Doppio ricordo di Roberto De Simone
di Alberto Pellegrino e Bruno de Simone
28 Giu 2025 - Approfondimenti teatro
Pubblichiamo il ricordo di Roberto De Simone, grande drammaturgo, compositore e saggista napoletano scomparso il 6 aprile scorso con due interventi. Nel primo Alberto Pellegrino delinea la figura di De Simone e analizza due delle sue opere principali: “L’Opera buffa del giovedì santo” e “La gatta Cenerentola. Nel secondo, il baritono Bruno de Simone ci regala una preziosa testimonianza diretta su quel grande maestro che è stato “L’ultimo dei … Napoletani”.
Ricordo di Roberto De Simone (di Alberto Pellegrino)
Roberto De Simone (1933–2025) è un compositore, musicologo e regista teatrale, un cultore e promotore della grande civiltà napoletana. Nel 1943 s’iscrive al Conservatorio di San Pietro a Majella di Napoli, dove studia composizione e pianoforte e a quindici anni comincia a eseguire i primi concerti come solista, interpretando musiche di Mozart e di Beethoven; quindi alterna gli impegni concertistici con le ricerche sulla musica popolare di Napoli e della Campania, al recupero di opere teatrali laiche e sacre dell’antica Scuola napoletana. Lascia il concertismo e s’iscrive alla Facoltà di Lettere dell’Università Federico II, per dedicarsi all’attività di autore e musicologo; in questo periodo compone le musiche per diversi spettacoli teatrali, tra cui Edipo re di Sofocle, La lunga notte di Medea di Corrado Alvaro, Io Raffaele Viviani, Storie della camorra.
Nel 1967 De Simone incontra un gruppo di giovani interessati a rinnovamento della musica popolare e fonda la Nuova Compagnia di Canto Popolare, dove spiccano i nomi di Eugenio Bennato, Peppe Barra e Fausta Vetere. Dopo una prima fase dedicata esclusivamente alla musica, il gruppo comincia a svolgere un’attività teatrale e inizia nel 1974 col mettere scena nel Teatro San Ferdinando di Napoli la Cantata dei Pastori di Andrea Perrucci. Nel 1976 segue La gatta Cenerentola di Roberto De Simone, che sarà un grande successo di pubblico e di critica, ma che segnerà anche la fine della collaborazione tra De Simone e la Nuova Compagnia.
De Simone svolge nel frattempo un intenso lavoro di ricerca storica sulla cultura orale e sul folclore grazie a una collaborazione sempre più stretta con il gruppo di artisti Media Aetas. Per i maggiori teatri italiani e internazionali cura la messa in scena di alcune opere liriche di Mozart, Gian Battista Pergolesi, Gioachino Rossini e Verdi. Negli anni Settanta insegna Storia del teatro nell’Accademia di Belle Arti di Napoli; dal 1981 al 1987 è il direttore artistico del Teatro di San Carlo. Nel 1995 è nominato direttore del Conservatorio San Pietro a Majella e nel 1998 diventa Accademico di Santa Cecilia a Roma; viene insignito del titolo di Chevalier des Arts et des Lettres della Presidenza della Repubblica francese. Negli ultimi anni è costretto a ridurre la sua attività a causa del Parkinson, una malattia che lo accompagnerà fino alla morte, avvenuta il 6 aprile 2025 nella sua casa di Napoli.
Il patrimonio letterario, teatrale e musicale lasciato da Roberto De Simone
Roberto De Simone è stato uno dei maggiori esponenti della cultura di Napoli, una metropoli con grandi tradizioni linguistiche, letterarie, musicali e artistiche, espressione di una civiltà nata nei vicoli, nelle strade, nelle piazze, nei teatri, nelle accademie e nelle Università, una civiltà che ha 2500 anni di vita, dove si mescolano intuizione e istinto, logica e fantasia, genio e follia, realtà quotidiana e aspirazione al sogno; una città capace di produrre filosofia e scienza, letteratura e teatro, musica colta e canto popolare in un impasto affascinate di teatralità, esaltazione dionisiaca, carnalità e dolore. De Simone ha saputo reinterpretare e far rivivere questo mondo così complesso dove convivono riti antichissimi e progetti rivolti al futuro, riaprendo le porte al lavoro d’intellettuali e artisti, ma anche a quella “gente anonima”, a quegli “emarginati” che sono l’anima e la voce più genuina del popolo. Ha riscoperto e valorizzato le culture arcaiche meridionali; ha avuto una visionaria e felice intuizione di recuperare canti e strumenti della tradizione orale campana e del Sud Italia per renderli nuovamente attuali, facendo rivivere suoni che nessuno aveva mai sentito, ma di cui si aveva un vago ricordo: tamburi a cornice, zampogne e voci cantanti, canti solenni come preghiere e ironici come burle nate in mezzo al popolo.
Tra il 1976 e il 1998 scrive e compone Masaniello (1975), Mistero Napolitano (1977), La gatta Cenerentola (1977), L’Opera Buffa del Giovedì Santo (1980), Io Narciso Io (1985), il Requiem in memoria di Pier Paolo Pasolini (1985), la Festa Teatrale, scritta per il 250º anniversario del Teatro di San Carlo (1987). Nel 1999 compone l’opera Eleonora oratorio drammatico per celebrare il bicentenario della Repubblica Napoletana del 1799 ed Eleonora Pimentel Fonseca (Roma 1752-Napoli 1799), patriota e politica, giornalista e poetessa aderente all’Arcadia. Durante la Rivoluzione Francese Eleonora aderisce ai circoli liberali; fa parte del Comitato centrale che appoggia l’entrata dei Francesi a Napoli; in abiti maschili partecipa alla conquista di Castel Sant’Elmo; il 22 gennaio 1799 è tra coloro che proclamano la Repubblica Napoletana; il 2 febbraio esce il primo numero del Monitore Napoletano, periodico bisettimanale di cui è direttrice. Ha un atteggiamento democratico ed egualitario volto a diffondere nel popolo gli ideali repubblicani purtroppo con scarso successo. Alla caduta della Repubblica, è arrestata con l’accusa di giacobinismo, processata, e condannata a morte per impiccagione. La sentenza è eseguita nella Piazza Mercato ed Elisabetta è l’ultima a salire sul patibolo con grande coraggio e dignità. A testimonianza della fedeltà del popolo alla monarchia dei Borbone, dopo la sua morte viene diffusa questa poesia anonima e alquanto squallida: “A signora ‘onna Lionora / che cantava ‘ncopp’ ‘o triato / mo abballa mmiez’ ‘o Mercato / Viva ‘o papa santo / ch’ha mannato ‘e cannuncine / pe’ caccià li giacubine / Viva ‘a forca ‘e Mastu Donato! / Sant’Antonio sia priato”.
De Simone è anche l’autore di numerose pubblicazioni riguardanti le tradizioni musicali campane, tra cui Canti e tradizioni popolari in Campania (1982), Demoni e Santi. Teatro e teatralità barocca a Napoli (1984), La tarantella napoletana nelle due anime del Guarracino (1991), Fiabe Campane (1993), Il Presepe popolare napoletano (1999), La cantata dei Pastori da Andrea Perrucci (2000), Satyricon a Napoli ’44. Fra Santa Chiara e San Gregorio Armeno (2014), La canzone napoletana (2017), L’oca d’oro (2019), cura la riedizione de Il cunto de li cunti di Giambattista Basile (2022). Sarebbe impossibile in questa sede prendere in esame tutte le opere scritte da De Simone, per cui ci limiteremo ad analizzare due dei suoi lavori più famosi anche a livello internazionale.
L’Opera buffa del giovedì santo
Nel 1980 Roberto scrive e compone L’Opera buffa del giovedì santo, una commedia per musica in tre atti e quattro quadri ambientata nella Napoli del Settecento, quando la città è una grande capitale europea che vive un’avventura culturale, sociale, politica ed economica di un possibile riscatto dopo anni di miseria e delusioni. Nonostante questi diffusi fermenti, le speranze di un popolo andranno deluse, per cui il “giovedì santo” diventa la grande metafora di una immobile e interminabile attesa per l’arrivo di una domenica di resurrezione che non arriverà mai.
L’autore crea una specie di labirinto teatrale all’interno del quale lo spettatore si muove per ricostruire un quadro storico frammentato, formato da drammatici brani di un arcaico dolore, da antichi miti e riti, con aperture sul nostro tempo e segnali di come oggi vi sia la tendenza a vivere senza memoria.
A Napoli fin dalla metà del Cinquecento vi è stato un diffuso consumo musicale sollecitato da manifestazioni musicali e teatrali volute dai viceré spagnoli che hanno voluto stabilire uno stretto rapporto tra il Potere e le vari classi sociali cittadine. Fedele a questo modello anche la nobiltà e il clero hanno sollecitato la produzione di musica sacra e di opere teatrali vista anch’essa come una esibizione di potere.
Questa situazione sociologica ha fatto di Napoli una città della musica e ha determinato il nascere di ben quattro Conservatori musicali (Santa Maria di Loreto, I Poveri di Gesù Cristo, Sant’Onofrio a Capuana, La Pietà dei Turchini), dai quali sono usciti grandi compositori della Scuola napoletana come Giambattista Pergolesi, Leonardo Vinci, Nicola Jommelli, Leonardo Leo, Giovanni Paisiello, Domenico Cimarosa, una scuola caratterizzata dal ruolo primario assegnato alla vocalità e da una funzione teatrale finalizzata alla esecuzione pubblica sia di composizioni sia laiche sia sacre.
È stata proprio l’importanza data a una vocalità di tipo virtuosistico a favorire la diffusione del fenomeno dei castrati che, attraverso un forzoso arresto della pubertà, sono dotati di una vocalità dalle straordinarie possibilità esecutive. Quando questi ragazzi, che provengono da famiglie di provincia spesso povere, mostrano delle buone qualità vocali, vengono temporaneamente ritirati dal conservatorio per praticare su di loro il barbaro rito della castrazione, quindi riammetterli, evitando così la legge che proibiva questa pratica ma che in sostanza viene tollerata dalle autorità.
Il primo atto (primo quadro) si svolge nel Conservatorio dei Poveri di Gesù Cristo, dove studiano ragazzi provenienti da tutto il Meridione. È presente il personaggio del Principe, tradizionale rappresentante del Potere e generoso mecenate, ma la vicenda ruota intorno al giovane castrato Titta, un promettente soprano e un “oggetto del desiderio” per molti, tra cui “maestrino” del Conservatorio Lionardo, che plagia il giovane artista spacciandosi per suo protettore e legandolo a sé con un ambiguo rapporto sentimentale. Vi è poi Liodato, un ragazzo dodicenne che riceve la visita della madre, ma sospetta che la donna sia venuta per prelevarlo e farlo evirare. Un particolare linguistico è che tutti i ragazzi del Conservatorio si esprimano mescolando il gergo degli antichi musici e degli affiliati alla malavita, dato che esibendosi nei teatri e nei salotti essi vengono spesso a contatto con gli ambienti malavitosi cittadini.
Il secondo quadro è ambientato nella zona di Santa Maria di Loreto, abitata dal sottoproletariato e controllata dalla malavita. Il personaggio principale è Pacicco che sopravvive mettendo in mostra la sua miseria fatta di stracci e canzoni e fingendosi cieco per attirare benestanti e turisti. Il figlio Fonzo segue le sue orme, perché è un abile dissimulatore di sentimenti: di giorno finge di essere un mendicante storpio; di notte si traveste da nobile cavaliere e frequenta il Teatro Nuovo, dove intreccia rapporti con nobili, ricchi borghesi e turisti stranieri, una “fauna” urbana che costituisce una riserva di caccia per le prostitute di sua madre Ciannella, la quale di giorno gira per la città vestita da suora per chiedere l’elemosina per le orfanelle, mentre di notte gestisce un bordello frequentato dai clienti trovati da Fonzo, nel quale si prostituiscono cinque giovani contadine attratte dal mito della grande città. La loro segreta speranza è di avere successo come artiste o come mogli di un ricco nobile e per questo prendono lezioni di canto da Cardella, una ex lavandaia che è diventata un cantante del Teatro Nuovo e ha sposato il giovane principe Clorindo, anche se la loro relazione è durata poco per l’intervento della suocera, donna Faustina, principessa del Càssero, che vede in questo matrimonio un pericolo per il ricco patrimonio di famiglia.
La principessa è stata un ex portinaia che è riuscita a farsi sposare dal vecchio principe del Càssero; è una donna astuta, volitiva e calcolatrice: quando si accorge di non avere più potere sul figlio Clorindo, compra la testimonianza di Pacicco per dimostrare che il giovane non è il figlio del vecchio principe, ma è nato da una occasionale relazione con Pacicco, per cui Clorindo perderà il titolo e l’eredità che diverranno unica proprietà della principessa.
Cardella ritorna a cantare in teatro, mentre Fonzo accompagna Milord, un ricco turista inglese, ad assistere a pagamento a una tarantella eseguita da donne e uomini completamente nudi, i quali eseguono una antica danza rituale che nel Settecento è diventata un’attrazione per turisti in cerca di emozioni erotiche. Pacicco, eccitato dalla danza, spinge Fonzo ad avere un rapporto incestuoso con la madre Ciannella, che invasata dalla danza uccide il marito a coltellate.
Il terzo quadro si svolge nel Teatro Nuovo, metafora della corte napoletana con i suoi intrighi, raccomandazioni e privilegi; in esso primeggia re Ferdinando in qualità di impresario, che lascia alla regina Carolina la gestione degli affari di uno Stato divenuto un centro di cortigianeria e servilismo all’interno del quale si trova a suo agio il maestro di cappella Lionardo con i suoi ipocriti comportamenti.
Nel finale della rappresentazioni si prospetta una possibilità di rinnovamento sociale con Michele il Pazzo che annuncia la messa in scena del melodramma Partenope liberata, sotto la direzione della “cittadina” e marchesa giacobina Eleonora Pimentel De Fonseca, emblematica figura d’intellettuale che rifiuta ogni compromesso con il maestro Lionardo quando questi si propone come mediatore tra il Potere e l’opinione pubblica, pur sapendo che la rappresentazione sarà destinata a fallire, perché le comparse si rifiutano di fare la rivoluzione.
Nonostante abbia una solida base storica, l’opera si propone come un “grande rituale” nel quale confluiscono il sacro e il profano, la realtà e il sogno, la parlata dialettale e il napoletano letterario derivato dalle commedie musicali e dalle opere buffe del Settecento, il gergo degli attori, dei musicisti e della malavita locale. Il principe Clorindo richiama i personaggi delle commedie goldoniane; donna Faustina riflette l’anima della ricca borghesia; Titta rappresenta il castrato “rituale” che è destinato a morire dopo avere attraversato tutte le varie fasi dell’opera, Eleonora rappresenta l’intellettuale illuminata e condannata al fallimento. L’opera si conclude con il personaggio di Michele ‘o pazzo, alias Michele Marino, un personaggio storico che è stato capo dei lazzari durante la Rivoluzione del 1799 e che è stato giustiziato dopo la restaurazione, il quale rappresenta la razionalità rovesciata dell’Illuminismo (nel finale dice “calci in culo alla libertà”), diventando il simbolo dei sanfedisti contro-rivoluzionari. Una cifra dell’opera è il “travestimento”: Titta prende le vesti del principe Clorindo, poi indossa i panni del mendicante Fonzo, dopo essere stato disconosciuto dalla madre come figlio del principe, Fonso si traveste da principe, Pacicco indossa gli abiti femminili, di donna Carolina, Ciannella si mostra di giorno come una vergine monaca e di notte come una prostituta e sacerdotessa di violenti riti dionisiaci; alla fine Titta indossa le vesti di Eleonora quando le parole “libertà” e “eguaglianza” perdono il loro significato e tutto finisce in una grande mascherata, dove Eleonora, che è l’anima genuina di una libertà negata, assume il ruolo della vittima sacrificale accompagnata dai ritmi dell’Orologio della Passione e dello Stabat Mater.
“La Gatta Cenerentola” il capolavoro di Roberto De Simone
L’operaLa Gatta Cenerentola è stata scritta nel 1976 ed è andata in scena nel 1977 al Festival dei due Mondi di Spoleto, diventando subito uno spettacolo di enorme successo che lo stesso De Simone ha definito “Un melodramma nuovo e antico nello stesso tempo come nuove e antiche sono le favole nel momento in cui si raccontano. Un melodramma come una favola dove si canta per parlare e si parla per cantare o come favola di un melodramma dove tutti capiscono anche ciò che non si capisce solo a parole”.
De Simone riesce a creare un affascinante intreccio tra filologia linguistica e fantasia, tra cultura barocca e modernità, tra la musica colta e una musica popolare fatta di villanelle, moresche e tammurriate, con gli attori che parlano un napoletano senza tempo, ma pur sempre legato alla viva tradizione napoletana lontana da ogni banalizzazione folkloristica.
De Simone riesce a ritrovare una sostanziale unità tra anima colta e anima popolare che, secondo lui, hanno una origine comune anche perché nella storia letteraria e musicale napoletana “miseria e nobiltà” sono sempre andate a braccetto dal tardo Cinquecento al primo Novecento, dando vita a raffinatissime forme letterarie e musicali che hanno saputo farsi capire da tutti prima dell’omologazione del Novecento che ha inquinato e corrotto questa tradizione, banalizzato la musica, la letteratura e il teatro. De Simone è riuscito a mettere insieme l’eleganza barocca dei Seicento, il canto femminile come strumento, il dialetto come lingua d’arte, ma soprattutto ha inventato un teatro musicale del tutto originale, che non è l’opera lirica, né il musical, né il cabaret. Un esempio di questa sua capacità sono i canti che risalgono addirittura al 1400 (si veda il Secondo coro delle lavandaie), quando le donne lavavano i vestiti al fiume, cantavano e segnavano il tempo battendo gli stracci bagnati. Contemporaneamente cantavano le loro ambizioni e i loro sogni come il sogno erotico dell’essere possedute dal Re e ritroviamo la medesima natura del blues statunitense, nato dagli schiavi delle piantagioni di tabacco che cantano per sopportare la fatica.
De Simone si rifà a La gatta Cenerentola, la sesta novella della prima giornata de Lo cunto de li cunti di Gian Battista Basile, ma tiene presenti tutte le altre versioni della fiaba giunte fino a noi dalla tradizione orale campana: legate al culto della Madonna e al culto dei morti; diverse nel nome dei personaggi, ma sostanzialmente unitarie nel tessuto narrativo di questa storia. C’è il ballo e c’è un Principe; c’è l’incontro, il corteggiamento e la fuga, la frustrazione di una giovane che cerca il proprio riscatto, indossando un abito negato e visto come un mezzo per incontrare il “maschio” della sua vita. C’è un padre che crede di comandare e che è invece manipolato da una matrigna crudele e dalle sue figlie; c’è una pianta (il basilico) o un frutto (il dattero) che hanno poteri fatati; c’è la scarpa perduta da una vergine che cerca uno sposo (simbolica perdita della verginità); c’è la paura di morire e di fare l’amore anche se è proibito.
“Ho parlato – dice De Simone – usando le parole più semplici che sembrano difficili solo a chi non sa più parlare ed è anche per questo che ho usato quelle frasi ripetute da secoli in un teatro dove ci si può capire perché ieri e domani abbiamo parlato una lingua che sappiamo benissimo e che credevamo di avere dimenticato solo perché era nel trovarobato del teatro. Ed era nel trovarobato non perché non servisse più, ma perché il padrone del teatro da quando il cinema è diventato sonoro ha fatto diventare muto il teatro. […] Queste cose a dispetto di quelli che hanno paura di avere paura io le dico anche perché le so suonare e le so cantare. Ma potrei anche dirle freddamente come piacerebbe ai rappresentanti di juke box o a quelli che ripetono le sole parole delle canzoni senza conoscere i motivi”.
“L’ultimo dei … Napoletani” (di Bruno de Simone)
Il grande privilegio di essere stato artista d’opera tra i più desiderati da Roberto De Simone mi porta spontaneamente a scrivere le seguenti riflessioni sulle esperienze artistiche straordinarie maturate e realizzate con questo grande Partenopeo.
La “cognonimia” tra me ed il Maestro appartiene a quelle che si chiamerebbero coincidenze ma che, per taluni studiosi anche eminenti (Deepak Chopra), potrebbero non essere tali: l’esserci poi conosciuti per la prima volta in una città ben diversa dalla nostra di origine, Milano, rafforza vieppiù ogni aura relativa.
Le produzioni con il Maestro (così l’ho sempre chiamato) erano tanto faticose quanto arricchenti: non lasciava nulla al caso ed in lui l’analisi profonda era propedeutica ad una visione sintetica di ciò che si rappresentasse. Ricordo le lunghe sedute a tavolino di prove sulla lettura del testo e della scrittura musicale, con scelte ad hoc per l’una e per l’altra cui dava uguale valore ed importanza: lezioni della più sapiente ortoepia, anche quando si trattasse di vernacolo d’epoca barocca.
Caro il ricordo del lusinghiero complimento che mi fece quando mi disse che io ero l’unico artista napoletano capace di pronunciare perfettamente il napoletano barocco, lingua che, non a caso, ebbe la sua massima espressione nel XVIII secolo, quando Napoli era una delle massime capitali culturali d’Europa e quindi… del mondo.
A Lui dobbiamo la riscoperta di capolavori dei nostri grandi compositori di quel periodo che contribuirono enormemente alla nascita della Scuola Napoletana da cui derivò la Commedeja pe’ mmuseca che aveva avuto in Giovanni Paisiello uno dei suoi massimi esponenti: costui aveva composto ben 94 opere di cui conosciamo al massimo una decina, come d’altra parte anche di tutti gli altri compositori di quella grande scuola. Da ciò la legittima ambizione del Maestro di costituire una vera e propria Accademia dell’opera del ‘700 che purtroppo nessuno ha pensato di realizzare: trascrizioni e rappresentazioni di tanti capolavori incanalati in un progetto di studio e di recupero, che avrebbero potuto dar lavoro a tanti musicisti ed artisti.
Aversa, cittadina della Campania, ha dato i natali a Domenico Cimarosa e Niccolò Iommelli, due tra i più grandi compositori di quel ‘700: il primo, autore di una sessantina di titoli di cui ne conosciamo al massimo cinque o sei. Vien da pensare che se costoro fossero nati in altre latitudini, probabilmente si sarebbe creato da tempo un Festival a loro dedicato che avrebbe riproposto le loro numerose composizioni ben degne di un recupero filologico.



Con grande umiltà unita al comprensibile orgoglio, mi pregio di essere l’interprete più prolifico del nostro ‘700 operistico: ed è con il Maestro che ho cantato in dieci opere di cui ben sette dei nostri storici compositori, ed un’altra quindicina con altri registi.
L’eredità che ci ha lasciata è immensa: lasciarla cadere nell’oblio sarebbe un grave delitto culturale.
Memorabili erano le prove d’assieme con orchestra in cui era totalmente dedito a correggere, ove ce ne fosse bisogno, le posizioni dei personaggi affinché essi acquistassero più rilievo ed il loro canto fosse valorizzato al massimo, come pure il recitativo che con Lui acquisiva massima e legittima dignità drammaturgica: era lì che si spiegava la trama dell’opera, laddove l’aria era l’espressione di uno stato d’animo che lo seguiva in un legame indissolubile.
Ricordo che in una delle opere che stavamo realizzando, “Le cantatrici villane” di V. Fioravanti, era previsto che Don Bucefalo scendesse in buca a dirigere l’orchestra proprio nella sua aria composta da numerose indicazioni da dare alle varie sezioni e, nella fattispecie toccava a me: nella prova generale come un’anteprima, alla fine di quell’aria che chiusi con gesto toscaniniano, il Maestro mi si avvicinò e mi disse che gli avevo ricordato Totò… facile immaginare il mio tripudio per tale lusinghiero accostamento.
L’ultimo titolo cui ho avuto il privilegio di partecipare è stato “Il convitato di pietra” di Giacomo Tritto, una vera e propria versione di Don Giovanni ante litteram in cui interpretavo Pulcinella/Leporello: singolare esperienza fu quella di ricevere un grande mascheraio che potesse realizzare sul calco del mio viso la maschera.
Impossibile raccontare l’inarrestabile divertimento di questo allestimento che fu rappresentato per due anni consecutivi e che era stato opzionato da ben quattro importanti teatri europei.
La collaborazione con il Maestro con ben nove titoli fu da considerare un percorso altamente formativo, proprio per la metodologia che lui sceglieva nel riuscire a far lievitare l’opera ed i suoi personaggi: la sua grande sapienza musicale di studioso e grande ricercatore assieme al suo spiccato istinto teatrale faceva sì che noi cantanti fossimo considerati i veri discendenti di quei cantanti/attori che avevano affollato i teatri di mezzo mondo nel secolo XVIII ed oltre.
Un altro dei grandi meriti da ascrivere al Maestro è stato quello di essere stato tra i primi a far vacillare il muro di separazione tra vari generi musicali, preparando ciò che poi sarebbe avvenuto, e cioè far comprendere che nella musica non esistano compartimenti stagni, potendo convivere tra di loro generi diversi tenuti insieme dal pentagramma, pur mantenendo le loro caratteristiche e radici. L’impronta che ha lasciato La Nuova Compagnia di Canto Popolare da Lui creata è indelebile: ricerca filologica ed etnomusicologica formavano un connubio che ha prodotto grandi risultati per più di quarant’anni, stimolando processi evolutivi di ricerca inarrestabili.
Ma perché ciò si possa realizzare in toto occorrerebbe prendere esempio, sia pure tardivo, dalle consuetudini di tante nazioni in cui la musica è materia che si studia dalla prima età scolare, perché riconosciuta come altamente formativa, e non solo dal punto di vista pedagogico.
Roberto De Simone ci ha lasciati, ma i suoi insegnamenti vivono e vivranno: c’è da augurarsi che la nostra città si adoperi al massimo perché questo accada, al di là di soliti peana post mortem: ne va della nostra dignità etno-culturale. D’altronde da tempo si assiste ad incentivi a sottoprodotti culturali che non hanno alcuna veridicità di ricerca scientifica, per mancanza di competenze adeguate.
Credo che, invece di continuare a lanciare strali e inopportuni confronti con culture e costumi di altre regioni di diversa latitudine, sia da compiere ogni sforzo affinché le nostre antiche origini e matrici, sviluppatesi ed alimentate in centinaia di anni, ricomincino a risplendere, ponendo fine ad esercizi propagandastici di scarsi contenuti: che la napoletanità riprenda i suoi alti valori, quelli che l’hanno resa riconoscibile e famosa in tutto il mondo e che abbia la meglio sulla napoletanitudine imperante che è l’odioso e stantio rifarsi a stereotipi di somma superficialità simbolica, come la pizza, il mandolino e le guarrattelle… parva grecia e non Magna Grecia!
San Pietro a Majella è il nostro grande Conservatorio da dove il Maestro partì: si riparta da lì, così da poter offrire ai giovani musicisti tanto lavoro da poter fare, considerato l’alto numero di partiture inedite e mai eseguite. Sarebbe da creare un saggio collegamento tra tale struttura didattica e quella teatrale, il San Carlo, così come si è realizzato in grandi capitali europee e non: sicuramente Roberto De Simone ne sarebbe stato ben felice!
Nella sua imperitura memoria, immensamente grati per ciò che ci ha lasciato, dobbiamo far sì che ogni sforzo vada fatto ed in ogni direzione: le iniziative commemorative non possono certo essere solo di carattere… toponomastico, strumentali solo alla politica, ma devono mirare ad una stanzialità cadenzata degna di proseguire la grande lezione culturale che Lui ci ha offerta per tanti anni. E ciò riqualificherebbe la nostra cultura territoriale, rispolverando gli antichi fasti, meritevole di varcare i confini del folklore territoriale, come Lui stesso avrebbe desiderato.