La Biennale della fotografia femminile a Mantova


di Alberto Pellegrino

28 Feb 2022 - Arti Visive

La seconda edizione della “Biennale della fotografia femminile” di Mantova resterà aperta dal 3 al 27 marzo 2022 e comprende mostre personali, incontri con autori, conferenze, workshop, proiezioni, che avranno luogo in luoghi prestigiosi della città come Palazzo Te, Casa Mantegna, Casa del Pittore, Casa di Rigoletto, l’ex Chiesa Madonna della Vittoria, l’ex Convento di Santa Lucia. La principale finalità della manifestazione è quella di attivare attraverso la fotografia femminile la maggiore sensibilità che la società dovrebbe mostrare verso una piena parità di genere.

Attraverso le opere esposte la mostra vuole mettere in evidenza alcuni aspetti della società contemporanea e sensibilizzare l’opinione pubblica, rompendo determinati stereotipi con un’adeguata rappresentazione di tematiche inerenti la parità, l’uguaglianza e la libertà di uomini e donne. Il tema scelto per questa edizione è sintetizzato dal termine Legacy, che riassume i concetti di “Lascito, Eredità, Creazione”, cioè quell’insieme di valori e sentimenti da trasmettere alle generazioni future come ha sottolineato la direttrice artistica Alessia Locatelli quando ha detto che l’umanità “deve misurarsi con quello che gli è stato lasciato, agire con questo lascito nel presente per creare un futuro che sia forte ed equilibrato”.

In una società caratterizzata da rapidi cambiamenti non si è ancora affermata una piena parità di genere; bisogna ricordare che la storia è stata spesso raccontata da uno sguardo fotografico maschile e occidentale. In questo quadro sociale e culturale, la fotografia femminile europea ed extra-continentale continua ad essere spesso sottorappresentata e sottostimata. La Biennale di Mantova si propone quindi come un punto di riferimento nazionale e internazionale per promuovere i valori della parità, dell’uguaglianza e della libertà di espressione, offrendo ad alcune fotografe professioniste uno spazio adeguato per far conoscere i loro lavori di fotografia d’arte e documentaria. Attraverso un attento e impegnativo lavoro di ricerca e di selezione, è stato possibile ospitare fotografe che provengono da 15 Paesi e che per la prima volta espongono le loro opere in Italia.

La prima artista da segnalare è la fotografa vietnamita-americana Daniella Zalcman che è specializzata nella fotografia documentaria e che espone il reportage Sing for Your Itentity, nel quale mette a fuoco le conseguenze del colonialismo occidentale, i problemi inerenti l’omofobia nell’Africa orientale, l’assimilazione forzata di circa 80 mila bambini nativi indiani del Nord America che, nei collegi pubblici degli Stati Uniti e del Canada, sono stati costretti ad abbandonare la loro cultura e la loro lingua attraverso punizioni corporali e psicologiche per assimilare una cultura diversa, oltretutto subendo abusi sessuali e fisici che hanno provocato danni devastanti. L’ultima scuola residenziale è stata chiusa nel 1996 e il governo canadese ha fatto le sue scuse formali solo nel 2008. La Zalcman ha fotografato alcune di queste persone diventate adulte, realizzando dei ritratti a doppia esposizione accompagnati da interviste che hanno affrontato l’impatto del trauma intergenerazionale.

Daniella Zalcmann – Signs of Your Identity

La fotografa iraniana Solmaz Daryani, nel reportage The Eyes Of Earth (The Death of lake Urmia),si è occupata del cambiamento climatico e dell’impatto ambientale che si è verificato nel bacino del Lago Urmia, chiamato dai turchi azeri “il solitario turchino dell’Azerbaijan”, intorno al quale vivono sei milioni di persone. Un tempo il lago era un mezzo di sostentamento per queste persone ma, a causa dell’inaridimento delle acque, il turismo e l’agricoltura hanno subito un tracollo. Dal 2014 i venti hanno soffiato polvere salina nei campi agricoli e hanno causano una lenta degradazione del suolo, per cui l’ambiente e le strutture turistiche stanno andando in rovina e questo sta a dimostrare come la scomparsa di un lago rappresenti molto più di un danno ambientale ed economico, ma sia una ferita impressa nella memoria delle persone, perché infrange l’interconnessione tra gli esseri umani e l’ambiente.  

L’altra iraniana Fatemeh Behoboidi è una fotogiornalista di valore internazionale che nel 2015 ha vinto il World Press Photo e che ha presentato il progetto The War is Still Alive, nel quale ha documentato con uno stile intensamente drammatico la tragedia della guerra tra Iran e Iraq, il dolore delle madri per i figli perduti in battaglia o sotto i bombardamenti, le sofferenze dei reduci, i dolori psicosomatici causati dall’uso di componenti chimiche e biologiche, le mutilazione dei  bambini e degli adulti ancora vittime delle mine nascoste nelle città di confine dell’Iran.

L’inglese Tami Aftab ha presentato il foto-racconto The Dog’s in the Car (“Il cane è in macchina”) con la storia del padre Tony che soffre di una idrocefalia che provoca un accumulo di liquido cefalorachidiano nei ventricoli del cervello. Si tratta di un danno causato 25 anni fa durante un intervento di bypass-coronarico, quando si è verificata un’emorragia interna che ha danneggiato in modo permanente la memoria a breve termine di quest’uomo. L’artista mette in discussione i vari aspetti che caratterizzano la sua malattia, la collaborazione e la relazione tra padre e figlia, i modi con cui la famiglia affronta la questa particolare situazione.

La fotografa statunitense Sarah Blesener, che nel 2018 ha vinto il premio “Eugene Smith Fellowship”, è presente con uno storytelling intitolato Beckon Us From Home, nel quale ha affrontato i vari aspetti della crescita e dell’educazione adolescenziale dei cadetti e delle cadette nelle Accademie militari e nelle scuole russe, dei ragazzi radunati nei Camp americani dove s’insegnano, a partire dai sei anni, i valori americani, la fede, il militarismo e il nazionalismo negli Stati Uniti. L’autrice dice che i due progetti sono stati esposti assieme per “indagare le ideologie e le tradizioni che vengono tramandate alle giovani generazioni e per riaccendere il dialogo sulla retorica nazionalista che dilaga in tutto il mondo”, facendo riferimento anche al problema dell’identità adolescenziale, all’ansia causata dalle sparatorie nelle scuole, al ruolo dei social media, all’impatto che le forti divisioni sociali hanno sulle giovani generazioni.

La fotografa e giornalista olandese Ilvy Njiokiktjien ha realizzato il reportage Born Free sui nati liberi, cioè la generazione venuta al mondo dopo la fine dell’apartheid in Sud Africa. Con i suoi scatti ha esplorato cosa vuol dire “convivere con l’eredità della disuguaglianza”, mostrando la vita, i divertimenti, la presenza nelle scuole della prima generazione a cui è stata lasciata in eredità da Nelson Mandela la speranza di costruire una “Nazione Arcobaleno”. A 12 anni di distanza dalla nuova costituzione che ha definito la parità dei diritti tra tutti i cittadini, il Sudafrica è cambiato, ma resta ancora una nazione in piena evoluzione, dove non è stata vinta la sfida delle riforme, per cui vi sono ancora forti disuguaglianze e un crescente scetticismo generazionale.

La fotografa ugandese Esther Ruth Mbabazi è l’autrice del documentario This Time We Are Young, nel qualesi è occupata dell’Africa, il continente più giovane del mondo con il 60 per cento della popolazione al di sotto dei 25 anni. L’Africa è un continente che guarda al futuro nel rispetto di tradizioni da rielaborare e attualizzare secondo prospettive moderne, ma dove non esiste sempre lo spazio necessario alle giovani generazioni per sperimentare, crescere, realizzare i loro progetti e le loro speranze. Questo documentario fotografico ha lo scopo d’indagare sugli effetti dei cambiamenti demografici dal Sud Sudan all’Uganda, dal Kenya ad altri paesi del continente africano. Nel 2019 la Mbabazi ha ampliato il progetto estendendolo ai giovani africani emigrati in Europa e ha esplorato le loro storie a cominciare dall’arrivo nei paesi europei a quando hanno cercato di realizzare una fusione tra le culture di due mondi che cercano di convivere pur essendo molto diversi.

La fotografa franco-senegalese Delphine Diallo, nel reportage Highness, si è ispirata all’antropologia e alla mitologia per esplorare una serie di nuovi archetipi con immagini che coniugano divinità arcaiche ed elementi contemporanei. Si tratta di un tentativo di smantellare sovrastrutture sociali e stereotipi legati alla tradizione attraverso dei ritratti che vogliono rappresentare delle forme di vita inedite. La Diallo ha ritratto diverse donne in un contesto di libertà e di apertura che esclude ogni forma di giudizio, realizzando una serie di immagini molto differenti tra loro, che sono una forma di rielaborazione delle tradizioni culturali in un clima di totale libertà di ricerca e di creatività. “Highness – ha detto la Diallo – è un sentire, è uno stato di alta comprensione e conoscenza sia come essere umano sia come artista. Significa raggiungere questa nuova consapevolezza, l’energia e la libertà che sprigiona”.

Delphine Diallo – The Divine Mother

Il Lumina Collective è stato fondato nel 2017 ed è composto da donne-fotografo impegnate nella narrazione e diffusione di storie all’interno della società australiana con la finalità principale di costruire una collaborazione tra le varie comunità esistenti in Australia, lavorando nelle diverse aree regionali e nelle principali città per mostrare un’idea d’identità nazionale, esplorando la storia delle famiglie, il trauma e la perdita delle tradizioni, gli effetti delle migrazioni, le mutazioni ambientali, la formazione d’identità autoctone nei loro contesti sociali e culturali. I membri di questo collettivo sono Donna Bailey, Chloe Bartram, Jessie Boylan, Aletheia Casey, Anna Maria Antoinette D’Addario, Lyndal Irons, Morganna Magee e Sarah Rhodes. Ognuna lavora in tutta l’Australia seguendo una vocazione individuale che successivamente si trasforma in un’unica voce. Il collettivo ha presentato alla Biennale un lavoro intitolato Echoes.

Lumina Collettive: Chloe Bartram – Echoes

Per quanto riguarda le fotografe italiane, è presente Myriam Meloni, laureata in giurisprudenza e specializzata in antropologia criminale, si è impegnata a documentare determinate tematiche presenti nella società contemporanea. Nel reportage Insane Security affronta un tema che riguarda la maggior parte delle società democratiche moderne anche se nelle varie costituzioni viene garantita l’inviolabilità dell’integrità fisica dei cittadini. In particolare si è occupata della costante tensione tra la protezione dei diritti umani e l’uso effettivo della forza da parte degli organismi di sicurezza nella Repubblica Argentina, dove il tasso di criminalità è più basso che in altri paesi latinoamericani, mentre il “senso di insicurezza” è tra i più alti dell’America Latina. Questa costante percezione del pericolo è ampliata dai media e si traduce in una crescente domanda dell’uso della forza, spesso letale, con lo scopo di ridurre i livelli di criminalità del paese. In un contesto politico, sociale ed economico dominato dalla cultura della paura, le forze di polizia argentine legittimano l’uso sistematico della violenza contro i diritti individuali di libertà, l’integrità fisica e la richiesta di un giusto processo da parte dei cittadini.

Flavia Rossi è l’altra fotografa italiana autrice del reportage Nuovo Patrimonio, nel quale è esposta un’Italia che possiede un grande numero di beni culturali e architettonici ereditati dal passato, beni che ancora sono gravemente danneggiati dal terremoto del 2016 che ha colpito il Centro Italia. In tutto questo territorio si presenta, con sempre maggiore urgenza, la necessità per questi edifici di essere “puntellati” per evitarne il collasso totale, mentre per le lunghe attese d’intervento queste strutture rischiano di diventare permanenti. Ai danni provocati nella zona del sisma si aggiungono, anche in altre parti d’Italia, i danni causati dagli eventi naturali, da errati interventi dell’uomo, per cui sarebbe necessaria una nuova e radicale visione dell’architettura e della gestione dei luoghi abitati. Di fronte ad un problema così vasto sarebbe opportuno riflettere e chiedersi come sarà possibile intervenire in modo razionale e paritario su tutti i Beni artistici, culturali e architettonici. La terza italiana è la fotoreporter Betty Colombo che lavora per numerose testate italiane ed estere, che ha all’attivo cinque libri fotografici e due premi alla carriera. Per la Biennale la Colombo si è occupata del rapporto tra l’uomo e la natura così controverso e stupefacente. La Terra cambia continuamente per cause naturali ma anche per gli interventi dell’uomo: per nostra fortuna il pianeta sa auto-ripararsi e, da parte sua, l’uomo prima cerca di distruggere l’ambiente poi lo cura con il proposito di riaggiustarlo, ma spesso si vuole riparare un guasto per conservare lo status quo e non per cambiare la condizione generale del pianeta. Con La Riparazione la Colombo ha presentato un lavoro formato da quattro serie che cercano di stabilire un dialogo tra l’uomo e la natura per arrivare a una salvezza comune. La prima serie fa vedere un territorio colpito da un incendio con le immagini della sua rinascita grazie all’aiuto dell’uomo: un bosco che torna a respirare e a farci respirare. La seconda serie riguarda un trapianto: una persona muore e lascia a un’altra i suoi polmoni, permettendogli di continuare a vivere. La terza serie racconta il salvataggio di un animale da parte di un veterinario e rappresenta l’aspetto controverso dell’intera umanità che prima distrugge gli abitanti della natura, poi si commuove e dedica le sue energie e i suoi sentimenti per salvarli. La quarta serie mostra infine un intervento di chirurgia plastica ricostruttiva a seguito di un’ustione: si può pertanto stabilire un parallelo tra un bosco incendiato che riesce a ricostruire una parte di sé e l’uomo che allo stesso modo riesce a ricostruire la propria pelle.

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