“Parlare d’arte al Pigneto”, il documentario di Jo Amodio presentato a Roma


di Francesco Pascali

13 Apr 2019 - Commenti cinema

Presentato, il 9 aprile, il documentario Parlare d’arte al Pigneto al Nuovo Cinema Aquila di Roma. Il regista Jo Amodio ci racconta la vera anima di uno dei luoghi più discussi della Capitale.

Il Pigneto è un quartiere situato nel quadrante est della Capitale, su cui si è detto e scritto di tutto. Sembra essere caratterizzato da problemi irrisolvibili, che si aggiungono al degrado, allo stato di abbandono e alla fastidiosa movida (con postumi acclusi). A detta di molti, è un luogo dai forti contrasti: basti pensare che la stessa strada pedonale frequentata di notte dalla clientela dei locali, di mattina ospita un variopinto mercato! Ma la cittadinanza di questo quartiere è davvero variegata: vi abitano attori, cantanti, compositori, fotografi, illustratori, performers, pittori, poeti, registi e scrittori.

Con l’obiettivo di restituire al pubblico l’immagine più autentica di un luogo realmente impregnato di cultura, il regista italo americano Jo Amodio ha realizzato il documentario Parlare d’arte al Pigneto, presentato il 9 aprile, in anteprima, presso il Nuovo Cinema Aquila di Roma. “Sono convinto – afferma il regista – che la felicità e la speranza di cambiamento socio-culturale, abitino nell’arte”. Queste parole sembrano fare da vero motore narrativo alle interviste che compongono gli 80 minuti del documentario: Mokodu Fall, Rino Bianchi, Michela Lambriola, Pino Borselli, Laura Scarpa, Enrico Astolfi sono solo alcuni degli artisti che si raccontano di fronte alla camera di Amodio, illustrando come lo spirito del quartiere e l’aria che lì si respira abbiano in qualche modo influenzato il loro percorso artistico.

Rivolgo alcune domande al regista Jo Amodio, partendo dalle motivazioni che l’hanno spinto a realizzare questo progetto, per arrivare al suo personale rapporto con il Pigneto, dove ovviamente risiede.

Il regista Jo Amodio

Come nasce l’idea di Parlare d’arte al Pigneto?

Parlare d’arte è un progetto che parte da lontano, nello spazio e nel tempo: in Mozambico nel 2003. Mi trovavo lì per lavoro e ho potuto conoscere in un posto chiamato “Nucleo d’arte” alcuni artisti: mi è balenata l’idea di far loro delle interviste. Ne è nato un mediometraggio di venti minuti che ho intitolato Parlare d’arte in Mozambico. Sono trascorsi alcuni anni, durante i quali mi sono dovuto dedicare ad altri progetti, poi nel 2012 ho deciso di realizzare Parlare d’arte al Pigneto. In questo quartiere incontro 17 artisti: pittori, scultori, registi di cinema e di teatro, scrittori… mi aprono le loro porte, mi fanno entrare nei loro studi, mi fanno conoscere la loro arte. In questo modo riesco a farmi raccontare come vivono il Pigneto e quanto questo quartiere li abbia influenzati nella loro produzione artistica. Sono grato al Nuovo Cinema Aquila che ci ha dato la possibilità di proiettare stasera il documentario, all’interno della rassegna Spazio Open e corredare l’evento con l’esposizione di una piccola parte delle opere di alcuni dei pittori che hanno partecipato al documentario e di altri artisti che si sono aggiunti, pur non essendo presenti nel film. L’idea era proprio questa: ampliare le possibilità degli artisti del Pigneto, affinché il quartiere non venga percepito esclusivamente come luogo di degrado e completo abbandono”.

Come definiresti il Pigneto?

“Il Pigneto è un paese nel Paese. È un’isola felice. È un blues, se la si vuole mettere in termini musicali. È il quartiere con il più alto tasso di artisti in Europa (tanto che è stato accostato al celebre Greenwich Village newyorkese, ndr), ma che purtroppo non sempre vengono presi in considerazione per quello che valgono. È un quartiere in cui c’è davvero di tutto”.

C’è qualcosa che accomuna tutti gli artisti del Pigneto?

“Non c’è un elemento che accomuna tutti gli artisti e non si può parlare di una “scuola del Pigneto”. Ogni artista ha un proprio stile personale; ognuno fa la sua arte e resta indipendente. In questo documentario, solo per una coincidenza, si sono ritrovati tutti, nei loro molteplici linguaggi. Non c’è nessuna associazione di artisti: potrebbe (perché no?), anche nascere e forse sarebbe auspicabile. Ma il punto di forza resta senz’altro la varietà”.

Il Pigneto è un quartiere molto “cinematografico”. Questo aspetto influenza il tuo modo di fare cinema?

“Io abito in Via Montecuccoli, proprio nel portone di Anna Magnani in Roma Città Aperta: mi affaccio dalla finestra e vedo i tedeschi che mettono al muro le persone, la Magnani che corre, urlando “Francesco, Francesco!”, e poi viene uccisa… Rossellini mi ha decisamente plasmato, anche nella scelta del mio luogo di residenza. I luoghi cinematografici del Pigneto sono molti: uno per tutti, via Fanfulla da Lodi e il baretto dell’Accattone di Pasolini. Come buona parte di Roma, è un set a cielo aperto!”

Rubo qualche parola anche al Maestro Andrea Alberti, autore delle musiche del documentario, che, per citare Amodio, “con le sue melodie ha regalato la magia che manca alla realtà, alle immagini registrate nel documentario”. Mi racconta della sua esperienza con l’Orchestra Mediterranea, primo a fondarla nel 1992, e della sua forte passione per il jazz mediterraneo. Poi passa a parlare del suo quartiere: “Vivo al Pigneto da 22 anni. Negli ultimi quindici anni sono arrivati davvero moltissimi artisti: tutti i giorni si ha quindi il privilegio di avere a che fare con gente particolare che, forte di un personale bagaglio di esperienze, sa rivelarsi attraverso la propria creatività. Ci si trova sempre a discutere di arte, di musica e magari nascono collaborazioni…bello, no? Qui c’è veramente un po’ di tutto. Il documentario sa raccontare bene questa varietà artistica. Era proprio quello che ci voleva perché è bello che ci siano le persone più disparate: gli artisti del Pigneto vivono e lavorano qui e magari riescono a portare le proprie creazioni nel resto del mondo”.

Anche il compositore Gerardo Casiello, uno dei 17 artisti che compaiono nel documentario, mi regala alcune importanti riflessioni, marcando il suo rapporto con il quartiere, dove vive dal 1995, quando era ancora uno studente universitario: “Il quartiere presentava prezzi modici perché nessuno ci voleva andare ad abitare. C’erano due punti di riferimento: il bar, all’inizio dell’isola pedonale, e una trattoria. Erano luoghi di aggregazione attraverso i quali si creavano delle connessioni e degli incontri importanti (Andrea Alberti, Rodolfo Maltese, Daniele Silvestri…): si respirava un’atmosfera un po’ “bohemien”, di parigina memoria. Il Pigneto è per me una grossa famiglia, sempre più allargata. Per quel che riguarda il mio contributo, da musicista, compositore e autore di canzoni, ho voluto cantare il quartiere: tante storie delle mie canzoni sono nate proprio al bar, la mattina, mentre leggevo il giornale o guardavo la gente passeggiare per il mercato dell’isola pedonale: il vocio, le storie che si incrociano, le persone più disparate (sia agiate, sia disagiate). Per il mio percorso artistico vivere al Pigneto ha significato molto. Mi piace evidenziare l’apertura, il confronto e l’interazione tra persone, perché lo scambio che si realizza in questo luogo è la linfa vitale di un pensiero artistico, in controtendenza con la chiusura e la rabbia che caratterizzano il nostro presente”.

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