“Lettere ad una giovane fanciulla sull’arte di suonare il pianoforte” di Carl Czerny


di Andrea Zepponi

2 Gen 2019 - Libri

Quanto la civiltà della cultura musicale, intesa come formazione della persona, incidesse nel bel secolo romantico e borghese sulle generazioni di giovani pianisti, in particolare di signorine in procinto di debuttare in società con le loro doti musicali – concertini nei ritrovi di società, esibizioni domestiche tra amici, momenti conviviali con esecuzioni dilettantesche, se non veri e propri concerti – ci è noto da una serie infinita di documenti, trattati, raccolte di studi e composizioni destinate all’uso didattico e al fine apodittico di accreditare la efficacia della tecnica pianistica di un insegnante rivolta sia al dilettante sia al professionista. A corroborare il panorama di conoscenze su questa civiltà – ormai remota, regalata nelle nicchie degli “addetti ai lavori”, nostalgicamente vagheggiata? oppure ancora presente e viva in un mondo dove ancora nulla può sostituirsi ad essa e ai suoi valori? – contribuisce la raccolta di Lettere ad una giovane fanciulla sull’arte di suonare il pianoforte di Carl Czerny (1771-1858) edita da Pardes Edizioni, Bologna 2006 nella serie Laboratorio e tradotte in italiano per la prima volta a cura di Maria Chiara Mazzi, docente di Storia della Musica al Conservatorio di Pesaro, studiosa, tra l’altro, di storia musicale locale e con al suo attivo varie rassegne musicali per il Teatro Rossini di Pesaro e per il Comune di Bologna, e a cura della musicologa Margherita Pierantoni. Czerny sta all’evoluzione del linguaggio pianistico internazionale come Manzoni sta all’evoluzione del linguaggio letterario italiano: una equazione che può sembrare ardita ma anche stimolante. “Alzi la mano chi, avendo appoggiato anche per pochi mesi le mani sulla tastiera del pianoforte, non si sia scontrato con questo autore”, chiedono le curatrici nella presentazione di questa deliziosa raccolta di dieci lettere – quasi un decalogo pianistico – precedute da un’introduzione dello stesso autore con chiaro intento programmatico che si legge tutta d’un fiato soprattutto quando si appartiene proprio a quella schiera di strenui frequentatori della tastiera. Che si tratta però di una lettura non destinata solo a “specialisti” lo suggerisce la stessa presentazione che fa apprezzare la vivacità del tono didattico declinato in senso confidenziale verso una schiera di dilettanti – in gran parte di sesso femminile – per i quali la pratica al pianoforte era un obbligatorio complemento educativo che poteva anche sfociare in una carriera professionale; ma le Letters to a young lady, on the art of playing the pianoforte from the Earliest Rudiments to the Highest State of Cultivation (1837), ora finalmente tradotte in italiano, sono in realtà una specola privilegiata su quel momento storico culturale di primo ‘800 in cui la musica comincia a godere di un “rispetto senza precedenti, perché si scopre in grado di esprimere la ricchezza delle emozioni umane”. Una piccola macchina del tempo che restituisce preziosi momenti estetici in cui la prescritta eleganza nel gestire anche una breve esecuzione, seppur dilettantesca, al pianoforte, gli innumerevoli consigli, accorgimenti ed osservazioni su come accentrare su di sé l’attenzione degli spettatori diventano anche mezzi e strumenti per ottenere quel tratto nobilitante tanto ricercato dalla rampante borghesia in ascesa e desiderosa di rivalsa su una aristocrazia in ribasso dopo il cambio della società e della cultura operato da ben due rivoluzioni: quella americana e quella francese. La discorsività di questo agile testo ci mostra Carl Czerny come un didatta dal “volto umano” che dismette il tono arcigno del maestro inflessibile, allievo pur sempre di Beethoven e maestro di Liszt, quasi strizza l’occhio alla signorina Cecilia ( interlocutrice omonima della patrona della musica) e spinge il lettore odierno, se desidera ripercorrere alcune orme di quella civiltà musicale, a riconoscere come i meccanismi psicologici di chi si siede allo strumento per imparare a gestire il linguaggio musicale, a tutte le l’età, sono esattamente gli stessi di quelli di inizio Ottocento e non sono affatto cambiati.

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