La Metacosa di Tonelli alla Pinacoteca Civica di Ascoli Piceno
di Flavia Orsati
30 Set 2024 - Arti Visive
Abbiamo visitato, presso la Pinacoteca Civica di Ascoli Piceno, la Mostra “Giorgio Tonelli e la Metacosa”, ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi.
Ho raccolto polveri sottili e pigmenti impalpabili. Questo ho messo nella scatola dei colori. La mia voglia infinita. La mia nostalgia struggente. La mia estraneità sostanziale. Giorgio Tonelli
Nelle raffinate stanze della Pinacoteca Civica di Ascoli Piceno, a Piazza Arringo, venti pastelli su carta dell’artista Giorgio Tonelli, nella mostra “Giorgio Tonelli e la Metacosa”. La mostra si inscrive nella rassegna La Milanesiana, ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi, dopo una mostra simile dedicata, tre anni fa, a Gianfranco Ferroni.
Giorgio Tonelli, allievo proprio di Ferroni, è stato tra gli animatori del movimento della Metacosa; egli ambienta gran parte delle sue opere in milieu quotidiani, spesso cittadini, caricandoli, però, di un’atmosfera straniante, colma di inquietudine e malinconia, che suscita nell’osservatore un senso indefinito di attesa, di qualcosa che, probabilmente, non arriverà mai.
Nelle opere di Tonelli, la presenza umana è esclusa. Le sue sono periferie abbandonate, di una metafisica ormai immersa nell’immaginario contemporaneo, tra enigmatici edifici e stabilimenti abbandonati, che non sono più città perfette rinascimentali, ma stranianti eterotopie cariche di un’anima che le ha attraversate e che sembra, ormai, averle abbandonate per sempre, lasciandone solo le vestigia a monito di qualcosa che fu.
Come già nella mostra dedicata a Ferroni, si intesse un dialogo tra i disegni di Tonelli e le opere della civica pinacoteca ascolana, che spaziano dal Medioevo fino all’Età Moderna. L’effetto è straniante: alcune delle vedute – ed è anche esplicito in un titolo – sembrano omaggi ai luoghi industriali di Mario Sironi ed al silenzio del realismo americano di Edward Hopper.
Ecco che, allora, le ciminiere delle grigie metropoli odierne sono avvolte da un silenzio siderale, su cui, tuttavia, troneggia ancora, immutata, la luna, l’astro a cui, da sempre, poeti e pittori si rivolgono per avere consolazione dalle brutture del nostro mondo. Il buio, l’avvento della luce lunare argentea che irradia il cemento, tuttavia, non ha più alcun afflato consolatorio; l’uomo è quasi espulso, cacciato, come un moderno Adamo, da un mondo privo, però, di grazia, da cui si sente estraneo.
Il senso che scaturisce è di inevitabile nostalgia: per qualcosa di perduto, per una lirica da ritrovare, che, Tonelli ci suggerisce, alberga anche nelle vetrine di un negozio del Sud Dakota, di un caseggiato sulla Giudecca o nelle imposte chiuse di una casa urbana, ormai abbandonata. Si tratta di un universo, ormai, scabro ed essenziale, privo di qualsiasi orpello retorico, in cui le forme sono geometriche e basiche, il cielo è privo di nuvole che lo increspino, la luce netta e decisa, la cromaticità definita, quasi irriverente, ad annullare ogni contrasto con l’ombra e con ciò che ne può derivare.