Pathos in “Memorie di Adriano” con Sergio Leone per il TAU ad Urbisaglia


di Flavia Orsati

11 Ago 2020 - Commenti teatro

Nell’anfiteatro romano di Urbisaglia, la lettura teatrale del testo della Yourcenar Memorie di Adriano con la voce potente di Sergio Leone, su regia e adattamento di Antonio Mingarelli.

Piccola anima smarrita e soave,

compagna e ospite del corpo, ora

t’appresti a scendere in luoghi

incolori, ardui e spogli, ove non avrai

più gli svaghi consueti. Un istante

ancora, guardiamo insieme le rive

familiari, le cose che certamente non

vedremo mai più… Cerchiamo

d’entrare nella morte a occhi aperti…

Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar, testo pubblicato per la prima volta nel 1951 che trova genesi ideale tra 1924 e 1929, è una struggente epistola, o monologo lirico, indirizzato dall’ormai malato imperatore Adriano a Marco Aurelio, suo successore alla porpora ed erede spirituale. L’8 agosto 2020, per la rassegna TAU – Teatri Antichi Uniti, è andata in scena, presso l’anfiteatro romano di Urbisaglia, la lettura teatrale del testo della Yourcenar di Sergio Leone, su regia e adattamento di Antonio Mingarelli.

Adriano, imperatore romano del Saeculum Aureum, tiene le redini dell’Impero dal 117 (anno della morte di Traiano, che lo adotta) al 138. Prossimo alla morte, egli racconta – e si racconta – senza filtri o sovrastrutture concettuali tutte le vicende e le vicissitudini inerenti la sua vita, privata e pubblica, tra viaggi e giovinezza, amore e conquiste militari, potere e amara consapevolezza del tramonto, in una vera e propria archeologia dell’interiorità, consapevole che “la verità che mi propongo di esporre qui non è particolarmente scandalosa, o meglio non lo è se non nella misura in cui non c’è verità che non susciti scandalo”. Il destinatario di questo testamento spirituale, che si fa confessione e bilancio al tempo stesso, è il successore Marco Aurelio, allora diciassettenne, passato alla storia con l’appellativo di “imperatore filosofo”, adottato per realizzare il sogno platonico, come estrema opera di cura nei confronti di Roma e del popolo romano: portare un filosofo al potere.

Il II secolo dC è un’epoca di relativa prosperità, di stabilità dei confini e di sviluppo economico e culturale, ma che prepara agli sconvolgimenti futuri che sconquasseranno il corpo, ormai maturo, dell’Impero Romano, tramite l’avvento del Cristianesimo e le successive invasioni barbariche, “inverno dello spirito” che, profeticamente, Adriano sente arrivare, nonostante l’immensa maestosità di quella che allora era chiamata Pax Romana. Destinato a governare un Impero non alla fine, ma all’inizio della decadenza, della quale, nei fasti e nello splendore, avverte i segni impercettibili, il suo tormento esistenziale, a cui la potente voce di Sergio Leone dà corpo, è quello di ogni uomo di qualsiasi epoca, che si sia posto, anche solo per un attimo, il problema di accordare felicità e dovere, volontà e fato, in una successione di struggenti ed accorate riflessioni, di matrice stoica, sulla condizione umana, sugli intrighi di potere, sull’amore, sulla libertà. La confessione di Adriano, amara quanto lucida, si innesta sulla consapevolezza che il crepuscolo di Roma arriverà ineluttabilmente e che l’unica cosa che si può proporre un imperatore è di ritardarlo.

La lunga epistola, che si fa man mano monologo interiore, parte dal momento in cui, in Adriano, cessa l’accordo con il proprio corpo: soffrendo di un’idropisia al cuore, egli è consapevole che la sua morte, quella realtà in giovinezza tanto pallida e lontana, si avvicina sempre più. La voce narrante e carica di pathos di Sergio Leone ripercorre pedissequamente i momenti salienti del magnifico testo della Yourcenar: uomo colto, assetato di conoscenza ma non avulso dalla praxis, spirito inquieto, amante della cultura ma stregato dal fascino del suo lato più oscuro, crudele e misterioso, “multiforme per calcolo”, “incostante per gioco”, l’imperatore sfoglia con la memoria i momenti salienti della sua vita e la lettera, pretesto per informare Marco del procedere della sua malattia, diviene mezzo per scandagliare la propria interiorità, non scevra dai vizi e dalle crudeltà che attanagliano l’umanità intera.

Adriano vuole, agogna il potere in nome della propria libertà, per imporre i suoi piani e i suoi rimedi, per instaurare la pace. Insieme all’amore era questo il suo pensiero fisso. Si prodiga per portare e mantenere la pace nell’Impero, consolidando i confini germanici e orientali, rinunciando ad annessioni troppo pericolose e cercando di migliorare le generali condizioni dei sudditi imperiali, di qualsiasi sesso e classe sociale, instillando in loro il sogno della grandezza e della dignità di Roma. “Chi ama il bello finisce per trovarne ovunque”: il Bello, in Adriano, diviene un ideale, tanto che egli arriva a sentirsi “responsabile della bellezza del mondo”.

L’imperator, nella ricerca della bellezza e della libertà come obiettivo ultimo della sua esistenza, confessa la sua volontà di consacrare la sua vita al prodigio dell’amore, punto ove segreto e sacro si incontrano, “gioco misterioso che va dall’amore di un corpo all’amore di un essere umano”, con una teoria della conoscenza non solamente intellettuale, ma che si basi sul contatto, sull’Eros:

“A volte, ho sognato di elaborare un sistema di conoscenza umana basata sull’erotica: una teoria del contatto, nella quale il mistero e la dignità altrui consisterebbero appunto nell’offrire al nostro Io questo punto di riferimento d’un mondo diverso. In questa filosofia, la voluttà rappresenterebbe una forma più completa, ma anche più caratterizzata dei contatti con l’Altro, una tecnica in più messa al servizio della conoscenza del non Io. Anche nei rapporti più alieni dai sensi, l’emozione sorge o si attua proprio nel contatto: la mano ripugnante di quella vecchia che mi sottopone una supplica, la fronte madida di mio padre nei suoi ultimi istanti, la piaga detersa di un ferito, persino i rapporti più intellettuali e più anodini si istituiscono attraverso questo sistema di segnali del corpo”.

Uno dei fulcri tematici del testo (e dello spettacolo), chiave di volta della vita di Adriano, è infatti proprio l’amore, e poi la morte, di Antinoo, giovane conosciuto in Bitinia di cui si innamora a prima vista, simile ad un dio in quanto a bellezza e compiutezza formale. La morte di Antinoo per annegamento, suicidio o sacrificio votivo, pone fine a quella che, per lui, fu l’età dell’oro, dell’amore e del potere: “Fu uno dei momenti supremi della mia vita. Non vi mancò nulla, né la frangia dorata d’una nube, né le aquile, né il coppiere dell’immortalità”. A partire da quel giorno, tutto intorno all’imperatore pare spegnersi, il mondo, pieno di forza e bellezza, sembra collassare, crollare su se stesso, preludio al fisiologico invecchiamento del corpo che, da servo fedele della mente, strumento di piacere e di lavoro, diventa un fardello da sopportare, in un mondo dove la sparizione dell’oggetto d’amore ha lasciato un vuoto non colmabile. L’ansia di sfuggire alla morte, per la prima volta toccata davvero con mano, lo porta a imprimere sulla terra una traccia indelebile dell’amato, divinizzandolo tramite l’istituzione di un culto in suo onore e la fondazione della città di Antinopoli.

Altro scopo della vita mortale di Adriano si rivela essere il raggiungimento del potere, non per governare gli altri, ma per realizzare la propria interiorità, per diventare chi egli era destinato ad essere, “per essere interamente me stesso, prima di morire”. Questo sentore di eternità nell’immanenza, quel celebrare il proprio corpo come il più perfetto dei templi, il considerare la vita divina proprio perché umana e mortale (“Ero dio, semplicemente, perché ero uomo”), cede il passo ad una più matura consapevolezza in Oriente, terra dei prodigi e delle rivelazioni. Adriano, all’inizio del principato, rifiuta i titoli bellici e quello di Pater Patriae, considerandosi “un Ulisse senz’altra Itaca che quella interiore”, ma scoprendo, a contatto con i giochi del potere, la sua sete, il non essere avulso dalla crudeltà e, in fondo, la sua necessità per regnare. Ma poi, la consapevolezza si fa più amara: cercando di aderire al divino sotto molte forme, accetta il titolo di Pater Patriae, considerando la sua felicità l’equo compenso per aver governato l’Impero, avervi mantenuto la pace ed operato per farlo prosperare. Una volta tornato a Roma, dopo la tragica vicenda amorosa, le preoccupazioni erano due: una strettamente personale e una pubblica, cioè la difficile scelta del successore. Adotta prima l’amico Lucio, che muore anzi tempo, volgendo così la sua scelta sul cinquantenne Antonino (che, per la sua bontà, qualità ravvisata da Adriano, passerà alla storia come Antonino Pio), con la promessa di accettare a sua volta come successore quello che è il diciassettenne destinatario del testamento spirituale: Annio Vero, che prenderà la porpora con il nome di Marco Aurelio. Dopo la nomina, Adriano si ritira a Tivoli, sentendosi che i suoi doveri pubblici erano ormai compiuti e che il suo retaggio era al sicuro. Commiato lucido e romantico, velato di nostalgia, dalla propria vita e dalla propria giovinezza, ma senza rimpianti, che guarda in faccia la morte con libertà, cercando di entrare in essa ad occhi aperti, come ultimo e supremo atto di conoscenza.