La malattia di Alice


di Elena Bartolucci

6 Mar 2015 - Commenti cinema

locandina_stillalice_amicadibabetteTratto dal romanzo autobiografico di Lisa Genova, Still Alice dei registi Richard Glatzer e Wash Westmoreland conta su un cast eccezionale come una magnifica Julianne Moore (che ha infatti vinto l’Oscar come miglior attrice protagonista per questa interpretazione), Alec Baldwin, Kristen Stewart e Kate Bosworth per raccontare le terribili conseguenze della malattia dell’Alzheimer.
La storia racconta con molta delicatezza di Alice Howland, una donna bella, brillante e intelligente che, dopo aver festeggiato i suoi cinquanta anni, inizia a perdere colpi, non ricordando più parole o nomi e a trovarsi disorientata in posti a lei conosciuti. Solo dopo alcuni accertamenti medici scoprirà che questo suo lento andare alla deriva è dovuto a una forma precoce di questo terribile morbo. Costretta a lasciare il suo lavoro da linguista presso la Columbia University di New York, inizia il suo “calvario” intrappolata in una casa che amava tanto ma che inizia a non riconoscere più, con accanto un marito che sembra esser più concentrato sulla sua carriera che disposto a sacrificare il suo tempo per godere gli ultimi momenti di lucidità della moglie.
Attraverso la routine lavorativa e quotidiana di Alice lo spettatore inizia a conoscere il suo mondo e il suo modo di fare, in modo che a poco a poco viva lo stesso impatto che la malattia ha su di lei. Davvero strabiliante la lenta e minuziosa trasformazione della Moore nei piccoli gesti ma soprattutto nello sguardo che, catturato da magnifici primi piani, col tempo diventa sempre più spento e vuoto.
StillAlice2_AmicadiBabetteAnche se ben interpretati i personaggi familiari di contorno non sono così interessanti al par della Moore, protagonista assoluta, che offusca persino l’unico personaggio dai tratti più sensibili ovvero la figlia Lydia interpretata da Kristen Stewart.
Sia Sarah Polley con Lontano da lei e Michael Haneke con Amour avevano raccontato in modo decisamente più profondo e toccante l’amore in età senile, che, a causa di questa terribile malattia, vede strapparsi via poco a poco la propria quotidianità.
In questo caso, invece, il film, che purtroppo sembra perdere colpi sul finale, si concentra prepotentemente sul personaggio di Alice, ma non per questo vuole che lo spettatore provi semplicemente pena per questa donna, combattiva fino in ultimo, ma vuol far conoscere al grande pubblico quanto sia infida e silenziosa questa malattia, che ingurgita ogni ricordo e lascia la propria anima intrappolata in un corpo svuotato di ogni emozione.
Solo chi ha avuto parenti o amici che ne hanno sofferto possono capire quanto sia difficile stare accanto alle persone care malate, che, ogni giorno, perdono un pezzetto di sé e diventano irriconoscibili per chi resta accanto a loro.

In una scena Alice è decisa a portare la sua testimonianza come malata di Alzheimer in un piccolo incontro presso l’ospedale del dottore che la tiene in cura e, per parlare della sua difficoltà di esprimersi e la lenta e inesauribile perdita della memoria, cita le magnifiche parole di una poesia di Elizabeth Bishop su quanto l’arte di perdere non sia così difficile da imparare.

One Art

The art of losing isn’t hard to master;
so many things seem filled with the intent
to be lost that their loss is no disaster.

Lose something every day. Accept the fluster
of lost door keys, the hour badly spent.
The art of losing isn’t hard to master.

Then practice losing farther, losing faster:
places, and names, and where it was you meant
to travel. None of these will bring disaster.

I lost my mother’s watch. And look! my last, or
next-to-last, of three loved houses went.
The art of losing isn’t hard to master.

I lost two cities, lovely ones. And, vaster,
some realms I owned, two rivers, a continent.
I miss them, but it wasn’t a disaster.

Even losing you (the joking voice, a gesture
I love) I shan’t have lied. It’s evident
the art of losing’s not too hard to master
though it may look like (Write it!) like disaster.

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