Nostra intervista a Gregorio Nardi, pianista e non solo


a cura di Vincenzo Pasquali

25 Mag 2020 - Commenti classica, Musica classica

Abbiamo intervistato il fiorentino Gregorio Nardi, pianista, esecutore, studioso, scrittore, critico, ultimo allievo di Wilhelm Kempff.

Gregorio Nardi è pianista, esecutore, studioso, scrittore e critico. Gregorio è nato da una famiglia di artisti e di scrittori. Vive e lavora nello studio fiorentino che fu del nonno materno Piero Bargellini, che ora è divenuto Casa della Memoria ed è stabilmente aperto al pubblico. È stato l’ultimo allievo di Wilhelm Kempff.

La sua carriera ha preso avvio dai premi ottenuti ai concorsi internazionali Artur Rubinstein (Tel Aviv 1983) e Franz Liszt (Utrecht 1986), portandolo a suonare in quattro continenti.

Nel 2015 ha vinto il Fiorino d’Argento per il suo libro Con Liszt a Firenze (LoGisma editore). Abbiamo rivolto all’artista alcune domande.

INTERVISTA

D. Buongiorno Gregorio Nardi. Ho notato che suoni spesso e volentieri in concerto la musica pianistica di Wagner e che l’hai registrata per la Limen. Ma quel che più mi ha sorpreso è di leggere che per te non si tratta di una curiosità, bensì di parte fondamentale del repertorio.

R. Già; e non perché io sia un wagneriano fanatico, ma per un’osservazione oggettiva: nella seconda metà dell’Ottocento, dopo la morte di Mendelssohn e di Schumann, i compositori tedeschi che hanno scritto per pianoforte in modo veramente originale sono solo due: Brahms e Wagner. Anzi, dovrei invertire l’ordine, visto che Wagner era di vent’anni più anziano.

D. Eppure ci sono tanti altri affascinanti compositori tedeschi in quel periodo.

R. Tantissimi; e tra i più geniali. Qualcuno trova persino esagerata la mia passione per Bruckner, per Hugo Wolf, per i meravigliosi Lieder di Robert Franz. Ma il pianoforte? Certo, posso trovare uno struggente, breve poema pianistico di Reinecke; ed è sempre una gioia suonare l’Impromptu di Lachner dedicato a Clara Schumann. I brani di Hans Huber, svizzero tedesco, sono di ambiziosa complessità. Potrei andare avanti a nominare Taubert e Bruch … ma, insomma, la massa della produzione annovera centinaia di brevi pezzi tutti uguali, e di sonate convenzionali, e di variazioni impersonali. Sono tutti autori straordinariamente produttivi; e ognuno di loro è presente nei miei programmi con almeno una composizione che mi ha incantato; ma ce n’è uno di loro del quale vorrei interpretare un secondo pezzo? Non direi proprio.

D. Perché pensi che si fosse venuta a creare una simile situazione?

R. Credo che fosse molto forte la necessità di riconoscersi in una civiltà musicale. Un po’ come per l’opera in Italia: ogni influenza estranea era vista con sospetto. Lo stesso era avvenuto in Francia: un po’ di contrappunto, orchestrazione solida, quadratura del fraseggio, ed ecco che Saint-Saëns e Dukas venivano bollati di tedeschi. La produzione pianistica in Germania ha proseguito sulla via indicata da Mendelssohn e Schumann: bellissima – ma sono tutti epigoni un poco spaventati da qualsiasi sviluppo. Finiscono per perdere lo slancio innovatore dei loro modelli. Sto parlando dei Goetz, e Goldmark, e Volkmann, e Rheinberger. L’influsso lisztiano invece è raro. Si fatica a riconoscerlo persino nelle creazioni degli autori che gli furono vicini. Che c’è di Lisztiano in Alexander Ritter o in Hans von Bronsart? Cosa, nel pianoforte salottiero di Raff? Persino la Sonata quasi Fantasia di Draesecke, da molti indicata come brano tra i più lisztiani che esistano … certo, lo è nella capricciosa struttura; ma di sicuro non nella scrittura pianistica, che non reggerebbe il confronto—non dico con quella di Schumann, ma nemmeno coi raffinatissimi procedimenti di Mendelssohn.

D. E invece cos’ha fatto Wagner?

R. I brani pianistici di Wagner furono composti molto presto; e, per il loro tempo, sono avveniristici. C’è un pezzo che tra noi pianisti è piuttosto famoso, un’Elegie fatta di poche sfuggenti armonie, impossibile dire se dolce oppure dolorosa. Nel 1973 Luchino Visconti la volle per il suo Ludwig, a raffigurare l’enigmatica melancolia degli ultimi giorni del re bavarese, morto nel 1886. E difatti, all’epoca del film si credeva fosse l’estrema, finale intuizione del vecchio Wagner, non lontana da quella data. Ma no! è una pagina profetica, del 1859, poco dopo la morte di Schumann! Non esiste niente di simile nel repertorio pianistico. Un altro brano che ha avuto qualche successo anche presso importanti interpreti è intitolato Ankunft bei den schwarzen Schwänen, che in italiano si può rendere più o meno con L’arrivo presso i cigni neri. Se ne riconosce immediatamente l’ispirazione simbolista; e questo è importante ma in fondo normale visto che è del 1861: Les Fleurs du mal di Baudelaire erano stati pubblicati quattro anni prima, e Wagner lo aveva appena conosciuto. Eppure, a guardare bene, è in anticipo di dieci, quindici anni sugli sviluppi pittorici del simbolismo – penso a Gustave Moreau e a Odilon Redon. In questo senso, l’ultimo brano pianistico, l’Albumblatt del 1875, mostra l’influsso di certo neo-rococò che in pittura esisteva da un quarto di secolo almeno. In musica, invece, lo si sviluppava solo allora: penso per esempio, alle tante trascrizioni dalle opere di Gluck realizzate negli anni Settanta da Sgambati, da Bülow, da Brahms. E quella di Saint-Saëns, che è addirittura del 1867. Sono però tutti pezzi molto densi: rococò nell’intenzione, forse, sicuramente non nei mezzi. E invece, ascolta con che levità, con che grazia Wagner conduce il suo contrappunto. È un piccolo miracoloso gioiello, come forse solo Richard Strauss avrebbe potuto immaginare: ma sessant’anni dopo, all’epoca della sua ultima opera, Capriccio.

D. Immagino che ci sia invece un grande mutamento con la produzione pianistica di Brahms; che, come dicevi, è molto più giovane di Wagner.

R. Con Brahms non si può mai essere schematici: è un tale gigante, ogni suo passo è una sorpresa. Schumann era ancora vivo e lui già aveva creato un mondo tutto nuovo: con le Variazioni op. 9, e le Ballate op. 10, e le Variazioni op. 21. Brahms è un gigante del pianoforte, non è possibile un paragone di qualità pianistica con Wagner; che si affidava solo occasionalmente alla tastiera. Dico, però, che mentre Brahms componeva le monumentali Variazioni su temi di Haendel e di Paganini, all’inizio degli anni Sessanta, Wagner stava già lavorando con minime cellule tematiche e mutazioni strutturali impercettibili, con una finezza che Brahms svilupperà pienamente solo molto più tardi, negli ultimi quattro cicli pianistici che sono del 1892 e 1893, dieci anni dopo la morte di Wagner.

D. Hai suonato e registrato anche molte trascrizioni dalle opere di Wagner.

R. Ma non le più celebri; e non perché io voglia per forza cercare qualcosa di sconosciuto. È che, di solito, le trascrizioni da Wagner cercano di competere con l’intensità dell’originale. L’effetto è di immenso virtuosismo, certo. Eppure l’irresistibile suggestione dell’orchestra è perduta. Hai presente il guizzare dei lampi e le Valchirie che attraversano il cielo; e la voce di Isolde sul fragore dell’oceano; e l’oscurità rovinosa e le lingue di fiamma che ammantano il corteo funebre di Sigfrido … Al pianoforte vedi le mani agitarsi sui tasti ma il risultato non è altrettanto gradevole. Tutta la ricchezza timbrica è perduta.

D. E allora, che cosa hai deciso di fare? Non mi pare che le tue scelte manchino di varietà timbrica.

R. Perché ho scelto di prediligere versioni così pienamente pianistiche che, se non conoscessimo l’originale, potremmo immaginarci fossero state scritte proprio per il mio strumento. Non per appariscenza virtuosistica; anzi, al contrario: perché rendono un aspetto lirico, intimo che a volta i cantanti perdono. Che è poi lo stesso che riconosco quando leggo al pianoforte una partitura di Wagner. E allora, ecco il duetto d’amore di Tristan e Isolde, che Alfred Jaëll, musicista triestino, riveste di armonie che somigliano a Cesar Franck; e la preghiera di Elizabeth condotta da Godowsky in un labirinto polifonico di insolite trepidazioni; e il sogno di Elsa: che, privato della parola nella trascrizione di Liszt, non è solo racconto di una visione ma, anzi, torna pienamente a essere un’esperienza onirica alla quale anche noi partecipiamo. Vedi, è strano: autori come Tausig o Jaëll o Klindworth non hanno mai mostrato di saper sviluppare una scrittura pianistica originale; proprio come gli altri tedeschi di cui ti dicevo prima. Eppure, trascrivendo Wagner ci sono riusciti: hanno trovato l’ispirazione, la libertà necessaria per la loro fantasia.

D. Dimmi, per concludere: hai detto che non sei un fanatico di Wagner. Ma, a parte il pianoforte, lo ascolti volentieri? Ci vai a teatro a sentire le sue opere?

R. Mah, la mia idea di “piacevole serata” non è propriamente quella di una comoda sistemazione in poltrona ad ascoltare tutto Il Crepuscolo degli Dei diretto pur mirabilmente da Clemens Krauss. Però, però … la voglia di godermi la scena finale vissuta da Furtwängler a Milano, o un atto del Parsifal trasfigurato da Knappertsbusch, mi capita più spesso di quanto mai vorrei confessare. Dovrei definirmi «un fruitore ingenuo e occasionale» del magico universo di Wagner. Più che andare a teatro, mi piace porre quelle monumentali partiture sul leggio e figurarmi i timbri incantati dell’orchestra e le voci dei massimi interpreti. È un piccolo miracolo: ogni parte di soprano si colora del timbro di Erna Sack; i tenori hanno il genio di Lauritz Melchior; e Wotan e Hans Sachs sono caustici e dolenti quanto lo era Lee Wolovsky. Sono rappresentazioni minute, confidenziali, messe in scena per la mia sola soddisfazione.

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