Intervista al regista Federico Caddeo
di Francesca Bruni
16 Ott 2025 - Approfondimenti cinema, Interviste
Nell’ambito del 14° FIPILI Horror Festival di Livorno Francesca Bruni ha incontrato il regista Federico Caddeo, che ha presentato in anteprima internazionale il suo documentario “Urla dipinte”, un omaggio al film di Pupi Avati “La casa dalle finestre che ridono”. Ne è scaturita un’intervista di grande interesse.
(Le foto sono state messe gentilmente a disposizione dall’intervistato. Le foto sul set del film “La casa dalle finestre che ridono” sono di Enrico Blasi e Cesare Bastelli)


Federico Caddeo è un regista che si muove soprattutto nell’ambito del documentario e nel cinema sociale. Si interessa — tra le altre cose — a temi legati al passato cinematografico, al genere, alle controculture, e a film ritenuti “di culto”.
Tra le sue opere più importanti ricordiamo qui Il giro del mondo in 16 anni (Around the World in 16 Years) del 2016, docufilm su Gualtiero Jacopetti e Franco Prosperi, proiettato al Lucca Film Festival.
Nel 2019 gira il documentario All the Colors of Giallo, raccontando il giallo all’italiana.
Nel nome dell’odio (2025), scritto, prodotto e diretto da lui, è un omaggio al film Teste rasate (1993, regia Claudio Fragasso, sceneggiato da Rossella Drudi), ed è dedicato alla sstessa Rossella Drudi.
“Urla dipinte” (2025) è un omaggio al film La casa dalle finestre che ridono (1976) di Pupi Avati, che è considerato un cult del cinema horror italiano. Tra le testimonianze presenti nel documentario c’è un’intervista inedita con Lino Capolicchio, attore protagonista del film originale, che ha lavorato con Avati.
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INTERVISTA
Come nasce l’idea di realizzare un documentario sul capolavoro di Pupi Avati, La casa dalle finestre che ridono?
L’idea nasce da una promessa fatta a Lino Capolicchio. Durante il primo lockdown, quello del 2020, io e Lino ci sentivamo continuamente al telefono. Non si poteva uscire, c’era poco da fare e così parlavamo per ore. Avevo da poco letto la sua biografia e avevo una marea di domande da fargli su alcuni dei suoi film. Lino, che era un chiacchierone instancabile, si prestava volentieri: restavamo a parlare per ore, ed è uno dei ricordi più belli che ho di quel periodo difficile.
Mi diceva sempre: “Ma quando ci vediamo?”. E io rispondevo: “Guarda, appena finisce il lockdown ti vengo a trovare. Magari giriamo anche un’intervista”. “Facciamola!”, replicava lui. “Volentieri,” gli dicevo, “ma al momento non ho nessun film per il quale servano contenuti extra o un’intervista da inserire”. E lui, ridendo, rispondeva: “Vabbè, chi se ne importa! Facciamola lo stesso. Dai, parliamo de La casa dalle finestre che ridono”. Gli dissi che mi invitava a nozze: era un film che amavo.
Poi però il tempo è passato, e Lino si è ammalato. Diventava complicato organizzare qualsiasi cosa: le cure erano pesanti, la chemioterapia lo provava tantissimo. Rimandavamo di continuo, finché un giorno mi chiamò e mi disse: “Perché non vieni a trovarmi a Fondi, così pranziamo insieme?”. Gli risposi subito che sarei andato stravolentieri.
La sera prima però mi chiamò e mi disse: “Però le porti le camere, vero? Giriamo un’intervista”. Gli risposi: “Guarda, Lino, no, io voglio venire per vederti. Chi se ne frega dell’intervista”. Ma lui insistette perché io le portassi e così il giorno dopo arrivai con le camere. Ho ancora questo ricordo vivissimo: entro a casa di Lino, mi accoglie la moglie, Francesca, e lui è già seduto in salotto. Non lo vedevo da parecchi anni — ci sentivamo spesso, ma non ci eravamo più incontrati di persona. L’immagine che ho di quel momento è forte: Lino era emaciato, provato dalla malattia. Fu uno shock, non lo nego, vederlo così, così segnato.
Ci salutammo, e lui subito mi chiese di girare, con entusiasmo. Io cercai di prenderla con calma, dicendogli: “Lino, tranquillo, facciamo una cosa rapida, cinque, dieci minuti e basta”. Ma lui mi guardò con una durezza che non gli avevo mai visto e mi disse: “No, non mi devi trattare come un malato. Tu ora mi fai l’intervista come me l’hai sempre fatta”. Ero molto in difficoltà, ma non ho potuto dirgli di no.
Registrammo per un’ora intera. Alla fine, era esausto. Ci salutammo con la promessa di rivederci. Lui mi aveva detto che non stava poi così male, ma quando Francesca mi riaccompagnò in stazione, in macchina, mi disse invece che la situazione non era buona. E infatti Lino è venuto a mancare meno di un mese dopo. Quella che si vede nel documentario è la sua ultima intervista in video. Il sorriso che chiude Urla Dipinte è l’ultima immagine che le mie camere abbiano ripreso di lui.
Dopo la sua morte ho deciso che avrei costruito un documentario attorno a quell’intervista, in qualche modo glielo promisi. E così ho fatto. Ho rintracciato tutti i “superstiti”, perché purtroppo, per esempio, Gianni Cavina non c’era più: era morto pochi giorni prima che incontrassi Lino. Anche il maestro Tommasi, autore della colonna sonora, se n’era andato. Gli altri, però, sono riuscito a coinvolgerli, e alla fine il documentario ha preso forma.


Il film è denominato “gotico padano”, genere cinematografico creato dal regista stesso, dove l’ambiente rurale si fonde con l’horror. Come viene affrontata la paura dal maestro in questa pellicola?
La cosa davvero importante e, direi, clamorosa che ha fatto Pupi in questo film è stata girare un horror sotto il sole. Ci sono molte scene immerse nella luce, in questa campagna, in queste valli assolate — un’ambientazione in netta antitesi con le classiche location dei film horror, che sono quasi sempre cupe, dark.
Anche le case del film, a parte le inevitabili sequenze notturne, vengono spesso mostrate in piena luce. Ed è proprio questa la genialità di Pupi: aver realizzato un film che si regge in gran parte sui volti – non solo quelli dei protagonisti, – ma anche dei comprimari, che appaiono poco ma riescono a trasmettere quell’atmosfera contadina, arcaica, che affonda le radici nell’infanzia di Pupi e di Antonio. Quelle storie macabre che si raccontavano allora, Pupi è riuscito a trasformarle in un genere vero e proprio. Prima di lui, una cosa del genere non si era mai vista.


Tu hai realizzato nel 2019 il documentario All the Colors of Giallo, raccontando il giallo all’italiana. Mi puoi spiegare quali sono le differenze tra il cinema giallo e quello horror negli anni ‘70?
Il giallo si fonda soprattutto su un intreccio, in qualche modo, di tipo meccanico. Alla fine, salvo alcune eccezioni – come Argento, che della logica se n’è sempre un po’ infischiato, perché per lui contava ben altro rispetto a un rigore cartesiano della trama – i gialli, come quelli di Lenzi o di Martino, offrivano sempre soluzioni “oneste” nei confronti dello spettatore. Il regista non barava: lo spettatore non veniva truffato, per così dire. Un osservatore attento poteva perfino arrivare a intuire in anticipo chi fosse il colpevole. Questa è una delle grandi caratteristiche del giallo, insieme alla cura per la messa in scena degli omicidi, spesso altamente stilizzati. Erano parte integrante del racconto, coreografati in modo spettacolare, a volte anche molto violento. Colpivano lo spettatore proprio come se il delitto fosse un’arte, dotato di una propria bellezza nei movimenti e nella composizione.
L’horror, invece, si muove su un piano più irrazionale. Gli horror italiani più riusciti – come L’aldilà di Fulci, per esempio – sono film privi di qualsiasi logica narrativa. La sceneggiatura non segue una struttura con un vero inizio e una fine: è un flusso, una storia che rinuncia del tutto agli stilemi e al rigore del giallo. Questa mancanza di regole è diventata, paradossalmente, la sua forza, un’anarchia creativa capace di toccare vette clamorose.
Pupi Avati era molto differente rispetto ai registi che erano presenti all’epoca. Per citarne alcuni, Dario Argento, Joe D’Amato e Sergio Martino. Come veniva concepito il concetto di follia e crudeltà nel film La casa dalle finestre che ridono, rispetto ai registi che ti ho citato?
L’idea di base de La casa dalle finestre che ridono – e qui facciamo uno spoiler per chi non ha ancora visto il film – è quella del “prete donna”. Si tratta di un racconto che, a quanto pare, circolava davvero nell’infanzia contadina di Pupi e Antonio Avati: si diceva che, in un’occasione, riesumando dei cadaveri, si fosse scoperto che il parroco del paese era in realtà una donna. Chissà quanto ci fosse di vero, ma la storia, così come veniva tramandata, aveva acceso la fantasia dei bambini, che si spaventavano a vicenda sussurrando: “Arriva il prete donna a prenderti!”.
Da quell’immaginario, profondamente radicato nella memoria di Pupi, nasce il film: non da una storia sicuramente vera, ma da un episodio che aveva comunque un fondamento reale nella sua infanzia. E Avati è riuscito a portarlo al cinema trasformandolo in qualcosa di ancora più inquietante. La casa dalle finestre che ridono è infatti un film che costruisce un crescendo di angoscia e di paura davvero memorabile. Sfido chiunque, alla prima visione o anche alle successive, a non provare un brivido nel momento in cui si sente la voce femminile del “prete donna” o nella sequenza della soffitta, con quelle scale che portano verso l’orrore.
Partendo da un’idea tanto semplice quanto geniale – quella del prete donna – e unita alla scelta delle location, Avati è riuscito a creare un’opera unica, capace di imprimersi nella memoria e di restare ancora oggi una delle esperienze più disturbanti e affascinanti del cinema horror italiano.


Nel maggio di quest’anno è uscito il documentario Nel nome dell’odio, dove hai affrontato attraverso il film Teste rasate del 1993 la tematica dell’odio razziale e degli skinhead nella Roma degli anni ‘90. Quanto è cambiato il modo di fare cinema nel descrivere tematiche sociali rispetto a quegli anni?
Quel film di Claudio Fragasso nasce dal desiderio del regista di cimentarsi in un’opera autoriale. Fragasso, che fino ad allora si era mosso soprattutto nel cinema di genere – horror, poliziesco, film d’azione, anche girati nelle Filippine in co-regia con Bruno Mattei – con questo progetto voleva provare a fare qualcosa di diverso, più personale. L’idea nacque da un episodio realmente accaduto alla sceneggiatrice del film, Rossella Drudi, sua compagna, che fu testimone di una scena in cui uno zingaro ubriaco veniva allontanato da un autobus da uno skinhead. Da quell’esperienza prese forma il soggetto del film.
Interessante è anche il modo in cui Rossella si documentò per scriverlo: decise di infiltrarsi, per quanto possibile, negli ambienti dei naziskin dell’epoca. Un’impresa tutt’altro che semplice e, anzi, piuttosto rischiosa, soprattutto per una donna. Mi raccontò che a un certo punto, per cercare di farsi accettare, disse di essere una scrittrice al lavoro su un libro. I naziskin però sospettavano che fosse una giornalista e in un paio di occasioni la situazione divenne particolarmente tesa e rischiosa.
Forse il film non è perfettamente riuscito, ci sono elementi non sempre a fuoco, ma resta una testimonianza preziosa e lucida di un fenomeno assurdo e inquietante che caratterizzò la metà degli anni ’90. Per il documentario sono andato a fare ricerche nelle emeroteche e ho potuto constatare come, all’epoca, i giornali parlassero continuamente di questo tema: era davvero un fenomeno diffuso e sentito.
Oggi, un approccio così diretto e spericolato nel raccontarlo probabilmente non sarebbe più possibile.
Tornando al film La casa dalle finestre che ridono, nel documentario Urla dipinte c’è un’intervista esclusiva al protagonista del film, Lino Capolicchio, che nel film viene continuamente minacciato ed ingannato, inconsapevole dell’orrore che lo circonda. Il suo personaggio cosa simboleggia nel contesto sociale e rurale dell’ambiente?
Il personaggio interpretato da Lino ha un tratto fondamentale che emerge fin dall’inizio del film: è un forestiero, uno che viene da fuori. Questo elemento ricorre spesso anche nei film gialli, come in quelli di Dario Argento, dove il protagonista è spesso uno straniero – già dal film d’esordio L’uccello dalle piume di cristallo, con Tony Musante nel ruolo di un americano. C’è quindi fin da subito la caratterizzazione di un personaggio che non appartiene a quel mondo e che, nel momento in cui prova a inserirsi in un contesto che non è il suo, percepisce immediatamente una minaccia.
Non è un caso che l’unica persona con cui il personaggio di Capolicchio riesce a instaurare un rapporto umano sia la maestrina interpretata da Francesca Marciano, anche lei un’estranea. Lino ha un solo amico in quel luogo, ma viene ucciso quasi subito, lasciandolo completamente solo e in balia dell’omertà che avvolge l’intera vicenda. Emblematiche, in questo senso, sono le scene finali: lui sanguinante, che chiede aiuto bussando persino alla porta del sindaco e del capo della polizia che lo osservano dalla finestra senza aprire, senza soccorrerlo.
Quella del forestiero è una figura che entra in un ambiente chiuso e ostile, dove non viene accolto e dove la sua curiosità – il suo “ficcare il naso” in questioni che appartengono solo al silenzio del paese – segna irrimediabilmente il suo destino. Come dice lo stesso Lino, alla fine del documentario, quando gli chiesi: “Secondo te, il tuo personaggio se la cava?”, lui scosse la testa e rispose: “No, no… non ce la fa, non ce la fa, ha perso troppo sangue.”


Nel film è molto presente la pittura come atto di catarsi e la carnalità. Quanto l’arte in questo caso può incidere nell’atto purificatorio in forma di omicidio brutale?
Il fatto che il dipinto del film richiami una sorta di San Sebastiano – uno dei soggetti più classici dell’iconografia pittorica legata ai martiri – è già di per sé significativo e parla molto del tono e dell’atmosfera che il film vuole trasmettere.
Nel film non ci sono veri elementi religiosi, nonostante la forte presenza del prete, ma l’iconografia del dipinto, con il suo martirio e gli inserti di personaggi tutt’altro che santi, conferisce un senso di velata blasfemia. Tuttavia, ciò che rende il lavoro di Pupi Avati interessante è che questo aspetto non viene esasperato: è presente, importante, ma non travalica il film. Il dipinto, realizzato volutamente in modo grezzo da Otello ed Emanuele Taglietti su indicazione di Pupi, è volutamente “naïf” e imperfetto; questa mancanza di perfezione lo rende inquietante, trasmettendo l’idea di essere opera di un “pazzo”, ma non di un pazzo innocuo, rafforzando la tensione e il senso di inquietudine della scena.
Una delle ambientazioni del film è la villa fatiscente in stile Liberty dove vivono le sorelle folli. Questo stile architettonico si trova anche in alcuni film di Dario Argento. A tuo parere perché tale stile è stato utilizzato da questi registi per la realizzazione di pellicole horror?
Questo stile ha in sé un contrasto tra eleganza e decadenza. Un esempio emblematico nel cinema di Dario Argento è Villa Scott in Profondo Rosso, una villa Liberty abbandonata, misteriosa e affascinante nella sua decadenza. Nel film di Pupi Avati, la villa Boccaccini esaspera questo contrasto: la costruzione è fatiscente, cade a pezzi, eppure è abitata. Gli interni, un tempo belli, mostrano ancora tracce del passato; quando Lino entra per la prima volta, nota le pareti dipinte in maniera particolare, gli affreschi, gli strani pavimenti, e percepisce l’abbandono ma anche l’antica vitalità della casa. La scena in cui incontra per la prima volta la finta invalida è illuminante: le pareti dipinte di nero esaltano il contrasto con il vestito bianco della donna, illuminato dalla luce esterna, creando un effetto visivo potente. La villa, soprattutto di notte, diventa teatro di rumori, segreti e tensione, con le scale che conducono alla soffitta a suggerire inesorabilmente l’orrore imminente.











Anche la componente dei colori accesi è presente nel film “La casa dalle finestre che ridono” in opposizione alle ombre e all’ambientazione paludose; cosa voleva rappresentare il regista con questi contrasti di immagini
I grandi contrasti cromatici sono una delle peculiarità di molti film horror e thriller italiani, nel film di Pupi Avati la scena in cui questo aspetto emerge al massimo è quella in cui il personaggio di Stefano, interpretato da Lino Capolicchio, scopre finalmente la celebre “casa delle finestre che ridono”, con le labbra enormi dipinte sulle finestre. La sua reazione sorpresa è evidente, e lo stesso Lino, nel documentario, definisce la casa “lugubre, quasi uscita da un romanzo di Dickens”, una descrizione decisamente calzante: la casa, in stato di abbandono e non più vissuta da tempo, restituisce pienamente l’idea di un luogo inquietante. Il rosso acceso delle labbra, appena dipinte per il film e quindi con un colore ancora vivido, contribuisce a creare un contrasto straniante sullo spettatore, accentuando l’effetto visivo.
Questa capacità di combinare forti contrasti non è nuova nel cinema del terrore o thriller: un esempio emblematico è la collaborazione tra Ruggero Deodato e Riz Ortolani, autore delle colonne sonore di Cannibal Holocaust e La casa sperduta nel parco, dove i temi musicali struggenti e melodici creano un contrasto potente con le immagini grafiche e violente dei film.
Nel caso di Avati, merita particolare attenzione il lavoro del direttore della fotografia Pasquale Rachini. La sua abilità nel rendere i riflessi dorati del sole nelle vallate – sia a mezzogiorno sia al tramonto – dona al film un’atmosfera sognante, quasi irreale, pur trattandosi di location reali, senza ricostruzioni scenografiche (tra l’altro, il film non poteva neanche permettersi di fare grandi ricostruzioni di set). Questo uso della luce naturale conferisce al film una bellezza distintiva e dimostra la grande capacità tecnica di Rachini, che tra l’altro ritengo essere uno dei nostri direttori della fotografia più sottovalutati; di lui si parla davvero poco, forse perché è sempre stato un po’ schivo: basterebbe citare anche solo i film che ha fatto con Pupi, del quale è stato un collaboratore assolutamente fedele e di lunga data, per affermare che meriterebbe davvero maggiore considerazione.
Esiste un altro film horror o meno sul quale ti piacerebbe realizzare un documentario?
Ho curato le edizioni straniere di praticamente tutti i film di Dario Argento e ho realizzato parecchie decine di interviste che coprono la sua intera filmografia. L’unico film sul quale non ho ancora lavorato è Tenebre. Ecco, curare un’edizione straniera di Tenebre mi piacerebbe moltissimo.
Ha nuovi progetti cinematografici per l’avvenire?
Sì, sto sviluppando un progetto a cui tengo molto anche se non posso ancora parlarne. Posso però dire che l’anno prossimo uscirà un documentario sui Goblin, con una produzione importante, al quale lavoro da tempo. Ho avuto davanti alle mie camere tutti i musicisti che hanno suonato nelle diverse formazioni della band. È un progetto al quale tengo moltissimo e che sta finalmente per essere completato.
Ultimissima domanda e poi abbiamo terminato. Il documentario Urla dipinte verrà presentato anche all’estero?
Sì, uscirà in America a dicembre, poi in Germania nei primi mesi del 2026, non ho una data precisa. Faremo anche alcune proiezioni in Italia e a Parigi, indipendentemente dall’uscita su supporto fisico. Quindi sì, lo porteremo un po’ in giro e sono contento anche perché è un modo per ricordare il mio amico Lino.


Benissimo, grazie infinite per questa bellissima intervista.
Grazie a te di cuore.



