L’oratorio haendeliano “Theodora” alla Scala di Milano


di Andrea Zepponi

27 Nov 2021 - Commenti classica

Riproposto al Teatro alla Scala di Milano il capolavoro oratoriale di Haendel Theodora. Continua così l’ottima scelta dell’immenso programma di apertura al barocco del teatro milanese. Cast eccellente.

(ph Brescia e Amisano © Teatro alla Scala)

Theodora HWV 68, oratorio in tre parti per soli, coro e orchestra di Georg Friedrich Händel (Teatro alla Scala di Milano, sabato 20 novembre 2021).

  • Lisette Oropesa (Theodora)
  • Joyce DiDonato (Irene)
  • Michael Spyres (Septimius)
  • John Chest (Valens)
  • Paul-Antoine Bénos-Djian (Didymus)
  • Massimo Lombardi (Messaggero)
  • Orchestra e Coro Il Pomo d’Oro
  • Direttore e Clavicembalo Maxim Emelyanychev

L’oratorio haendeliano Theodora è stato eseguito alla Scala di Milano il 20 novembre scorso con un concorso di eccellenze di cantanti quasi tutti di madre lingua inglese e  con un certo effetto scenico anche se l’esecuzione era in forma di concerto;  penultimo oratorio di Haendel, ebbe la sua prima assoluta al Covent Garden di Londra il 16 marzo 1750, lo stesso anno in cui morì Johann Sebastian Bach, data assunta come termine della musica barocca secondo una convenzione storiografica oggi ridiscussa: infatti il periodo che si estende dalla fondazione dell’Arcadia 1690 alla fine del 700 trova una ben più adatta definizione se si parla di età dello stile galante. Si sarebbe tentati allora di ravvisare in questo oratorio uno degli spartiacque tra le due epoche e nella sua musica il senso di una fine imminente sia a causa dell’età avanzata del suo autore, che il 23 febbraio aveva compiuto sessantacinque anni, sia per la luce crepuscolare che sembra avvolgere non solo le arie ma anche i cori di quest’opera così lontani dalla pomposità del melodramma hendeliano. Ne è un esempio il Larghetto in re minore che termina la prima parte con un pianissimo dallo straordinario effetto di anticlimax. Le tre parti della Theodora, con soggetto cristiano sul martirio dei fidanzati Teodora e Didimo, constano di ventisei arie equamente divise tra i cinque personaggi, cinque a testa – a eccezione della protagonista eponima che ne ha sette – di tre duetti, undici cori e tre recitativi accompagnati dall’orchestra. Il lavoro in effetti non differisce molto da un melodramma, a parte l’espediente oratoriale del messaggero che racconta e commenta alcuni fatti avvenuti fuori scena. Tuttavia la minuta espressione degli affetti nella sequenza di recitativi e arie di cui Haendel, come ogni altro operista contemporaneo, dotava le sue opere precedenti, sembra lasciare il posto a un peculiare chiaroscuro affettivo che confluisce in una tinta unica e rimanda a quella ossimorica Stubborn melancoly fond of life and liberty (“malinconia ostinata amante della vita e della libertà”) di cui parla il soldato romano Settimio nella quinta scena della prima parte. Come scrive Lorenzo Mattei nel programma di sala della Scala, “Haendel infatti compie una sorta di smaterializzazione delle sue musiche tramite un processo di sottrazione progressiva di peso che si traduce in una riduzione al minimo dei recitativi, in una semplificazione della melodia, in una diminuzione del virtuosismo vocale e nella rarefazione orchestrale. Lo spirito aereo e la diffusa leggerezza di Teodora sono certo adeguati al nucleo concettuale dell’oratorio la rinuncia alla vita in nome della fede e l’anelito a congiungersi con Dio, ma potrebbero anche essere letti alla luce di una nuova sensibilità opposta alla poetica barocca, quella della edle Einfalt und stille Gröβe (nobile semplicità e quieta grandezza) proposta dallo storico e archeologo Johann Joachim Winckelmann che, mentre Haendel compone Theodora, è bibliotecario del conte Heinrich von Bünau nella sua residenza presso Dresda e da lì elabora l’estetica neoclassica che consoliderà definitivamente dopo pochi anni durante il suo soggiorno a Roma nel 1755, anno della seconda messinscena londinese il 5 marzo di Theodora in parte revisionata dal Compositore.” L’estetica classicistica improntata al dominio delle passioni appena emergenti dalla forma serena e levigata sembra proprio giocare un ruolo già significativo tra i personaggi di Teodora e Didimo secondo quanto si riscontra dai versi del libretto inglese di Thomas Morell, collaboratore di Haendel nella stesura di tanti altri oratori, dove nulla traspare della passione che dovrebbe invece legare la coppia: nella scena notturna del carcere, vertice espressivo dell’intera opera incorniciato da due struggenti episodi corali, le uniche dichiarazioni d’amore sono rivolte a Dio e anche l’espediente del travestimento con reciproco scambio di aiuto, quanto mai teatrale scelto spesso come momento topico dall’iconografia di questa storia di martiri, non riesce a scuotere i due personaggi dalla loro ieratica immobilità. Quando avviene il secondo colpo di scena e la condanna a morte di Didimo è annunciata dal messaggero, Teodora è in grado di trasfigurare il dolore in estasi mistica, la stessa che accompagna i due protagonisti nel momento in cui vengono martirizzati. Del tutto statici e contemplativi sono pure gli atteggiamenti di Irene e di Settimio, personaggi con la funzione di commentatori; a smuovere la quieta grandezza e la “bella semplicità” presenti nella musica provvede il furore e la superba crudeltà di Valente che anticipa, con il suo virtuosismo barocco, quell’attribuzione di senso deteriore all’artificio vocale – e quindi al personaggio – dall’opera classicheggiante di Gluck in poi. Non per nulla tra i primi interpreti dell’oratorio, nel ruolo di Didimo, ci fu anche quello che sarà, nel 1762, il primo Orfeo nell’opera gluckiana Orfeo ed Euridice, il celebre evirato Gaetano Guadagni (Lodi 1728- Padova 1792).

La riproposta di questo capolavoro oratoriale di Haendel alla Scala prosegue l’immenso programma di apertura al barocco del teatro milanese, iniziata da non molti anni e perseguita con grande e lodevole dispiego di mezzi e risorse. In questo caso, tolta la forma scenica, rimangono magnifici artisti il cui richiamo non è dovuto solo ai loro nomi, bastino la Oropesa e la DiDonato, ma anche alla generosa maturità interpretativa con cui hanno offerto al pubblico questo oratorio. Il soprano Lisette Oropesa in Teodora ha avuto buon gioco in un ruolo dal virtuosismo non acceso, che le ha permesso di esprimere la sua capacità interpretativa anche nella corda elegiaco-patetica come nell’aria With darkness deep as my woe, con cui ha dimostrato di unire la più grande semplicità alla massima profondità espressiva richiesta dall’autore. Una voce perfetta per una musica felicemente perfetta. Si potrebbe poi assegnare un premio alla migliore cantante non protagonista a Joyce DiDonato in Irene, le cui doti di attrice del canto, si sono dispiegate sull’idioma inglese con particolare finezza di emissione e un delicato timbro vocale scelto per rappresentare nel personaggio il fulcro emotivo della narrazione: la cantante cinquantaduenne è apparsa in splendida forma e ha congedato il pubblico commosso con la toccante ultima aria She’s gone! …New scene of joy dopo aver magistralmente rappresentato lo stile di canto di cui è ambasciatrice. Il tenore Michael Spyres, interprete di Septimius, è stata una rivelazione per l’ampiezza vocale nella zona grave e ovviamente lo slancio verso gli acuti che lo configurano come un baritenore di ascendenza belcantistica: ottime l’agilità ben sgranata e l’emissione timbrica spesa nell’aria Dread the fruits of christian foly come nella, per certi aspetti complementare, Dwells there such virtuous courage… From virtue springs each gen’rous deed  trapunta di ampie scale terzinate che impegnano il tenore sulla uguaglianza dei registri egualmente ben esibita da Spyres. Il basse-baritone John Chest nel ruolo di Valente ha sfoggiato forte padronanza dei registri e alcune note acute incastonate sia in cadenza sia nella agilità delle arie tra cui spiccava la Wide spread his name; non di meno si è notata la sua pregnanza vocale nei recitativi. Altrettanto bene impostata e proiettata la vocalità del controtenore Paul-Antoine Bénos-Djian nella parte di Didymus, il quale, impeccabile nella pronuncia e di speciale comunicativa, ha ben assolto alla funzione di fulcro dinamico-drammatico, in un oratorio piuttosto statico, nell’alternanza dei brevi momenti di solo recitativo con quelli delle arie dove la tenuta vocale era pressoché continua e soprattutto nello struggente duetto finale con Teodora Thither let our hearts aspire, dopo di che, sopraffatto dalla commozione, si è sciolto in lacrime con un effetto scenico, che – provocato o no ad arte – è stato davvero efficace. Corretto e ben timbrato era inoltre il Messaggero interpretato dal tenore del coro, Massimo Lombardi. Grande comunicativa anche da parte del Mº Maxim Emelyanychev, alla testa dell’Orchestra e Coro Il Pomo d’Oro, il quale ha diretto l’oratorio dal clavicembalo con particolare entusiasmo esprimendo nella gestualità il dinamismo proprio della partitura che egli ha avuto modo di valorizzare in pieno non avendo la necessità di adeguare le sonorità orchestrali alle voci eclatanti e versatili degli interpreti, ma seguendo semplicemente e grandiosamente la musica e lo stile dell’autore. Altrettanto esaltante era il coro nei momenti ieratici a lui riservati, soprattutto perché la sezione tenorile era notevolmente affinata come la tenuta dei suoni sottilmente calibrati sui diversi piani richiesti dalla partitura.

Alla fine caldi applausi per tutti da parte di un pubblico che acclama la grandezza di Haendel e osserva la sua doverosa presenza in ogni programma della Scala.

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