“Campo di battaglia” di Gianni Amelio
di Alberto Pellegrino
12 Set 2024 - Commenti cinema
Recensione del film “Campo di battaglia” di Gianni Amelio, un atto di accusa contro la guerra, con Alessandro Borghi, Gabriel Montesi e Federica Rosellini.
Il film Campo di battaglia di Gianni Amelio non è un’opera sulla Prima Guerra Mondiale ma usa questo scenario storico per fare una riflessione su alcuni aspetti del dramma della guerra e sul modo in cui le persone cono costrette a vivere questo dramma. L’anno è 1918, quindi siamo nel momento in cui l’esercito italiano si sta riprendendo dalla disfatta di Caporetto con un misto di frustrazione e orgoglio nazionalista. Amelio non sceglie però come teatro bellico il fronte, le trincee, gli assalti alla baionetta, ma ambienta la vicenda in un ospedale militare di retrovia situato nel Friuli Venezia Giulia (molte scene sono state girate a Udine). I protagonisti sono due ufficiali medici, un capitano e un tenente, impegnati a curare i feriti gravi che arrivano dalle prime linee: vi sono i feriti “veri” e quelli che si sono procurati danni anche gravi pur di essere rispediti a casa.
I due medici sono molto diversi anzi antitetici. Il capitano è il direttore dell’ospedale e ha quindi la responsabilità di decidere quali sono i soldati guariti e quindi in grado di ritornare a combattere. È un uomo animato da un rigido patriottismo e sospettoso, che indaga con pignoleria e freddo distacco per scoprire ferite-truffa e rispedire gli autolesionisti in prima linea. Il tenente si mostra più compassionevole e di nascosto opera per peggiorare le condizioni di alcuni pazienti in modo che possano essere rimandati dalle loro famiglie.
I due ufficiali rappresentano le due anime che dividono il paese di fronte alla guerra, uno crede ciecamente nelle istituzioni, ha un atteggiamento di rigore e uno spiccato senso del dovere (“fare la guerra è un dovere” ripete spesso); è intransigente e non accetta scuse o debolezze ma anche di fronte a gravi casi morali e umani, crede nelle istituzioni e nella necessità di un atteggiamento rigoroso di fonte ai subalterni. L’altro ufficiale ricorda a volte all’altro di essersi dimenticato di essere un medico, risponde a una morale che è più alta, antepone l’umanità e i propri valori alle regole e alla logica militari, opera al di fuori degli schemi e rischia di essere scoperto anche se viene protetto dal suo amico e collega.
I due attori sono molto bravi nell’interpretare due medici veneti. Alessandro Borghi (Giulio) interpreta un personaggio moderno, complesso e pieno di sfumature; quindi, più vicino al modo di sentire contemporaneo, una persona che non crede nella guerra, a cui non interessa chi vince o chi perde, che sta solo dalla parte delle vittime. Gabriel Montesi (Stefano) è molto bravo a interpretare un personaggio fuori del tempo, che appartiene a una tipologia umana che appartiene al passato per come si muove, parla, pensa e si relaziona. È duro e inflessibile, ma anche l’abilità nel lasciar trapelare ogni tanto un’umanità nascosta sotto un senso del dovere e un nazionalismo concepibile solo all’inizio del Novecento.
Naturalmente il film è ambientato nel 1918 ma parla del presente, della concezione che si ha oggi della guerra che tra l’altro nel film non si vede mai, ma se ne avverte la tragica presenza attraverso i racconti di questi soldati malati, acciaccati, mutilati e sventrati in modi diversi dalla guerra. Vi sono poi soldati vittime di uno choc provocato da una esplosione, da un lungo cannoneggiamento, dal terrore della morte che gli infermieri e commilitoni chiamano “scemi di guerra”. A complicare le cose, improvvisamente e rapidamente si diffonde una forma grave d’infezione polmonare che molti chiamano “la Spagnola” perché sembra che il primo focolaio si sia verificato in Spagna. Sono le prime avvisaglie della grave pandemia che colpirà anche le popolazioni civili e provocherà in tutta l’Europa diversi milioni di morti, una tragedia che va ad aggiungersi al già tragico teatro di guerra.
Questa umanità ferita dagli orrori della guerra sembra perdere progressivamente i propri connotati ideologici La prima cosa che appare in modo chiaro è che una guerra non si combatte solo in trincea, ma su più fronti, quelli degli ospedali miliari, della propaganda, della censura, degli ordini impartiti dall’alto, degli esempi da dare, come nel caso della fucilazione di un ragazzo di 19 anni, accusato e condannato per disfattismo e tradimento, perché le gravi ferite agli occhi sono state classificate come autolesionismo. Un’altra cosa che colpisce riguarda l’assenza tra i degenti, in quel microcosmo di dolore e di morte, di ufficiali e sottoufficiali feriti, ma la sola presenza di soldati semplici destinati a formare un esercito proletario costituito di operai e soprattutto di contadini che parlano i loro dialetti e spesso non si capiscono nemmeno tra loro.
Nella prima parte il regista Amelio riesce a dare un’idea efficace e compatta di cosa sia la guerra vista attraverso la lente d’ingrandimento di un luogo di dolore come l’ospedale militare dai lenti e lunghi percorsi nelle corsie e tra i letti, dove soprattutto l’ufficiale più giovane diventa il testimone e il depositario di tante piccole storie personali e familiari. È questa la parte migliore del film animato dalle schermaglie dei due medici e arricchito da un aspetto sentimentale, quando appare una infermiera loro amica ed ex studentessa di medicina (Anna), che esercita un’attrazione amorosa su entrambi i due medici.
Nella seconda parte la tematica pacifista di quella precedente sembra dilatarsi e sfilacciarsi; gli scontri ideologici e i dilemmi morali che dividono i due medici si fanno meno rilevanti, anche l’arrivo di una sconosciuta epidemia sembra assorbire l’intera vicenda, mettendo in secondo piano lo scenario di guerra. Tutta l’azione viene concentrata nei sotterranei dell’ospedale militare, dove vengono stipati i malati gravi senza possibili cure e praticamente in attesa della morte con una colonna sonora segnata dai colpi di tosse e dai lamenti.
Fuori dall’ospedale, secondo una spietata logica militare, gli alti comandi ordinano di non curare i malati civili, di mantenere il più a lungo possibile il segreto sulla dilagante epidemia, di abbandonare praticamente al loro destino i militari ammalati come dimostra la lunga sequenza di camion con a bordo le bare dei soldati deceduti. Il tenente medico, coerente con i suoi ideali, cerca invano di scoprire un medicinale capace di fermare l’epidemia a costo di sacrificare la propria vita. Visti fallire tutti i suoi sforzi, muore dopo essersi iniettato il bacillo della malattia, lasciando sconvolta la giovane infermiera che l’aveva raggiunto per aiutarlo nelle sue inutili ricerche. Insieme all’ordine di prestare finalmente le cure alla popolazione civile, arriva anche la notizia della sospirata vittoria che il capitano celebre in corsia con il solito entusiasmo nazionalista, per cui anche lo spettatore stenta a tirare le conclusioni sull’intera vicenda. Nonostante quest’opera sembra fatta da due parti diverse che difficilmente comunicano tra loro, Campo di battaglia rimane un film che ha una sua dignità e un preciso valore morale: le due parti raccontano un momento di fondamentale importanza per la nostra storia nazionale e rimangono chiare le nobili finalità dell’autore, che vuole trasmettere l’idea di come la guerra sia la più terribile e insensata delle malattie, capace di provocare un naturale rigetto negli esseri umani (da qui il fenomeno dell’autolesionismo), che fa a volte precipitare i soggetti più fragili nel baratro della follia, come dimostrano i numerosi casi di malattie mentali verificatesi tra i soldati.
Da ultimo il film deve far ricordare agli spettatori come e perché la Prima guerra mondiale è stata un’immane tragedia che abbia provocato in Europa 16 milioni di vittime tra militari e civili; come e perché a causa dell’epidemia, detta “Spanola”, rapidamente diffusasi in Europa, abbiano perso la vita circa 50 milioni di persone. Per quanto riguarda l’Italia, abbiamo avuto 650 mila caduti in guerra e 600 mila militari e civili sono deceduti per la “Spagnola”, una perdita soprattutto di giovani generazioni che hanno reso lunga e difficile l’elaborazione del lutto individuale e collettivo.
Per saperne di più si possono consultare
- Anna Carla Vaccaro, Ammalò di testa, Donzelli, 2014
- Alberto Pellegrino, La Grande Guerra. Paura e diserzione violenza e follia, Lettere dalla Facoltà, Ancona, n.1, gennaio-febbraio 2015
- Maria Grazia Salonna, Gli “scemi di guerra”. I militari ricoverati al manicomio di Ancona durante la grande guerra, Affinità Elettive, 2015
- Paolo Malatesta, Prima dell’alba, Neri Pozza editore, 2017
- Alberto Pellegrino, Il primo dopoguerra e l’elaborazione del lutto collettivo, monumenti e sacrari, Musiculturaonline, 8 settembre 2018
- Marco Romano, Soldati e neuropsichiatria nell’Italia della Grande Guerra, Firenze University Press, 2020