Giada Valenti: una protagonista dello show americano ritorna in Italia. Nostra intervista.


a cura di Gianluca Macovez

17 Set 2025 - Interviste

Intervista alla cantante, attrice, conduttrice, di origini italiane, Giada Valenti, popolarissima negli Stati Uniti, ma quasi sconosciuta dai noi.

From Venice With Love

Giada Valenti è un’autentica primadonna dello show americano.

Il suo  è un nome che in Italia è quasi sconosciuto, anche perché nel nostro paese si esibiva come Cristina Valenti, ma negli USA è una protagonista di prima grandezza: ha cantato davanti a due presidenti, Clinton ed Obama; ha recitato in diversi lavori a Broadway; ha lavorato con Clive Davis, leggenda della musica americana, che ha lanciato Whitney Houston , Christina Aguilera, Alicia Keys e lavorato a fianco di Santana ed Aretha Franklin; ha trionfato nei principali teatri americani, con ben due show alla Carnegie Hall; ha presentato innumerevoli volte la Columbus Day Parade di New York, nella quale è stata spesso invitata a cantare; ha duettato con grandissimi colleghi, fra cui Andrea Bocelli; ha condotto con successo trasmissioni televisive importanti.

Nata a Portogruaro, un paese dalla lunga storia, amministrativamente collocato in Veneto, ma storicamente parte del territorio friulano, è rimasta profondamente legata al suo paese, dove l’abbiamo raggiunta durante le vacanze estive.

Una prima considerazione è relativa all’atteggiamento. Spesso per avere delle interviste dobbiamo seguire una trafila, anticipare le domande, riceviamo dei dinieghi.

Qui abbiamo chiesto direttamente alla signora, che ha subito accettato, non ha posto vincoli, ha risposto a tutto e si è dimostrata gentile, cordiale, spiritosa e decisamente umile.

A dimostrazione che si può avere un successo amplissimo senza per forza diventare alteri e superbi.

Una lezione di stile che abbiamo molto apprezzato.

Certo in scena ha abiti incredibili, sontuosi, di gusto decisamente ‘americano’; sul palcoscenico si muove con grande sicurezza e grandissima professionalità; affronta brani che hanno fatto la storia della musica, trasformandoli e riarrangiandoli, dimostrando un carisma molto forte.

Ma dimostra di aver capito perfettamente il limite fra scena e fuori scena. Ha scelto con chiarezza quali sono i valori che per lei contano e li difende.

Ci racconta di essere molto legata alla famiglia, di come venne introdotta alla musica dalla nonna, soprano lirico che aveva scelto di rinunciare alla carriera per crescere sette figlie e che se la portava dietro, piccolissima, a cantare con lei nel coro della chiesa. Parla del nonno appassionato d’opera, ma anche del Festival di Sanremo.

INTERVISTA

Cominciamo chiedendole qualcosa della sua formazione.

Lei inizia a studiare pianoforte e canto a sette anni e poi prosegue fino al Conservatorio. Ci parla un po’ dei suoi studi?

Il mio percorso musicale è iniziato prestissimo con lo studio del pianoforte alla Fondazione Santa Cecilia di Portogruaro, è proseguito al Conservatorio di musica Giuseppe Tartini di Trieste. Riconosco di non essere stata una studentessa modello: ero animata da una grande creatività e dal desiderio irrefrenabile di cantare, senza voler rispettare troppi confini accademici. Con il tempo, però, ho imparato ad apprezzare profondamente la musica classica e l’opera, che allora percepivo come troppo rigide. Oggi sono grata di averle studiate, perché mi hanno dato le radici indispensabili per affrontare ogni repertorio.

Dopo aver studiato musica classica e lirica, che per me a quel tempo erano un po’ troppo “strette”, sentivo il bisogno di qualcosa che mi permettesse di essere più libera, più espressiva. E lì ho trovato il jazz: una musica che ti lascia respirare, che ti dà spazio per mettere dentro tutta la tua personalità. È stato come aprire una finestra: ho capito che quella libertà poteva diventare parte del mio modo di cantare e di stare sul palcoscenico. Ne ho fatto dono, ma io non mi considero una jazzista, assolutamente no. Sono un’artista che ama mescolare linguaggi diversi: dal pop al rock, dal jazz al country, dalla musica latina a quella francese che adoro, fino a unire la musica del passato con quella di oggi. In America spesso scrivono di me che sono un’eclettica interprete di canzoni d’amore, ed è vero: per me la musica non si divide in generi, ma solo in due categorie, bella o brutta.

Quello che mi ha sempre guidata è il desiderio di raccontare storie. Una canzone, per me, non è solo melodia o virtuosismo vocale, ma un racconto fatto di emozioni. Se la storia che porta con sé mi tocca, io la prendo, la trasformo, la adatto al mio stile e la offro al pubblico come se fosse stata scritta per me. Forse è per questo che spesso mi dicono che riesco a far percepire brani famosissimi come nuovi, freschi, sorprendenti.

Questo modo di intendere la musica l’ho perfezionato anche grazie all’incontro con Larry Moss, uno dei più grandi acting coach del mondo, che mi ha insegnato che cantare non significa semplicemente intonare delle note, ma comprendere il senso profondo di un testo e trasmetterlo con sincerità e autenticità.

Mentre studiava canto, la signora Valenti frequentava anche l’università, perché, ci spiega:

‘La mia famiglia mi ha sempre sostenuta, perché aveva capito che la musica era ciò che mi rendeva felice, e credo che la ricerca della felicità nella vita sia un valore fondamentale. Allo stesso tempo mi hanno incoraggiata ad avere anche un percorso di studi parallelo, così ho frequentato l’Università di Padova, dove ho studiato psicologia. Nel mondo della musica non esistono certezze, e già da giovanissima avevo sperimentato qualche delusione: purtroppo anche allora il talento non era sempre l’unico elemento determinante per poter crescere artisticamente.’

Lei ha lasciato abbastanza presto l’Italia per trasferirsi in Svizzera prima ed in Olanda poi. Ci racconta quel periodo ‘europeo’?

Mi ero appena sposata, giovanissima, e forse in quel momento pensavo che avrei lasciato la musica per dedicarmi a fare la moglie, magari la mamma. In realtà non ho mai deciso di fare la cantante o la musicista “di mestiere”: io ho sempre voluto, semplicemente, essere felice.

Seguendo questa ricerca della felicità ho seguito mio marito in Olanda. L’avevo conosciuto in Svizzera, dove cantavo nei mesi invernali mentre studiavo psicologia all’università. Proprio in Olanda, un amico di mio marito seppe che stavano cercando una cantautrice per rappresentare il Paese a Sanremo Nuovi Talenti nel Mondo. Io avevo appena scritto una canzone per la mia storia d’amore, Solo con Te, e decisi di partecipare. Non era nulla di programmato. Ma vinsi e da lì arrivò anche un contratto discografico con la BMG, con cui pubblicai diversi singoli e un album che ebbero successo e mi diedero un po’ di notorietà. È stata un’emozione grandissima, perché quella vittoria mi fece capire che la mia musica poteva davvero parlare a un pubblico internazionale. E mi preparò, senza che lo avessi pianificato, ad altri grandi salti… sempre seguendo la mia felicità.

Parliamo di gavetta. Un male necessario od un bene prezioso?  Darebbe qualche consiglio a chi si vuole affacciare al mondo dello spettacolo?

La gavetta è fondamentale: ti insegna disciplina, resilienza e soprattutto umiltà. Io ne ho fatta tanta, prima in Europa e poi negli Stati Uniti, e se oggi sono quella che sono lo devo anche a quei piccoli palchi e alle difficoltà incontrate lungo la strada. Oggi molti ragazzi diventano famosi passando direttamente dai talent show: sembra bellissimo, ma ai primi problemi spesso cedono, entrano in crisi e qualcuno cade persino in depressione. Come ha detto Madonna, se inizi già dall’alto – con luci, orchestra, trucco, tour e successo immediato – quando l’eco del programma svanisce non resta che scendere. E senza la forza che ti dà la gavetta, rialzarsi diventa quasi impossibile.

Da vent’anni vivo e lavoro negli Stati Uniti, dove la mia gavetta è stata dura ma piena di opportunità: lì senza talento non vai avanti. In Italia, da giovane, ho provato delusioni perché non avevo le “amicizie giuste”, ma non mi sono mai arresa. Non mi sono pianta addosso: ho cercato altre strade, nuove opportunità, sempre con devozione e umiltà.

Agli studenti direi che il talento da solo non basta: bisogna avere pelle dura, curiosità e la forza di uscire dalla comfort zone, perché è lì che nasce la vera magia. Non abbattersi mai, vedere un “no” come l’occasione per un nuovo inizio e per crescere. E soprattutto, restare sé stessi, con i propri sogni e la propria autenticità. Io ero vicinissima a partecipare a Sanremo, ma se lo avessi fatto forse non avrei girato il mondo, non sarei dove sono oggi e, soprattutto, non sarei la persona che sono diventata.

Ai ragazzi direi: partecipare è importante, ma il vero sogno dev’essere vincere, non per vanità, ma perché bisogna davvero volerle le cose per essere grandi artisti. Il mondo dello spettacolo sembra un sogno scintillante, ma la realtà è molto diversa. È un percorso bellissimo, ma anche durissimo, fatto di sacrifici, rinunce e momenti di grande solitudine. Quindi il mio consiglio è: intraprenderlo solo se la passione è più forte di tutto, più grande persino del desiderio di diventare famosi o ricchi.

Se si sceglie questa strada solo per la fama o per i riflettori, meglio fare altro. Ma se dentro di te senti che non puoi vivere senza musica o senza arte, allora sì: preparati a lottare, a rialzarti mille volte e a inseguire i tuoi sogni con devozione e coraggio.

Mai smettere di crederci, continuare a migliorare sempre, avere sogni enormi così che le difficoltà non li annebbino mai. Essere sicuri di sé stessi senza mai cadere nell’arroganza, e amare profondamente il pubblico, perché è lui che ci permette di fare ciò che amiamo. Queste sono cose che forse dovrebbero essere insegnate nei conservatori, ma che spesso si imparano solo sul campo. Perché per sopravvivere e vivere davvero d’arte si fanno sacrifici enormi… e almeno i veri artisti lo sanno bene. E nessuno di loro lo ha imparato a scuola.

Quando per la prima volta ha avuto la sensazione di aver fatto il salto di qualità e di essere entrata nel mondo dello spettacolo dalla porta principale?

Gli esordi a New York non sono stati facili: arrivare in una città così grande non è mai semplice. Ma ho trovato subito un pubblico che ha apprezzato la mia autenticità e l’amore con cui porto la musica sul palcoscenico. Dopo il mio primo sold out a The Cutting Room e l’organizzazione di piccoli concerti, per me il vero salto è arrivato quando il mio show televisivo From Venice With Love è andato in onda sulla PBS, raggiungendo milioni di persone. All’inizio ho fatto davvero tutto da sola insieme a mio marito JJ: dall’organizzazione alla raccolta fondi per realizzare lo speciale televisivo, fino alla gestione di ogni dettaglio. Oggi ho un agente che mi segue, ma quei primi anni sono stati una vera palestra di vita e di resilienza.

Da lì sono seguiti traguardi indimenticabili: due concerti alla Carnegie Hall, un tour di 20 date negli Stati Uniti, l’album natalizio con la Royal Philharmonic Orchestra registrato ad Abbey Road con Robert Ziegler, duetti con Vince Gill, Trace Adkins, Johnny Reid e persino il privilegio di condividere il palco con Andrea Bocelli. Ho cantato davanti al Presidente Barack Obama e al Vicepresidente Joe Biden, inciso con musicisti straordinari come Nathan East, Gregg Field, Jorge Calandrelli, Shelly Berg, Chris Walden, Anthony Wilson e Tariq Akoni – artisti immensi che oggi considero anche amici.

Sono tutte esperienze che porto nel cuore, ma non mi sento “arrivata”: ho ancora tanti sogni. Credo che questo cammino infinito, questa ricerca di nuove emozioni, sia ciò che tiene vivo l’animo di noi artisti. E quello che non abbiamo ancora vissuto, lo immaginiamo sempre ancora più bello. Forse la gavetta non finisce mai.

Una tappa importante è stata la pubblicazione, nel 2001, di “Italian Signorina”, un EP con 5 canzoni: tre scritte da lei e due colonne della musica italiana: ‘Caruso’ e ‘Quando quando quando’. Da subito, secondo noi, emergono la grande personalità e la passione per la canzone italiana. Si riconosce in questa visione?

Sì, mi riconosco molto. Ho sempre voluto unire i classici internazionali a quelli italiani, portando nel mondo anche le perle dei grandi cantautori meno conosciuti. E anche raccontare storie con le mie canzoni e farle diventare parte della vita del mio pubblico. Italian Signorina è stata la canzone che mi ha fatto notare da Clive Davis… e proprio in questi giorni verrà ad un mio concerto in Italia una coppia che festeggia il loro anniversario: la loro canzone è proprio Italian Signorina. Per me non c’è riconoscimento più bello. Pensa è anche la prima canzone che ho scritto in inglese e che ho scritto per gioco alle 4 del mattino in Danimarca scherzando con dei musicisti danesi di musica jazz….

Dal 2005 lei è stata una presenza assidua al Columbus Day, certamente la celebrazione più sentita negli Stati Uniti. Probabilmente per noi in Italia è difficile cogliere il senso di quella manifestazione, che celebra i valori più profondi, l’identità, la storia degli Usa. Come è stato essere invitata, da italiana, a quell’evento?

Cantare Caruso alla Columbus Day Parade del 2005 è stata un’esperienza che porterò sempre nel cuore. Faceva freddissimo, indossavo solo un vestitino leggero, eppure in quei tre minuti mi sembrava di volare: la Quinta Strada gremita, milioni di persone davanti alla televisione, tutte a celebrare la cultura italiana in America ed io a cantare un pezzo di Lucio Dalla amato nel mondo.

Da allora ho continuato a esibirmi alla Parata quasi ogni anno se ero libera e oggi ho persino l’onore di esserne una delle presentatrici per ABC7. A volte mi sembra incredibile: da Portogruaro al cuore di New York, con la mia musica a fare da ponte tra due mondi.

È un onore immenso, lo racconto spesso agli amici, ma credo non sia facile da capire fino in fondo quanto tutto questo sia incredibile per me.

Altra tappa importantissima è stata essere invitata ad esibirsi a Broadway. Sono pochi gli italiani che possono dire di avere calcato quei palcoscenici da protagonista. Ci racconta qualcosa degli esordi?

Il mio debutto a Broadway fu al Feinstein’s, uno dei cabaret più esclusivi di New York, che oggi purtroppo non esiste più. Lo show si intitolava The Great European Diva ed era uno spettacolo che avevo scritto insieme alla mia stage director Vicki Stewart, una veterana del cabaret arrivata a New York da Londra negli anni ’70 per lavorare con Perry Como. Era un tributo alle grandi dive europee — Shirley Bassey, Edith Piaf, Dusty Springfield, ma anche Mina e Ornella Vanoni — raccontando le loro vite e carriere, intrecciate con la loro musica.

A New York c’è una grande tradizione di cabaret teatrale, dove lo spettacolo è concepito come una fusione di musica e storytelling: non solo concerti, ma esperienze narrative ed emozionali che coinvolgono il pubblico. In Italia questo approccio è meno diffuso: spesso si punta più sul concerto in sé e meno sul racconto. Ma alla fine credo che il pubblico sia ovunque lo stesso: sta all’artista saper dare emozioni vere, capaci di arrivare al cuore. E quando questo accade, le differenze si annullano …

Arriviamo ad una tappa fondamentale: Clive Davis. Come è stato incontrare e lavorare con una figura così importante della storia della musica mondiale?

Clive Davis è una figura leggendaria dell’industria musicale: ha lanciato carriere incredibili, da Whitney Houston a Christina Aguilera, da Alicia Keys a Barry Manilow, da Santana a Aretha Franklin. È un uomo di poche parole, ma ogni sua parola pesa.

Quando mi ascoltò la prima volta disse che la mia voce era “enchanting”, incantevole, diversa, unica, subito riconoscibile – e questo per lui era fondamentale. – Essere notata da lui e invitata a New York a lavorare con il suo team è stato per me un onore immenso, un vero punto di svolta nella mia carriera.

Mi mandò a prendere lezioni con William Riley, uno dei vocal coach più stimati di New York, che aveva seguito il presidente Bill Clinton quando ebbe problemi alle corde vocali, oltre a star come ShakiraCéline Dion e la cantante latina Thalía, che incontravo spesso in sala d’attesa insieme al marito, il famoso Tommy Mottola. Dovevo perfezionare il mio accento senza perderne la naturalezza, e lavorare con Riley fu un’esperienza preziosissima.

Clive voleva anche che scrivessi musica con autori americani. Non lo si vedeva spesso, ma la sua visione e il suo sostegno hanno segnato profondamente il mio percorso artistico. È stato un arricchimento vero, una pura carica di believe in yourself che porto con me ancora oggi.

Da lì gli spettacoli ed i grandi successi non si contano. A quale si sente più legata? Ce n’è qualcuno a cui, invece, ripensandoci, avrebbe fatto meglio a non partecipare?

Li amo tutti, ogni spettacolo è un pezzo della mia vita e del mio percorso artistico. Forse, se devo scegliere, ho una piccola preferenza per From Venice With Love, perché grazie alla sua trasmissione sulla televisione americana mi ha aperto tantissime porte. Molto speciali per me sono stati anche i due spettacoli alla Carnegie HallAmore & Amor, che erano un tributo alla musica italiana e latina.

Amo anche quello che sto portando nei teatri, Il cuore italiano della musica americana, perché mi riempie di orgoglio, e Songs from the Movies, perché adoro la musica del cinema e il cinema stesso. Più che uno spettacolo a cui non avrei voluto partecipare, ce n’è uno a cui col senno di poi avrei voluto dire “sì”: la parte di Esmeralda nel musical di Riccardo Cocciante Notre Dame de Paris in Olanda, che poi mi avrebbe portato anche in Italia. Forse quello è l’unico piccolo rimpianto. Avevo i miei buoni motivi per dire di no, ma forse avrei dovuto dire di si.

Cosa le manca dell’Italia e cosa le piace particolarmente del mondo americano?

Ho trovato più popolarità in America che in Italia. Ma il mio rapporto con il Belpaese resta profondissimo: l’Italia è radici, famiglia, identità. Mi mancano i nostri borghi, il cibo, il calore delle persone, e quelle piccole cose quotidiane che ti fanno sentire a casa. Posso vivere e lavorare dovunque, ma l’Italia rimane sempre parte di me e del mio cuore.

Dell’America mi affascina la mentalità. C’è una cultura del “si certo, si può fare”, un entusiasmo contagioso che ti spinge a credere nei tuoi sogni e a non avere paura di tentare. Certo, la competizione è enorme, ma c’è anche più meritocrazia: se hai talento e lavori sodo, prima o poi qualcuno ti nota. Qui le opportunità vengono offerte a tutti, ma poi bisogna dimostrare di valere, altrimenti non si va avanti.

Fu così anche quando chiesi di cantare a un prestigioso evento al Plaza Hotel di New York. Il presidente dell’organizzazione accettò, ma mi disse: “Ricordati che se non sai cantare io farò una brutta figura, ma per te sarà la fine qui a New York, perché ci sarà tutta la comunità italiana e italoamericana presente.” Andò benissimo, lui divenne un grande amico e per me fu l’inizio della carriera.

Mi piace anche la libertà creativa, la possibilità di reinventarsi ogni volta, di sperimentare. E amo la generosità delle persone e il loro supporto all’arte e agli artisti: chi viene dal niente in America non dimentica, e spesso “gives back” alla comunità. Lo trovo bellissimo, e potrei raccontare tante storie di generosità ricevuta anch’io per realizzare alcuni dei miei spettacoli. È una mentalità davvero fantastica, che ti fa sentire parte di un sogno più grande.

Nella sua vita ha incontrato tante persone speciali. Ci racconto qualcuno che l’ha colpita in modo speciale?

Tutti gli incontri della mia carriera mi hanno lasciato qualcosa di speciale, quindi è difficile menzionarne solo uno. Ma mi vengono in mente, così di getto, il bassita Nathan East, l’attore Joe Mantegna e Phil Ramone.

Nathan è uno dei più grandi musicisti al mondo, eppure con lui e la sua famiglia ho sempre sentito un rapporto vero, sincero, quasi familiare. Una delle sue sorelle è addirittura una mia super fan! Con persone così ti rendi conto che il talento può andare di pari passo con la semplicità e la generosità.

E poi c’è Joe Mantegna, che ha un amore profondo per Venezia. Quando ci siamo conosciuti mi ha fatto subito sentire accolta, presentandomi anche amici suoi che vivono a Venezia e con cui sono rimasta in contatto. Addirittura, quando mi conosceva appena, mi scrisse una lettera di raccomandazione per la mia Visa americana, garantendo per me: un gesto che non dimenticherò mai. Anni dopo, quando vide il mio From Venice With Love in televisione, mi chiamò per dirmi quanto fosse felice per me.

Phil Ramone, nonostante i suoi 14 Grammy Awards e le collaborazioni con giganti come Billy Joel, Paul Simon, Barbra Streisand, Frank Sinatra e Luciano Pavarotti, era una persona di un’umiltà incredibile. Ricordo che si fermava per strada a fare i complimenti ai musicisti di strada di New York, e che si commuoveva ogni volta che cantavo Caruso, perché gli ricordava Pavarotti, di cui aveva prodotto tutti i progetti Pavarotti & Friends.

Sono persone così a ricordarmi che, nonostante la fama e il successo, ciò che resta davvero è l’umanità e la capacità di farti sentire “uno di loro”.

Un altro incontro indimenticabile è stato con Tony Bennett. Mi incuteva così tanto rispetto che quasi non riuscivo a parlare in sua presenza. Credo fosse uno dei più grandi cantanti che io abbia mai visto: amava il suo pubblico con tutto se stesso e, fino all’ultimo concerto che ho avuto la fortuna di vedere a Las Vegas prima del suo ritiro, aveva negli occhi quel fuoco per la vita e per la musica che lo rendeva unico.

Come fa a mantenere integra la sua personalità, a difendersi dalle continue richieste di un sistema che spesso tritura i talenti?

Mantenere la propria personalità in questo mondo non è semplice, perché tutti – teatri, televisioni, agenti, persino il pubblico – cercano di dirti chi dovresti essere o cosa dovresti fare, perché bisogna vendere biglietti. Io credo che la strategia più importante sia non dimenticare mai chi sei e da dove vieni.

Per me significa ricordarmi sempre delle mie radici italiane, dei valori che ho imparato in famiglia: umiltà, rispetto, gratitudine. Certo, ascolto i consigli, ma alla fine seguo ciò che sento nel cuore. La musica è sincerità: se provi a essere qualcun altro, il pubblico lo percepisce subito.

Non è facile, perché a volte dire “no” costa caro. Ma preferisco perdere un’occasione che perdere me stessa. Potrei forse lavorare anche di più nei teatri se per esempio scegliessi un singolo artista e ne facessi uno show di tributo, magari anche cercando di vestirmi, cantare o muovermi come il personaggio in questione. Lo trovo orrendo non è arte per me, è quasi una carnevalata. Ma quello dei tribute act è molto di moda al momento. Ma io non seguo le mode. Quindi la mia vera strategia è questa: restare fedele a me stessa, ai miei sogni e alla mia autenticità. È l’unico modo per resistere e, soprattutto, per essere felice.

Quanto al mondo dello spettacolo americano, certo, anche lì può sembrare che “macini” artisti: è un ambiente competitivo e durissimo. Ma ho trovato che, a differenza di quanto accade spesso in Italia, negli Stati Uniti c’è ancora un grande rispetto per chi fa musica, per chi si dedica con passione e professionalità alla propria arte. Non importa se sei una superstar o un artista di nicchia: se sei bravo, la gente ti riconosce e ti sostiene.

La sua voce è ricca di armonici, con una bella gamma di colori, solida nei passaggi. Dal punto di vista espressivo risulta raffinata, non indugia su facili effetti o forzature. Quanto tempo dedica allo studio? Ha qualche segreto svelabile?

Grazie per i bellissimi complimenti. In realtà dovrei dedicare molto più tempo agli esercizi vocali, ma la verità è che l’unica regola che seguo con costanza è non mangiare nelle due o tre ore che precedono il concerto, bere tanta acqua e un po’ di tè caldo. Per il resto… canto.

Spesso mi capita di cantare quasi tutto lo spettacolo già durante il soundcheck e poi ripeterlo la sera. Credo che la mia voce resti allenata grazie alla tecnica che ho acquisito negli anni, anche se non è certo un metodo che consiglierei a tutti.

Phil Ramone una volta mi disse che anche Barbra Streisand faceva esattamente così: questo mi ha fatto sentire subito meno in colpa!

Però va detto che non canto mai canzoni che non sento mie: non è questione di genere, ma di storia. Forse è una scuola americana quella di chiedersi sempre perché canti un brano e come lo racconti. Perché alla fine, se vuoi solo musica, accendi Spotify… ma un concerto è uno spettacolo, un viaggio emotivo.

Come è andata con Andrea Bocelli, artista amato più nel mondo che in Italia?

In Italia forse non ci si rende davvero conto di cosa rappresenti Andrea Bocelli nel mondo, soprattutto negli Stati Uniti: ha creato una sorta di magia intorno alla sua persona e al suo nome. La sua vocalità, a metà tra pop e classico, è bella e riconoscibile, anche se a volte criticata da alcuni puristi della lirica, tenori e soprani molto conosciuti che magari lo giudicano con parametri diversi. Ma la verità è che la musica arriva in tanti modi: non sempre sono le perfezioni tecniche a toccare il cuore, a volte lo fanno proprio le imperfezioni.

Con me è stato di una gentilezza straordinaria, l’ho trovato gentile, chiacchierone, simpatico, la sua famiglia altrettanto accogliente. Sono rimasta in contatto con sua moglie Veronica, che è una donna meravigliosa. Cantare al fianco di Andrea è stato un onore immenso e un’emozione che porterò sempre con me.

Ci sono state occasioni in cui si è sentita un’autentica portabandiera dell’Italia in America?

Mamma mia, sì, tantissimi momenti speciali che mi porto nel cuore…20 anni di emozioni uniche.  Mi sono sentita davvero una portabandiera dell’Italia quando ho riempito la Carnegie Hall di New York con un tributo alla musica italiana, quando ho cantato per la Ferrari Challenge, quando ho avuto l’onore di indossare abiti e gioielli italiani a qualche evento speciale. O quando ho portato la nostra lingua sul palco della leggendaria Grand Ole Opry di Nashville duettando con Trace Adkins, un’icona del country che ho persino fatto cantare in italiano – e ancora oggi lì ne parlano.

E poi gli inni nazionali che ho cantato davanti a Obama e Biden, il privilegio di presentare la prestigiosa Columbus Day Parade di New York per la televisione americana come unica italiana, e i riconoscimenti ricevuti negli Stati Uniti, come il titolo di “Woman of the Year” dall’Organization of Italian Charities in America, l’onorificenza dall’Order Sons of Italy in America, e il Merit of Honor dal Borough President di Queens per il mio contributo culturale.

In quei momenti l’orgoglio di essere italiana è immenso: porto nel mondo il cuore del mio Paese e sento di essere un ponte tra le mie radici e chi, lontano, continua ad amarlo…in Italia non ne sa nulla quasi nessuno… ma non mi importa più di tanto: lo so io e lo sa la mia famiglia che ne è molto orgogliosa….

I cantanti italiani pop realmente presenti sul mercato americano sono pochissimi. Lei che conosce sia il pubblico che gli addetti ai lavori, come spiega questo fenomeno?

Questa è una domanda che mi fanno spesso. Credo che il motivo sia che la musica italiana, negli ultimi anni, è diventata un po’ troppo simile a quella del resto del mondo. Gli artisti italiani più conosciuti in America, come Il Volo e Andrea Bocelli, hanno mantenuto invece la melodia tipica della musica italiana, quella che nel mondo ci si aspetta e si ama.

C’è anche Laura Pausini, che magari è meno nota in Nord America ma è diventata una vera regina della musica latina. Ma ci sono molti bravissimi artisti italiani che non conosciamo negli stati Uniti, perché credo che se non si capiscono le parole, per il pubblico americano è difficile appassionarsi: preferisce ascoltare musica simile, ma nella propria lingua.

Come diceva la famosa canzone Tu vuò fa’ l’americano, forse noi italiani siamo diventati un po’ troppo “americani” nella musica, perdendo quella melodia unica che ci rendeva riconoscibili nel mondo. Detto questo, la musica italiana resta bellissima: abbiamo autori e artisti bravissimi, anche se oggi meno “vendibili” negli Stati Uniti rispetto a un Domenico Modugno, che con la sua Volare vinse il primo Grammy Award della storia e che ancora oggi è amatissima e regina assoluta negli USA.

Quali sono i luoghi più suggestivi, per lei, in cui ha cantato?

Cantare alla Carnegie Hall è stato un sogno che si è avverato, due volte. Entrare in quello spazio iconico, dove sono passati i più grandi della musica, ti toglie il fiato. Per me non è stato solo un concerto, ma un rito: il coronamento di tanti anni di sacrifici e di passione.

Ma non è stato l’unico luogo che mi ha emozionata profondamente. Cantare al leggendario palco della Grand Ole Opry di Nashville, tempio assoluto della musica country, è stato altrettanto speciale: lì senti di entrare a far parte della storia della musica americana.

Un altro momento che non dimenticherò mai è stato registrare ai Capitol Studios di Los Angeles, gli stessi dove hanno inciso Frank Sinatra e Nat King Cole: lì percepisci tutta la magia della storia che ti circonda.

E naturalmente registrare il mio album natalizio con la Royal Philharmonic Orchestra agli Abbey Road Studios di Londra, diretta da Robert Ziegler, è stata un’esperienza unica, quasi surreale.

Ma la verità è che ogni teatro mi ruba sempre il cuore, anche quelli più piccoli. Ogni applauso mi emoziona, perché amo profondamente il mio pubblico. Mia nonna mi ha insegnato a essere sempre grata: senza il pubblico canterei solo sotto la doccia. Lo dico spesso anche alla fine dei miei concerti, perché è la verità: noi artisti mettiamo il cuore in quello che facciamo, ma sono le persone che ci ascoltano che ci permettono di vivere la nostra arte su un palcoscenico. Devo tutto a loro.

Lei ha raccontato di aver superato momenti drammatici per la sua salute. In quei momenti quanto è stata importante la musica?

Sì, ho attraversato momenti fisici molto difficili, quasi perso la vita e ottenuto una seconda opportunità di vivere, e posso dire senza esitazione che la musica è stata la mia medicina più grande. Mi ha dato la forza di guardare avanti anche nei giorni più bui, quando sembrava impossibile. Ma non è stata solo la musica: sono stati anche i miei fan, la mia “famiglia allargata”, che con i loro messaggi, il loro affetto e la loro presenza costante mi hanno dato un’energia speciale.

Ricordo che dopo la malattia, quando finalmente tornai a esibirmi, tra il pubblico c’erano anche i miei medici. Vederli lì, emozionati e fieri, è stato commovente: come se la musica avesse chiuso il cerchio, restituendomi alla vita e portandomi di nuovo sul palcoscenico.

Quell’esperienza mi ha profondamente cambiata. Mi ha resa un’artista più sincera, più intensa, più consapevole di quanto sia prezioso ogni respiro, ogni nota, ogni emozione condivisa con chi ascolta. Oggi so che cantare non è solo un mestiere, ma una missione: donare un po’ di luce anche quando si viene dall’ombra.

Quali sono i prossimi impegni americani?

Ottobre sarà un mese intensissimo. Ai primi di ottobre volerò a New York dove, avrò l’onore di presentare ancora una volta la Columbus Day Parade in diretta su ABC7: tre ore di trasmissione dal tappeto rosso sulla Quinta Strada, la più grande celebrazione della cultura italiana in America, seguita da milioni di spettatori.

Subito dopo volerò a Las Vegas per apparizioni in radio e televisione dedicate al mio concerto del 31 ottobre al Freedom Hall Theatre, con lo spettacolo The Italian Heart in American Music.

E, fra tutti questi impegni, ci sarà anche una settimana a Nashville per entrare in studio e terminare le registrazioni con Tim Wilgers per il progetto BEYOND, che unisce musica e documentari per promuovere l’Italia, i suoi territori e il Made in Italy nel mondo.

E quando sono a Nashville, naturalmente non mancherà un passaggio alla leggendaria Grand Ole Opry: non so mai cosa mi aspetta lì, ma ogni volta è un’esperienza speciale.

Ringraziandola ancora una volta per la disponibilità e la cortesia, le chiediamo di svelarci i progetti italiani cui sta lavorando.

In Italia mi potrete ascoltare il 26 settembre 2025, accompagnata da straordinari musicisti come Rudy Fantin, Paolo Mazzoleni, Roberto Colussi e Simone Gerardo, all’Antico Teatro Arrigoni di San Vito al Tagliamento, con lo spettacolo Il Cuore Italiano della Musica Americana.

Sarà per me un momento davvero speciale, perché il teatro si trova a pochi chilometri da casa ed in sala ci saranno la mia mamma e il mio papà, tanti amici e parenti, alcuni fan che saranno in Italia per uno dei miei viaggi alla scoperta del nostro territorio, addirittura alcuni che verranno solo per il concerto… e spero tanti nuovi amici e futuri fan che ancora non mi conoscono.

Il 15 novembre 2025 canterò al Teatro Niccolini di Firenze.

Inoltre, mi è stato proposto di proporre in Italia, nel periodo natalizio, lo spettacolo che per oltre dieci anni ho portato nei teatri degli Stati Uniti e per questo stiamo preparando un evento molto speciale, che coinvolgerà grandi musicisti del territorio. Ma posso anche anticiparvi che per il prossimo anno ci sono già in cantiere tanti nuovi progetti, anche in Italia!

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