baritono Simone Piazzolla ha dato al Conte di Luna il giusto slancio passionale e un valido spessore vocale soprattutto nelle zone acute, mettendo in evidenza un’apprezzabile sicurezza tecnica; il tenore Aquiles Machado ha interpretato il ruolo di Manrico puntando sul registro eroico certamente lontano dallo spessore drammatico cui ci ha abituato la tradizione con qualche difficoltà nella zona grave e una buona tenuta nella zona medio-acuta; il mezzosoprano Enkelejda Shkosa è stata un’efficace Azucena per chiarezza di dizione e per un’ampia emissione di voce. Bene hanno fatto anche i comprimari a cominciare da Luigi De Donato (Ferrando), Rosanna Lo Greco (Ines), Enrico Cossutta (Ruiz), Alessandro Pucci (il messo). Buone le prestazioni dell’Orchestra Regionale Marchigiana diretta dal M Paolo Arrivabeni e del Coro Lirico Marchigiano Bellini diretto dal M David Crescenzi.

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