Un “Attila” alla Scala che rivaluta il giovane Verdi


di Alberto Pellegrino

13 Dic 2018 - Commenti classica, Musica classica

La stagione scaligera si è aperta il 7 dicembre 2018 con l’esecuzione dell’opera Attila che è stata accolta con grande favore dal pubblico presente alla prima (14 minuti di applausi) e con la quasi totale approvazione da parte della critica.
Giuseppe Verdi sta attraversando gli anni della ricerca (1845/1847), quelli che chiamerà gli “anni di galera”, quando il giovane compositore cerca di inventare un suo stile personale e innovatore che sfocerà nella composizione di Giovanna d’Arco, Attila e Macbeth.
Attila va in scena con successo nel Teatro La Fenice di Venezia il 17 marzo 1846 e alla Scala il 26 dicembre 1846, riflettendo il clima politico italiano segnato dal neoguelfismo, che ha creato molte speranze di riscatto nazionale che andranno poi deluse, dando il via a una serie di eventi che porteranno alle “Cinque Giornate” di Milano e alla prima guerra d’indipendenza.
Il libretto affidato a Temistocle Solera, poi concluso da Francesco Maria Piave, risulta abbastanza fumoso e contorto, non certo all’altezza della futura drammaturgia del compositore, il quale è riuscito tuttavia a rendere credibili ed efficaci alcuni passaggi e molte parti corali del melodramma. La fonte d’ispirazione è il dramma romantico Attila, Konig du Hunnen (1808) di Friedrich Ludwig Zacharias Wener, un testo che Verdi scopre attraverso le citazioni contenute nel libro De L’Allemagne di Madame De Stael, dove Verdi troverà anche le indicazioni che lo condurranno a scoprire il Don Carlos di Schiller.
L’intricata vicenda inizia con il re degli Unni che invade l’Italia e sconfigge gli italici residenti ad Aquileia, per poi fronteggiare l’esercito romano. Verdi riesce a dare spessore ai tre personaggi che sono i protagonisti della vicenda: Attila, pur essendo un uomo primitivo e superstizioso, è un condottiero leale e un uomo d’onore; Odabella è una vergine guerriera, una specie di walkiria nazionale animata dal sentimento di vendetta per la morte del padre e decisa a mostrare il valore delle donne italiche, unica eroina verdiana capace di commettere un assassinio. Infine, c’è il generale romano Ezio che apparentemente si batte per salvare la patria e l’imperatore Valentiniano III, ma in realtà è alla ricerca del potere personale, per cui è disposto a scendere a patti con il re degli Unni (“Siede un giovane imbelle sul trono d’Occidente, tutto sarà disperso quando io mi unisco a te, avrai tu l’universo, resto l’Italia a me”; trova in Attila un uomo d’onore che rifiuta l’offerta (“Dove l’eroe più valido è traditore, spergiuro, ivi perduto è il popolo e l’aer stesso impuro”).
Nel Prologo dell’opera si narra dell’uccisione, da parte di Attila, del signore di Aquileia dinanzi alla figlia Odabella ancora bambina che, divenuta adulta, giura di vendicare la morte del padre, uccidendo il barbaro invasore.
Foresto, con Odabella, guida la lotta di resistenza contro gli Unni, ma la situazione si evolve quando il generale romano Ezio decide di scendere a patti con Attila lasciandogli campo libero in cambio del suo dominio sull’Italia. Inoltre il re degli Unni decide di arrestare la sua avanzata verso Roma, perché prima ha la visione di un vecchio a cavallo che gli sbarra la strada e gli ordina di tornare indietro, poi il suo sogno si materializza con un reale incontro con Papa Leone I.
Odabella, sempre decisa a vendicarsi, va nel campo degli Unni e finge di essere disposta a sposare il loro re (“Maledetto sarebbe l’amplesso che me sposa rendesse del re”). Durante la festa che precede le nozze, la giovane impedisce ad Attila di bere una coppa avvelenata per essere lei a uccidere il sovrano, portando a termine il suo piano di vendetta.
Nella messa in scena dell’opera ha svolto un ruolo fondamentale il M° Riccardo Chailly che ha curato ogni dettaglio dello spartito cui ha conferito un grande respiro musicale a questo Verdi ancora in cerca di una sua drammaturgia. Si è trattato di una splendida direzione sotto il profilo tecnico e contenutistico ben sorretta dall’orchestra e dal coro della Scala che hanno dato una prova di alta professionalità. Il cast degli interpreti è stato sicuramente all’altezza nei quattro ruoli principali: il basso Ildar Abrazakov è stato un Attila appassionato e affascinante, un vero dominatore della scena; Saioa Hermàndez (Obabella) ha messo in evidenza le sue straordinarie doti di soprano. Il baritono George Petean ha interpretato Ezio in modo convincente al pari di Fabio Sartori (Foresto) che è stato un tipico tenore verdiano dalla notevole estensione vocale che ha sopperito a un fisico non del tutto convincente.
Il regista David Livermore ha scelto di ambientare l’opera in un Novecento atemporale ed eclettico senza rinunciare ad alcuni riferimenti storici che vanno dalle divise degli Unni, che ricordano con i loro elmetti chiodati, i fucili e le pistole, l’esercito tedesco della prima guerra mondiale, fino alla citazione delle grandi dittature del secolo breve e della lotta partigiana. I meravigliosi costumi di Gianluca Falaschi sono caratterizzati da una post-moderna mescolanza di stili e di epoche per quanto riguarda le divise militari, gli abiti del popolo, gli sfarzosi costumi e le acconciature anni 20/40 a cominciare da Odabella con le sue camicie da notte di seta e gli abiti lustrinati. Spettacolare l’ingresso a cavallo di Attila, come l’apparizione di Papa Leone I tratta dal celebre quadro di Raffello e poi materializzata sulla scena da un elegante ed efficace tableau vivant. Ben valorizzate dalle drammatiche luci di Antonio Castro, sono apparse molto belle le scenografie di Giò Forma, che iniziano con la tragica visione di città bombardate, palazzi sventrati, ponti crollati, cumuli di macerie per annunciare un clima di violenza e di vendetta per poi concludersi con il lussuoso salone sfavillante di lampadari, dove si volge la scena finale a metà tra la festa di nozze e il banchetto-baccanale, quando sono evocate atmosfere che ricordano la Caduta degli dei di Visconti e Portiere di notte di Liliana Cavani. Il tutto reso possibile dalla eccezionale tecnologia presente sul palcoscenico della scala. Sapiente e coinvolgente l’impiego delle immagini video su grande schermo, a cura di D. Wok, con citazioni da L’armata a cavallo di Jancsò e L’infanzia di Ivan di Tarkovskij
Di grande effetto è stata l’anteprima, girata appositamente da Livermore e Paolo Gep Cucco, come citazione del cinema neorealista, nella quale si vede il padre di Odabella in fuga nei campi inseguito dagli Unni con Attila che gli spara quando è già caduto a terra dinanzi agli occhi sbarrati della figlia bambina, la quale raccoglie la bandiera tricolore impugnata dall’uomo in una scena che costituisce il precedente storico che anima lo spirito di vendetta di Odabella.
Nel commentare la sua regia Davide Livermore ha dichiarato a Repubblica che mette sempre tutta la sua passione nel mettere in scena un’opera che considera la summa di tutte le arti: “Viviamo in un periodo in cui tutti tendono a farci paura. Gli economisti parlano continuamente di recessione, degli immigrati sbraitano che si deve avere terrore. È ora di finirla. La cultura è ormai l’unico baluardo perché apre tutto a tutti. È questo il senso di fare Verdi oggi, un compositore che ha parlato sempre a tutti gli italiani, e non solo. I suoi sono valori universali, non dobbiamo perdere questa occasione per ritrovare la nostra memoria. Mi hanno sempre indignato quei politici che si vorrebbero appropriare del “Va’ pensiero” del Nabucco, come se fosse un inno padano o di una sola parte. È aberrante utilizzare la sua musica per questi biechi interessi. Verdi è di tutti, ha contribuito a creare l’identità dell’Italia, senza mai fare sconti, nel bene e nel male. È stato lo specchio in cui il nostro Paese ha visto se stesso…In questo sta la sua grandezza”.

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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