La figura di Don Giovanni


di Alberto Pellegrino

2 Mar 2009 - Approfondimenti cinema, Approfondimenti classica, Approfondimenti teatro

Don Giovanni di Losey Musiculturaonline1. Introduzione
Il mito di Don Giovanni è tra i più popolari e prolifici dell’età moderna, …

Il mito di Don Giovanni è tra i più popolari e prolifici dell’età moderna, se si pensa che questo personaggio è stato il soggetto di oltre cinquecento fra commedie, tragedie, canovacci della Commedia dell’arte, drammi musicali, opere liriche, film, poemi, racconti e romanzi, tanto da costituire uno degli elementi fondamentali del nostro immaginario storico-letterario. Questo nome è entrato anche nel nostro linguaggio quotidiano, dato che nei dizionari il termine dongiovanni viene usato per definire un “seduttore di donne, corteggiatore irresistibile”, oppure (in senso ironico) “chi si atteggia a grande corteggiatore di donne, spessa con scarsa fortuna”. Nel linguaggio corrente l’espressione “Don Giovanni” non viene di solito impiegata per indicare un giovane amante, ma un uomo di mezza età che continua a riscuotere un certo credito presso il mondo femminile e può vantare la sua fortuna come “conquistatore; oppure un anziano signore che, nonostante abbia i capelli tinti e si sia servito del lifting per nascondere un fisico in decadenza, s’illuda ancora di piacere alle donne, magari rifugiandosi dietro una ricercata eleganza, l’esibizione della ricchezza, l’ostentazione del potere.
Nella narrativa e nelle letteratura teatrale contemporanea Don Giovanni non incarna più la figura dell’eroe negativo, ancora giovane, dotati di astuzia e portatore di una lucida morale “laica”, ma diventa il rappresentante di una società corrotta e invecchiata, all’interno della quale egli è condannato a finire i suoi giorni nella più squallida solitudine, che opera per vendicarsi di una società ipocrita e immorale, della quale però egli stesso è parte integrante, nonostante cerchi ancora di sedurre donne giovani o mature. Inoltre il personaggio, proprio perché ha perduto parte del suo fascino sotto il profilo letterario, finisce per caricarsi di significati satirici, sociologici e antropologici particolare, oppure assume addirittura aspetti caricaturali nelle vignette satiriche (si pensi al Bellissimo Cecé nella serie del Signor Bonaventura di Sergio Tofano, il Gagà di Attalo sul Marc’Aurelio, il Gastone di Petrolini), negli sketch, nelle canzoni o nell’operetta.

2. Don Giovanni oggetto di innumerevoli studi
La popolarità della figura di Don Giovanni al di fuori del mondo artistico – letterario.

Al di fuori del mondo artistico – letterario, la popolarità della figura di Don Giovanni, fin dal Medioevo, ha richiamato l’attenzione e provocato le fantasie più diverse da parte di coloro che erano attratti da questo personaggio, il quale affonda secondo alcuni le sue radici nella cultura giudaico-cristiana che ha sempre messo in primo piano (fin dalla Genesi) il problema del bene e del male, dello stato di peccato destinato a corrompere una originale condizione di innocenza…questa visione della condizione umana ha dato inizio, soprattutto nell’Occidente, a una storia attraversata e segnata dalla paura della condanna, della dannazione, dell’espiazione con la presenza di un Dio concepito come un Giudice inflessibile e minaccioso che, oltre a porre dei limiti agli impulsi verso il piacere, impone un’etica del sacrificio, della rinuncia e della penitenza. Soltanto a partire dall’età moderna, la figura di Don Giovanni finisce per rappresentare nell’immaginario collettivo l’opposizione alle leggi sociali e morali della società occidentale in una specie di rivolta in cui si rivendicano i diritti del corpo e del libero appagamento dei desideri sessuali, la liberazione dai vincoli e dai sensi di colpa.
Sono molti i pensatori e gli studiosi che hanno fermato la loro attenzione su Don Giovanni per cercare di chiarire le caratteristiche più profonde di questo personaggio. Sorensen Kierkegaard, sulla scia di quanto aveva fatto alcuni anni prima il drammaturgo Christian Dietrich Grabbe di cui ci occuperemo più avanti, paragona Don Giovanni a Faust, sostenendo che, mentre il primo cerca nella donna la ragione stessa dell’esistenza, il secondo cerca l’assoluto nella vita stessa e nel mito della giovinezza. Il filosofo danese sostiene che “c’è dell’angoscia nella vita di Don Giovanni. C’è dell’angoscia in lui, ma quest’angoscia è la sua energia, è il proprio demoniaco desiderio di vivere”, per cui questo personaggio è come se stesse continuamente in bilico sull’abisso infernale, felice soltanto di godere dell’attimo fuggente.
Sigmund Freud si occupa invece marginalmente del personaggio, esprimendo un giudizio clinico: “Considerare Don Giovanni come lo caratterizza la comune letteratura, e cioè un omosessuale, è un errore: l’ipotesi secondo la quale è un sadico ma sessualmente normale, si avvicina molto di più alla realtà”.
Al contrario del suo maestro, Otto Rank studia la figura di Don Giovanni, mettendola in relazione al tema del “doppio” non solo come proiezione di una copia di se stesso all’esterno, ma come individuazione nel proprio intimo di un secondo e opposto se stesso. Rank, prendendo in considerazione soprattutto il Don Giovanni di Mozart, avanza l’ipotesi che “la morte del padre abbia provocato reazioni affettive ambivalenti, quali sono latenti in ogni uomo, e soprattutto negli artisti” e questo avrebbe “spinto Mozart ad una specie di trasfigurazione del soggetto, così da affermare con un atto di compensazione la propria voglia di vivere”. Attraverso la sua musica, Mozart riesce ad esprimere contemporaneamente la sua gioia di vivere e la sua paura della morte, la sua sensualità mascherata, i suoi sensi di colpa e la sua paura del castigo: “Ciò che caratterizza il tema di Don Giovanni e che rende questo personaggio pressoché unico nel suo genere, è il fatto che contrariamente a quanto avviene per gli eroi dell’antichità, i quali incontrano il male al loro esterno, sotto forma per esempio di una drago o di un mostro, egli trova il male in se medesimo. Il male si incarna dunque nello stesso Don Giovanni, così che si può dire che nella sua figura è personificato il diavolo” (La figura di Don Giovanni, SugarCo, Milano, 1994).
I giudizi qui riportati rappresentano comunque una minima parte tra quelli esistenti, se si pensa che Armand Edwards Singer nella sua opera The Don Juan Theme: An Annotated Bibliography of Versions, Analogues; Uses and Adaptations (West Virginia University Press, 1993) ha indicato oltre tremila titola riguardanti il nostro personaggio. Inoltre, dopo qualche anno, circa cento specialisti, guidati da Pierre Brunel, hanno compilato in oltre mille pagine il Dictionnaire de Don Juan (Laffont Editore, Parigi, 1999).
Da questa enorme mole di lavoro emerge che, come si era accennato in precedenza,tra l’altro, il mito del Burlador affonda le sue radici nel Medioevo europeo: si riscontra infatti in Guascona e Bretagna, in Catalogna e Andalusia, nella Vecchia e Nuova Castiglia, in Portogallo e in Italia, in Germania e in Svezia la presenza di numerosi romances in versi e in prosa che, con qualche variante nei contenuti, fanno riferimento tutti alla stessa leggenda: si racconta infatti di un giovane gentiluomo che ha fatto del corteggiamento di un gran numero di donne l’unica ragione di vita; un giorno incontra un morto e lo oltraggia, invitandolo a cena; il morto si presenta all’ora stabilita a casa del gentiluomo per il convito e ricambia l’invito a una seconda cena in una chiesa o in un cimitero; dinanzi alla tomba del defunto si spalanca un baratro dove il gentiluomo viene spinto e inghiottito da una forza superiore e irresistibile. Elemento comune a tutti questi scritti è l’aspetto bifronte della personalità del gentiluomo, che è nello stesso tempo un “seduttore” e un “ateista”; ha una concezione quantitativa ed estetizzante della seduzione, perché ama conquistare solo le donne belle; ritiene infine che il maggior numero delle sue conquiste, indipendentemente dalla loro condizione sociale (nobili o contadine), farà rifulgere la sua nobiltà di conquistatore.
Molti degli autori, che hanno collaborato al Dictionnaire de Don Juan, concordano su questo profilo del seduttore: “nessuna donna gli è indifferente e le guarda tutte come se…ciascuna di loro fosse la sola donna esistente al mondo” (Josè-Manule Losada-Goya); “questo bisogno di moltiplicare le conquiste ci rivela che Don Giovanni non è mai pienamente soddisfatto della donna che in quel momento possiede…in nome sempre della Donna sognata” (François Bonfils). Se si fa riferimento anche ad una concezione di vita cristiano-cattolica, dove esiste una visione condivisa dell’idea di Dio e del peccato, “don Giovanni ha tutto del peccatore incallito e dell’ottimista gaudente…egli capisce bene che deve cambiare vita e pentirsi, ma a tutti gli altri suoi peccati aggiunge una fiducia, non riposta in Dio, ma in se stesso, cioè il proprio orgoglio e la propria arroganza…il più gran peccato di Don Giovanni non è d’aver ingannato uomini e donne, di uccidere e di tradire, ma di non aver mai avuto alcun rimorso” (Alexandre Cioranescu). In questo caso il confronto con la divinità assume i connotati di una sfida, di uno spettacolare duello contro il suo doppio, quel Commendatore che diventa la “coscienza di pietra” di Don Giovanni, il punto di unione tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti che continuano a comunicare con i viventi.
Il neurologo Jonathan Miller ha raccolto in volume una serie di saggi di autori diversi sul mito di Don Giovanni che hanno un punto di contatto comune: il dongiovannismo, maschile o femminile, di estrazione nobile, borghese o popolare, è causato da un’angoscia di fondo, un vuoto che bisogna in qualche modo colmare, una forma di protesta o di rivalsa contro un’ingiustizia sociale o individuale, destinata tuttavia alla sconfitta, in quanto Don Giovanni finisce sempre per sprofondare nella sua stessa trappola, perché il suo vero nemico è la paura della solitudine.
Albert Camus affronta il tema del dongiovannismo, sostenendo che questo personaggio passa da una donna all’altra non per mancanza di amore, ma perché ama tutte le donne con uguale intensità e con tutto se stesso. Per questo motivo egli deve sempre rinnovare questo dono di sé e, se abbandona una donna, non lo fa perché non la desideri più (una donna bella è sempre desiderabile), ma perché ne desidera una diversa. Don Giovanni è soltanto un seduttore comune, forse più lucido e cosciente di altri, perché sedurre corrisponde alla sua stessa natura: egli conosce perfettamente il significato dell’esistenza, non ha speranze e pertanto possiede “l’intelligenza che conosce le proprie frontiere. Sino ai confini della morte fisica, Don Giovanni ignora la tristezza. Dal momento in cui egli sa, il suo riso prorompe e fa tutto perdonare…sulla bocca di una donna, egli ritrova il gesto amaro e riconfortante della scienza unica. Veramente amaro? Lo è appena: si tratta solo di una necessari imperfezione per rendere sensibile la Felicità!…per lui nulla è più vanità, all’infuori della speranza in un’altra vita. ed egli ne dà la prova, poiché se la gioca contro il cielo stesso” (Il mito di Sisifo, Bompiani, Milano, 1964, p.108). Don Giovanni è un egoista che pensa solo alla sua felicità momentanea, non fa “collezione” di donne ma, poiché vive sempre nel suo tempo, ne cerca sempre di nuove, in quanto può in questo modo soddisfare il suo “presente”. Egli è il classico esempio di “uomo assurdo” che non crede nel significato profondo della vita; è soltanto capace di impossessarsi di alcuni momenti di felicità, ne gode e subito dopo li brucia. “L’uomo assurdo moltiplica ciò che non può unificare e scopre, così, un nuovo modo di essere, che almeno lo libera nella stessa misura in cui libera coloro che l’avvicinano. Amore generoso è soltanto quello che si sa, al tempo stesso, passeggero e singolare. Sono tutte le morti e tutte le rinascite che fanno l’insieme della vita di Don Giovanni, ed è, ancora, il modo che egli ha di dare e di far vivere” (Il mito di Sisifo, op. cit., p.112)
Giovanni Macchia, il maggiore studioso italiano del personaggio, considera la storia di Don Giovanni un mito moderno che nasce dalla realtà e non dalla fantasia: il protagonista è un uomo che non cerca il bene della società, ma sperpera il suo coraggio e la sua giovinezza per “soddisfare il suo prepotente, inestinguibile bisogno di amare, di godere…nel suo potere di riduzione e di distruzione, non vede altro che l’amore, e in modo ben diverso da come era stato sentito nell’antichità o nel Medioevo”. Di origine aristocratica, egli non è in grado di capire a fondo la società dove è nato, anche perché è oppresso dal conflitto con il padre, che rappresenta uno degli aspetti più moderni della leggenda, il quale rappresenta anche un conflitto con il passato, una “lotta contro la divisione delle caste e dei casati, contro la nobiltà del sangue, contro l’astratta virtù e l’onore e la metafisica della passione”. Nella leggenda di Don Giovanni, dietro la violazione delle regole, oltre quel forsennato desiderio di possedere e di dominare l’universo femminile, si può intravedere il disordine, l’immoralità dell’umanità che lo circonda, diventando (come nel caso del manzoniano Don Rodrigo) l’incarnazione di una società arrogante e corrotta. Macchia individua le origini del mito in una rappresentazione teatrale tenutasi ad Ingolstadt nel 1615, come riferisce Padre Paolo Zehentner, un teologo della Compagnia di Gesù, il quale parla di un dramma che, oltre a essere pieno di avvenimenti preparatori dell’intervento divino conclusivo, ruota intorno alla figura di un peccatore incallito, capace di contagiare tutti coloro che gli si avvicinavano e che costituisce pertanto una minaccia per tutta la collettività. Si tratta di un dramma che mette in evidenza in modo esplicito il proprio intento didattico e moralizzatore, per raggiungere finalità edificanti e catechistiche. Dal canovaccio della rappresentazione, riportato dallo Zehentner nell’opera Propositorium Malae Spei Im piis Periculose navigantibus Propositum (1643), si apprende che il conte Leonzio, vissuto in epoca controriformistica, non è un seduttore, ma un giovane aristocratico miscredente e privo di principi morale che, seguendo gli insegnamenti del suo maestro Niccolò Machiavelli, pensa soltanto a soddisfare le sue voglie e a misurare la validità delle sue azioni dal piacere e dall’utile che ne può ricavare. Un giorno, mentre attraversa un cimitero, s’imbatte in un cranio umano che giace per terra e lo interroga con arroganza: “Ascolta ciò che ora ti domando, testa secca, e rispondi. È vero ciò che credono molti uomini, che uno spirito immortale è racchiuso in piccolo corpo mortale, che da quello riceve il beneficio della vita? E se un tale ospite una volta ha abitato in te, dopo la morte è perito o sopravvive? E, ammesso che sopravviva, dove abita, in quale luogo? E’ salvo o è punito?…E forse un Dio siede in un severo tribunale, e dà un premio per gli uomini pii e un castigo per gli scellerati, che durerà per sempre?”. L’ateo Leonzio ordina al cranio di partecipare a un banchetto preparato per i suoi amici, affinché possa intrattenere gli invitati sul problema dell’immortalità dell’anima. Durante la festa, un servo annuncia l’arrivo di un ospite che è l’immagine stessa della morte e Leonzio comprende che si tratta dello scheletro da lui invitato al simposio. Al suo apparire tutti gli ospiti sono terrorizzati e cominciarono a fuggire, compreso un impaurito Machiavelli insensibile alle implorazioni del suo discepolo, il quale chiedeva al suo Maestro di non abbandonarlo nel momento del pericolo dopo che aveva ricevuto da lui ricchezze ed onori. Ma tutto è inutile, in quanto “Machiavelli, o perché dimentico dei benefici passati, o perché presago del male futuro, o perché coerente con gli insegnamenti della sua dottrina (nella quale non trova posto nessuna fede) se ne andò, lasciando nei pasticci il Conti Leonzio”. Lo spettro rivela al conte di essere suo zio, che è stato condannato all’inferno perché è vissuto senza le regole e senza Dio. Ora egli è venuto a prendere lui che ha commesso tutti i peccati possibili e che ha scatenato l’ira di Dio “della cui esistenza e della Provvidenza insolentemente tu ti invischi. Sappi che con la morte non tutto l’uomo perisce; l’anima trasferisce la sua vita in un altro mondo, dove vivrà eterna in eterna beatitudine, oppure tra fiamme perpetue secondo la sentenza che riceverà dal tribunale di Dio”. A questo punto lo spettro scaglia il conte contro un muro, spaccandogli il cranio e trascinando il suo cadavere all’inferno.
Don Giovanni è stato definito un libertino, immorale, cinico, superbo, bugiardo, spergiuro, sentimentalmente sadico, un individuo afflitto da isteria, vagamente omosessuale, in rivolta contro i valori più sacri della società (la famiglia, la Chiesa, la coppia, la proprietà più intangibile rappresentata dalla donna), contro la sua stessa classe sociale (l’aristocrazia), della quale preannuncia l’imminente rovina. Malgrado tutto questo il mito di Don Giovanni ha attraversato i secoli e ha mantenuto intatta tutta la sua forza al punto che la sua personalità è stata messa a confronto con altre celebri e tenebrose figure dell’immaginario collettivo come nel caso dello studioso tedesco Jurgen Wertheimer che ha stabilito un parallelo tra Don Giovanni e Barbablù che egli giudica i più grandi criminali seriali dell’erotismo tra quelli presenti in letteratura. in quanto questi due personaggi sono rispettivamente l’incarnazione del conquistatore e dell’annientatore di donne: al mito vitalistico e scandaloso di Don Giovanni come seduttore seriale si affianca quello di Barbablù, mostro antropofago e assassino emerso dal mondo delle fiabe che mette in discussione in modo radicale il legame del matrimonio spazzato via dalla sua sanguinaria crudeltà senza nessuna giustificazione se non la sua stessa esplosiva violenza.
Secondo lo studioso tedesco il mito del grande seduttore vive una parabola discendente, perché dal Don Giovanni di Molière che è un fiero filosofo spregiatore della morale e della divinità e dal Don Giovanni di Mozart che gode della sistematica e seriale violazione della moralità borghese, si è passati nell’Ottocento a una drammatizzazione del personaggio costantemente diviso tra il piacere e la morte, per arrivare nel Novecento alla meschina vecchiaia di un personaggio soggetto alla derisione, all’abbandono e alla solitudine. Il suo erotismo seriale, che era un segno di distinzione e di dissenso, nella società contemporanea è diventato un prodotto di massa, il dongiovannismo si è trasformato in “un articolo di consumo a buon mercato…in versione rimpicciolita e pacchiana. È un decadimento tragico? Niente affatto, perché in fondo Don Giovanni viene battuto con le sue stesse armi. L’ideologo del principio seriale diviene vittima egli stesso, di un procedimento da catena di montaggio; non più detentore del ruolo di soggetto, viene degradato ad oggetto del procedimento”. Wertheimer denuncia la connessione tra dongiovannismo e società consumistica di massa. Oggi Don Giovanni sostituisce la qualità con la quantità: “Egli produce amore come rendimento e diventa uno specialista che consegna cifre ed entità numerabili, alla stregua di un attore porno…Il marcatempo ormonale ticchetta inesorabile, si richiede un aumento della quantità, il lavoratore a cottimo accelera il rimo di lavoro e produce diligentemente ancora più ciarpame erotico…È un circuito fatale che, proprio per via del successo numerico, termina in una bancarotta dell’animo” (Don Giovanni e Barbablù. I delinquenti seriali dell’erotismo nella letteratura, Bollati Boringhieri, Torino, 2002, p.57). È quindi il tempo di Barbablù che sostituisce il possesso della donna con l’annientamento, per cui l’assassinio diventa l’ultima possibilità per dare un significato all’esistenza e il mostro diventa l’altra faccia del dongiovannismo virtuale, che è stato ben rappresentato dal Casanova di Fellini, il quale muore mentre pratica l’ultimo coito con una bambola meccanica: “La donna da microcip è lo sbocco finale del programma di riduzione, di spregio degli esseri umani, che nonostante tutte le trasfigurazioni romantiche costituisce la base effettiva del principio della lista” (Don Giovanni e Barbablù, op. cit.79).

3. La figura di Don Giovanni nel teatro
La figura di Don Giovanni nel teatro, da Tirso de Molina (1584? – 1648) a Max Frisch (1911-1991).

L’ingresso ufficiale nel mondo della prosa viene fatto risalire al dramma in versi El Buldaror de Sivilla y Convidado de pietra di Gabriel Téllez in arte Tirso de Molina (1584? – 1648) che, rappresentato per la prima volta a Napoli nel 1625 e pubblicato nel 1627, riscuote un immediato successo in tutto il continente europeo. Si tratta di una storia intricatissima di seduzioni ed inganni orchestrati da Don Giovanni Tenorio, campione di cinismo e di egoismo, nel quale l’intrigo amoroso si fonda con l’amore per la “burla”, non solo a danno delle donne, ma della società in cui vive: “Siviglia mi chiama ad alata voce il Beffatore ed in realtà il mio più grande piacere è quello di beffare una donna lasciandola senza onore”. Più del piacere erotico Don Giovanni cerca la gioia di vivere e la beffa attuata attraverso il travestimento e la sostituzione di persona, il gusto di annullare se stesso per diventare un altro, irridendo le leggi del mondo e della morale. Nella sua sfrenata ricerca del piacere, egli vuole godere senza scrupoli e ritegni morali tutte le donne, ma non è un mostro di crudeltà e di abominio, perché la sua foga sessuale e il suo baldanzoso coraggio non gli fanno pensare alla morte, ma gli fanno credere che ci sarà sempre tempo per chiedere perdono a Dio. Don Giovanni calpesta i diritti delle persone, ma s’inchina sempre al sentimento dell’onore e rimane fedele all’imperativo del coraggio che non tradisce nemmeno quando dinanzi a lui si spalancano le porte dell’oltretomba e compare il fantasma del Convitato di pietra. Egli riesce ad essere contemporaneamente sia il cavaliere nobile e coraggioso, sia l’ateista fulminato e il dissoluto punito che viene trascinato nelle fiamme infernali, avendo rifiutato il pentimento e la conversione. Don Giovanni muore tra le fiamme e “con questo castigo dall’alto…tutto torna nell’ordine, vergine e puro come era prima dell’accaduto; la morale giuridica chiesastica interviene, sostituendo il processo doloroso e tragico della coscienza morale” (Benedetto Croce, Letture di poeti, 1944).
Nel dramma di Tirso de Molina ricorrono tutti gli elementi delle sacre rappresentazioni, dove la vita reale e laica s’intreccia con gli intenti edificatori, per questo “quell’unione di sfrenata libidine e di prodigo coraggio, di ingannatore e violatore di donne e di irreprensibile cavaliere cinge il don Juan di Tirso di un suo fascino ed eccita il desiderio di vedere più a fondo in un’anima e in una vita siffatta che par quasi chiudere un mistero: un mistero che non era già tale per spagnolo e frate Tirso, il quale sentiva naturale, legittima e doverosa quell’unione, e forse neppure al diavolo avrebbe fatto commettere azioni anticavalleresche e vili” (Benedetto Croce, op. cit.). Nel dramma è possibile individuare sia la condanna che l’ammirazione e in questa “ambiguità” e in questo suo ambivalente contegno di Don Giovanni non si avverte nessuna contraddizione, per cui col passare del tempo il protagonista della “sacra rappresentazione” di Tirso de Molina finisce per diventare diviene il multiforme eroe di numerosi drammi e poemi del tutto profani.
Del personaggio di Don Giovanni s’impadroniscono per primi i comici italiani della Commedia dell’arte, come testimoniano alcuni canovacci arrivati fino a noi come L’Ateista fulminato, ambientato nel regno di Sardegna; Il convitato di pietra, la cui storia si svolge nel regno di Napoli ed è attribuito all’attore Giacinto Andrea Cicognini; il Convitato di pietra. Le festin de Pierre, che viene rappresentato a Parigi nel 1658 dall’attore e capocomico Domenico Biancolelli (1636-1688); il Festin de Pierre ou Le Fils criminal (1665) di Nicola Drouin detto Dorimond (1628-1673); la tragi-commedia Nouveau festin de Pierre ou l’Athéiste foudroué (1670) dell’attore Claude La Rose detto Rosimond.
Recentemente è venuto alla luce il testo completo de Il convitato di pietra (1690), opera tragica di Andrea Perrucci (1651-1704), di cui si conosceva soltanto il canovaccio. Perrucci è un poeta e autore teatrale napoletano finora noto per la Cantata dei pastori (1698) e per il trattato di tecnica teatrale intitolato Dell’arte rappresentativa premeditata e all’improvviso (1699). Egli ambienta a Napoli questo suo copione, per cui lo Zanni Coviello è il servitore di Don Giovanni e Pulcinella è il domestico di Don Ottavio. Mentre i personaggi nobili si esprimono in italiano, il Dottore parla in bolognese sua figlia Pimpinella, Rosetta, Coviello e Pulcinella parlano in napoletano. Sempre in ambiente napoletano Francesco Cerlone pubblica nel 1789 Il Nuovo Convitato di Pietra, che presenta alcune varianti rispetto al testo di Perrucci; nel 1799 compare a firma di Michele Abri Il nuovo Convitato di pietra, ovvero Don Giovanni Tenorio con Pulcinella, servo di un padrone impertinente e spaventato da una statua che parla e cammina, che appare anch’esso molto simile al testo di Perrucci. Infine, in tempi più recenti, viene pubblicato nel 1909 la farsa in un atto di autore ignoto intitolata Pulcinella duellista notturno, in cui si ritrova una scialba figura di Don Giovanni, ridotto a comprimario e costretto a scambiarsi abiti e ruolo con il suo servo, un Don Giovanni travestito da Pulcinella che si presenta al pubblico al fianco del suo servo diventato padrone.
Uno dei più fedeli spettatori dei comici della Commedia dell’Arte, che si esibivano a Parigi, è stato sicuramente il grande commediografo Molière (1622-1673), che a sua volta scrive e mette in scena nel 1665 la commedia Dom Juan ou le Festin de pierre, che è unanimemente giudicata il suo capolavoro assoluto. Quest’opera è dominata dalla figura dell’ateista Don Giovanni, filosofo e libertino, corrotto e corruttore che discute della società, della morale e dei suoi rapporti con Dio con il suo antagonista, il servitore Sganarello. In Molière la figura di Don Giovanni acquista un particolare spessore, assumendo caratteri nuovi e spesso diabolici: l’empietà di trasforma in una consapevole dottrina, perché Don Giovanni (al pari di Tartufo) esalta l’ipocrisia e la falsa devozione usate come mezzi per raggiungere i propri scopi, in questo modo egli diventa un eroe del calcolo e dell’inganno, che conduce una lotta spietata contro la morale, la virtù, l’onore e la religione della società in cui vive, avendo come contraltare il suo vile servitore, a cui è affidata la difesa della fede in Dio e della morale tradizionale. Esemplare è l’incontro tra Don Giovanni e il Povero, durante il quale egli offre all’eremita un luigi d’oro purché commetta un peccato qualsiasi; di fronte al rifiuto dell’uomo, Don Giovanni gli dona ugualmente quella moneta “pour l’amour de l’Humanité”, anticipando per certi versi l’uomo “nuovo” che si affermerà con il Secolo dei Lumi. È vero che, nel corso della commedia, ricade sul protagonista tutta una serie di condanne, di rimproveri e di invettive, ma egli risponde sempre con l’inganno (la finta conversione) e con il sarcasmo (il monologo finale sull’ipocrisia), assumendo la statura di un libero pensatore. Questa caratteristica del personaggio non solo eserciterà una forte influenza sul Don Giovanni di Mozart, ma aprirà la strada alla letteratura “libertina” del Settecento francese a cominciare dalle opere di Sade per finire al capolavoro di Choderlot de Laclos Les liaisons dangereuses, dove il seduttore indossa le vesti maschili del Visconte di Valmont, ma anche gli abiti femminili di una insaziabile seduttrice come della Marchesa de Marteuil.
In Inghilterra Thomas Shadwell (1642-1692), un drammaturgo seguace di Ben Jonson, pubblica nel 1676 un dramma intitolato The Libertine, dove il seduttore è rappresentato come un criminale seriale che annienta senza pietà le sue amanti, che schernisce il loro ambiente sociale e i familiari quando cercano di vendicarle. Don Giovanni compie stupri e profanazioni blasfeme perché si considera un happy libertine che non agisce perché è mosso da una cattiveria spontanea e istintiva, ma opera in base a un sadismo premeditato, sostenuto da una vaga logica filosofica e da un delirio omicida. L’opera riscuote un grande successo per tutto il periodo della Restauration tragedy, quando vi è la tendenza a portare sulle scene le dissolutezze umane, per cui la figura di Don Giovanni non serve solo come modello di peccatore da non imitare, ma anche come un mito intellettuale. Nella Francia del Seicento gli intenti moralistici della monarchia spingono Thomas Corneille (1625-1709), fratello minore di Pierre, a scrivere nel 1677 una versione emendata dell’opera di Molière, che rimane nel repertorio della Comédie Français fino alla metà dell’Ottocento. Agli inizi del Settecento, la figura di Don Giovanni si trasforma in quella del peccatore pentito come avviene nel dramma No hay deuda que no se pague y Convitato de pietra (1714) di Antonio de Zamora, dove il grande seduttore muore di morte naturale dopo aver chiesto perdono per aver condotto una vita dissoluta, conquistando così la salvezza dell’anima una visione cristiana dell’esistenza. Sempre secondo questa chiave interpretativa, intorno al 1780 compare un dramma di un anonimo portoghese intitolato Comedia nova ititulada o Convidado de petra ou D. Joao Tonorio, o dissoluto, nella quale Don Giovanni diventa un eroe lacrimoso che, di fronte alle prediche di Donna Elvira, si ravvede e fa penitenza sopraffatto dai sensi di colpa, per cui nel finale si verifica la riunione sentimentale dei due coniugi nel segno del vero amore, introducendo un “lieto fine” che precorre quello delle opere teatrali borghesi del XIX secolo.
In Italia lo stesso Carlo Goldoni (1707-1792) entra a far parte di questo filone moralistico e scrive nel 1736 la commedia in versi sciolti, suddivisa in cinque atti, intitolata Don Giovanni Tenorio o il Dissoluto. Nella Prefazione il commediografo veneziano fa riferimento al Convitato di pietra, che egli definisce “commedia fortunatissima” anche se erroneamente l’attribuisce a Pedro Calderon de La Barca e non a Tirso de Molina, il cui testo aveva avuto nel nostro paese un grande successo grazie alle traduzioni del fiorentino Andrea Cicognini e del napoletano Onofrio Gilberto. Goldoni, dopo averne riassunto la trama, non sa spiegarsi il favore del pubblico per “codesta sciocca Commedia” e quindi passa ad esaminare il Don Giovanni di Molière, condannando “l’empietà eccedente di Don Giovanni, espressa con parole e massime che non possano fare a meno di non scandalizzare anche gli uomini più scorretti”. Il nostro grande commediografo, legato alla sua morale borghese, è assolutamente incapace di entrare nella psicologia di un personaggio come Don Giovanni ed infatti scrive forse la sua commedia più brutta, rappresentando un Don Giovanni evanescente, privo di qualsiasi perversione erotica, senza risvolti metafisici, ma solamente verboso e moralistico. L’autore dichiara apertamente le sue finalità edificanti, affermando che “o non doveasi porre in iscena un vizioso di tal carattere, o si dovea veder punito, correggendo lo scandalo degli scellerati costumi suoi con un gastigo visibile e pronto, onde gli ascoltatori, che in qualche parte potevano compiacersi della mala vita di Don Giovanni, partissero poi atterriti dal suo miserabile fine, temendo sempre più la giustizia d’iddio, che tollera fino ad un certo segno le colpe, ma ha pronti i fulmini per vendicarle. Io non avrei scelto per me medesimo così empio Protagonista, se altri non lo avessero fatto prima di me, ed ho anzi preteso di compiacere l’universale invaso dall’allettamento di questa favola, moderandone l’empietà e il mal costume, e di quelle infinite scioccherie spogliandola, che vergogna recavano alle nostre Scene”. Inoltre egli dice di aver intitolato la commedia Il Dissoluto proprio per mettere in massima evidenza la natura di incallito peccatore di questo personaggio. Per dare maggiore forza al suo assunto catechistico, Goldoni sopprime il personaggio del Convitato di pietra, toglie la scena dell’empio che precipita nelle fiamme dell’inferno proprio per eliminare ogni componente inverosimile e fantastica e conferire un maggiore spessore realistico al suo messaggio. La morte di Don Giovanni avviene pertanto fuori della scena ed è annunciata dal pastore Carino (“Cotante ingiurie/Contro i Dei pronunziò, che un fulmine venne;/Lo colpì, s’aprì il suolo, e più non vidi”), per cui Don Alfonso, primo ministro del Re di Castiglia, può concludere la commedia con queste parole: “Andianne, amici, e dell’indegno estinto/il terribile esempio ormai c’insegni,/Che l’uom muore qual visse, e il giusto cielo/Gli empi punisce, e i dissoluti aborre”. Infine Goldoni afferma di aver scritto questa commedia in versi, perché “i sentimenti poco onesti, e le massime temerarie, le pericolose proposizioni, in prosa feriscono più facilmente l’orecchio degli uditori”, mentre “in verso le cose si dicono con un poco più di moderazione, si adoperano delle frasi più caute, delle allegorie più discrete, si possono i Dei nominare, e la Commedia conservando il carattere istesso, prende un’aria meno scorretta, e meno agl’ignoranti pericolosa”, per rispettare anche la volontà del “serenissimo pio Governo, che niuna opera lascia correre sulle scene, che riveduta prima non sia, e da ogni scandalo e da ogni disonestà rigorosamente purgata”.
Il mito di Don Giovanni continua a fruttificare anche in pieno Romanticismo come dimostra il dramma Don Giovanni e Faust (1829) di Christian Dietrich Grabbe (1801-1836), dove si tenta il confronto e in un certo senso la fusione dei due più grandi miti dell’era moderna: un Grande di Spagna che vive nella Roma corrotta del Tardo Rinascimento e dell’Inquisizione, che non crede nel sovrannaturale ed è legato solo alla realtà; un intellettuale borghese tedesco che vive chiuso nel suo palazzo di ghiaccio sul Monte Bianco e che ha fallito la sua ricerca dell’Assoluto.
Grabbe esalta il conflitto romantico tra anima e corpo di matrice cristiano-medioevale, mettendo a confronto l’aspirazione alla conoscenza universale (Faust) con l’aspirazione all’assoluto sessuale (Don Giovanni), per cui tutto il dramma è percorso da una sottile tematica teologica, visto che l’autore esalta il papismo come “mito positivo” contrapposto al luteranesimo inteso come “mito negativo” capace di distruggere il potere catartico dell’illusione rappresentato dalla Chiesa. In questo ambito è collocata la doppia storia della sconfitta di Don Giovanni, un animale laico tentato dalla peccaminosa suggestione della libertà sessuale e dall’altrettanto peccaminosa aspirazione all’arbitrio assoluto e alla piena libertà della conoscenza scientifica rappresentata da Faust.
Don Giovanni e Faust hanno come comune “oggetto del desiderio” Donna Anna: la differenza sta nel fatto che il primo è completamente immerso nella realtà dei sensi e quindi aspira a conquistare ogni donna compresa Donna Anna; il secondo è veramente innamorato ed è pronto per lei a rinunciare alla ricerca del sapere e ai vincoli della famiglia. A differenza del personaggio di Goethe, quello di Grabbe sa che l’aridità del sapere è pari “all’enorme silenzio di un deserto”, dove non ci sono risposte, una distesa dove è possibile soltanto scavare una fossa “per morire, disperati, nella sete della conoscenza”, sconfitta dall’abiezione dell’ignoranza. È la presenza “infernale” di Don Giovanni a spingere Faust a cercare il cielo attraverso le porte dell’inferno, assecondato da Mefistofele che incoraggia la sua volontà di sapere, ma nello stesso tempo schernisce la sua infantile pretesa di penetrare nel mistero dell’esistenza umana e di voler conoscere un Dio che, non solo resta sempre celato alla vista e alla contemplazione, ma si comporta come un burattinaio capace di manovrare le anime a suo piacimento.
Sempre in ambito romantico, nel 1830 Alessandro Puskin (1799-1837) scrive quattro “microdrammi” fra i quale c’è Il convitato di pietra, nel quale Don Giovanni compare come un poeta animato dalla forza generatrice dell’Eros che lo porta ad assumere un atteggiamento di ribellione nei confronti della società. Nel 1834 Blaze de Bury, sotto lo pseudonimo di Hans Werner, pubblica il dramma lirico Don Giovanni, dove il protagonista è avvolto nello splendore dell’apoteosi e vola, come un serafino, verso il Paradiso dove lo attende la sua salvatrice Donna Anna. Alessandro Dumas padre (1802-1870) nel 1836 scrive un dramma di impostazione moralistica intitolato Don Juan de Marana ou La chute d’un ange, nel quale un angelo ottiene dalla Vergine Maria l’autorizzazione a scendere sulla terra e ad incarnarsi nel corpo di Suor Marta per arrivare a convertire Don Giovanni. Egli si rifà alla leggenda di Don Giovanni di Marana che termina con la redenzione del grande peccatore. Dumas imbastisce una vicenda nel segno del terrore, piena di omicidi commessi da Don Giovanni che uccide un suo fratello, frutto di una relazione adulterina del padre ed elimina anche il confessore di questi, perché lo ha convinto a legittimare questo figlio naturale. Vi sono poi intrighi, avvelenamenti, seduzioni di monache fino alla redenzione finale grazie all’intercessione dell’unica donna che egli ha amato nel corso della sua vita. Nel 1838 Théophile Gautier (1811-1872) scrive La commedia della morte, dove viene tracciato il ritratto di un Don Giovanni disperato ormai preda di una indecorosa decadenza della vecchiaia, dopo essere stato il simbolo dell’eterna giovinezza e della suprema seduzione.
Nel 1844 José Zorrilla (1817-1893) pubblica Don Juan Tenorio, considerato uno dei capolavori del teatro spagnolo, dove è presentata la storia di un Don Giovanni grande seduttore grazie alle sue prodigiosi doti di affabulatore che gli consentono di ammaliare e incantare qualsiasi donna. Con il passare degli anni egli ha una maturazione spirituale, per cui viene liberato dalla sua condizione di condannato all’inferno da un Dio reso misericordioso dalla forza intermediatrice dell’Amore.
Nel 1851 esce postumo l’incompiuto poema teatrale Don Juan di Nikolas Lenau (1802-1850), dove il personaggio di Don Giovanni è completamente reinventato: il celebre libertino, ricchissimo e padre di numerosi figli, continua a cercare le sue vittime femminili, insegnando loro la vanità di ogni illusione amorosa, inseguendo un suo assurdo sogno di felicità. Ma quando crollano tutte le sue illusioni di potenza, in empito di pessimismo, Don Giovanni si sucida, anzi si lascia uccidere in un duello da Don Pedro de Ulloa, quasi abbia perduto insieme alla voglia di vivere, anche la capacità di sopprimersi. In questa storia non c’è posto per il pentimento, come non c’è posto per l’amore, perché Don Giovanni non riesce ad amare nessuna donna, essendo eternamente diviso fra i due grandi temi della sua vita: la ricerca della felicità attraverso la voluttà (“Vorrei percorrere in una tempesta di voluttà tutto il cerchio magico e infinito delle bellezze femminili armate di tante seduzioni diverse”); una tristezza di fondo e una suprema voluttà di morte che sono inutilmente mascherata dietro la sua filosofia del libertinaggio.
Malgrado gli sforzi fatti dagli autori romantici, la leggenda del grande seduttore tende a declinare, tanto che agli inizi del Novecento George Bernard Shaw (1856-1950) rappresenta il mito di Don Giovanni usando l’arma del sarcasmo nella commedia Uomo e superuomo (1903), attraverso la quale l’autore porta sulla scena la sua teoria della forza vitale (derivata dalle dottrine di Bergson e Nietzsche), considerata come principio motore del mondo e spinta alla continuità della specie. L’opera è ambientata in epoca contemporanea, nel mondo della ricca borghesia intellettuale e delle professioni ed ha come protagonista John Tanner, libero pensatore e autore del Manuale del rivoluzionario, il quale è però destinato a rientrare nei ranghi di una vita “normale”, quando accetta di sposare Anna Whiterfield, donna dotata di intelligenza e di astuzia, una volta resosi conto che ormai nella società contemporanea non esiste più un “gentiluomo che osi scandalizzare il proprio droghiere e che le donne oltraggiate impugnano formidabili armi legali”. La commedia risulta alquanto appesantita dal voler dimostrare la tesi di fondo e da un certo scollegamento fra la trama principale e una specie di intermezzo, dove l’autore racconta la storia di un gruppo di amici che decide di fare un viaggio in Spagna, dove John Tanner viene catturato da alcuni banditi. Durante la prigionia, John sogna di essere precipitato all’inferno, dove incontra Don Giovanni Tenorio e Donna Anna e dove Lucifero in persona gli spiega che l’inferno è il luogo di coloro cercano la felicità attraverso le illusioni e i piaceri terreni, al contrario il paradiso è “il luogo dei padroni della realtà” attraverso i quali si manifesta la forza vitale, sono pertanto i “buoni” a scegliere l’inferno, mentre gli uomini superiori optano per il paradiso. A seguito di questa enunciazione, Don Giovanni decide di andare in Paradiso insieme a Donna Anna, perché ha compreso che la sua missione è quella di procreare il Superuomo.
Del personaggio del grande seduttore si occupa Edmond Rostand (1868-1918), il quale ha conquistato una grande popolarità con la sua “commedia eroica” Cyrano de Bergerac. Al termine della sua carriera letteraria, egli affronta il mito giovanneo nella piéce L’ultima notte di Don Giovanni (1916/17), pubblicata postuma nel 1922. Rostand mette in evidenza la crisi del grande seduttore a cominciare dall’ambientazione collocazione della storia, che si svolge in una Venezia notturna e malinconica, destinata ad accogliere quei “libertini che vogliono infrangere l’ultimo bicchiere, il più bello”. Al fianco di Don Giovanni non opera il Convitato di pietra, ma uno smaliziato diavolo esperto di psicanalisi che gli fa comparire dinanzi le mille e tre dame del celebre catalogo, le quali si presentano come ombre destinate a rendere Don Giovanni consapevole del proprio fallimento: tutte queste donne dichiarano infatti di non averlo mai amato e di aver mai sofferto per i suoi inganni, perché non si sono fatte sedurre, ma hanno piuttosto approfittato di lui per sedurlo. Di fronte a questo esplicito fallimento, l’autore non se la sente di condannare Don Giovanni alla morte e al fuoco eterno dell’inferno, ma escogita un tipo di pena ancora più spietata e umiliante. Egli trasforma Don Giovanni in un burattino condannato a interpretare la farsa di se stesso: il seduttore beffardo e irriducibile è obbligato a recitare per l’eternità la sua parte in un teatrino delle marionette per divertire un pubblico di innocenti bambini. È questo, per Rostand, l’unico modo per sottrarre il mito giovanneo a una miserevole fine.
Arthur Schnitzler (1862-1931), uno dei fondatori del movimento Jung Wien che segna l’avvio dell’impressionismo letterario austriaco, nel 1893 pubblica il suo primo lavoro teatrale Anatol. Si tratta di sette novelle “dialogizzate”, nelle quali l’autore si occupa con toni scherzosi della figura del gaudente e dissoluto collezionista di donne che, col passare degli anni, si accorge della sua decadenza sessuale. Si rende conto che i suoi incontri erotici (con ragazzotte di provincia o navigate prostitute) si stanno trasformando in messe in scena per rievocare un passato di conquistatore e di avventuriero attraverso sensazioni “virtuali” nel segno del feticismo e del sogno erotico. Schnitzler riprende il tema del seduttore nella commedia Le sorelle di Casanova a Spa (1919), dove l’incarnazione reale di Don Giovanni, essendo a 32 anni al culmine della potenza sessuale e intellettuale, vive con spirito giocoso le sue avventure, per cui le difficoltà derivanti dalla conquista di una donna, avvenuta nella convinzione che di averne sedotta un’altra, sono superate attraverso una dialettica scherzosa.
Luigi Pirandello (1867-1936) non ha mai affrontato direttamente il mito di Don Giovanni, anche se nella sua produzione teatrale vi sono due quasi – Don Giovanni. Il primo è Cecè (1913), un giovane “simpaticissimo; occhi sfavillanti e labbra accese; naturalmente signorile, (che) veste con raffinata eleganza”, il quale deve il suo successo con le donne al fatto di essere soprattutto un “ingannatore” che vive di piccole truffe e di raggiri concepiti e realizzati in nome del dio Denaro. L’autore lo rappresenta positivamente per le sue capacità inventive, la fantasia, l’estrosità con cui imbroglia le donne e soprattutto quegli uomini (come il commendator Squattriglia), prendendosi gioco delle tradizioni e della rigida morale borghese. Il secondo è Liolà (1916), un simpatico contadino che si aggira per le campagne di Agrigento, dove ha sedotto molte donne e ha procreato tre figli che ha preso a vivere con sé. Liolà è una specie di forza della Natura che sa districarsi con l’astuzia in mezzo a complesse vicende sessuali con mariti sterili (Zio Simone), mogli infedeli (Mina) e nipotine intriganti e assetate di denaro (Tuzza). Liolà mette incinte entrambe queste donne e sventa la minaccia di Tuzza che vuole accoltellarlo, consolandola con la promessa che prenderà con sé anche il suo quarto figlio. Solo al termine della sua vita Pirandello decide di affrontare la figura di Don Giovanni, ma fa solo in tempo a scrivere il racconto L’uomo di tutte le donne, incluso nelle Novelle per un anno, in cui sono tuttavia tratteggiati con maestria tutti i caratteri del personaggio.
L’austriaco Odòn Von Horvàth (1901-1938) scrive nel 1936 il dramma Don Giovanni ritorna dalla guerra ambientato nel 1918 in una città in decadenza, dove il grande seduttore cerca invano di ritrovare il suo passato, essendo incapace di identificarsi nella realtà che si riflette negli incontri che ha con il mondo femminile. Don Giovanni, ritornato alla vita civile dopo la fine della prima guerra mondiale, è talmente cambiato da non riconoscere nemmeno se stesso e dà in smanie per ritrovare un’antica fidanzata da lui abbandonata alcuni anni prima ed ora di nuovo desiderata, ma la donna è morta in manicomio dove era stata rinchiusa quando ha perduto la ragione a causa dell’abbandono da parte di Don Giovanni. Preso da un’ansia disperata, questi la cerca nei volti e nei corpi di tutte le donne che incontra (per la precisione 35) e che sono attrici di cabaret, prostitute, dame dell’aristocrazia, speculatrici alle prese con l’inflazione, vecchie e giovani impegnate in politica. Questa affannosa ricerca ha termine solo quando Don Giovanni scopre finalmente la verità e decide di lasciarsi morire sulla tomba dell’unica donna che ha veramente amato. L’opera, scritta mentre sull’Europa comincia a pesare lo spettro del nazismo, rappresenta una società avviata verso la catastrofe di un’altra guerra mondiale, una società che sta correndo con disperata allegria verso l’annientamento, mentre si consuma il mito di uno stanco seduttore costretto a ripetere fino alla noia gli stessi gesti e le stesse azioni di incallito amatore che è senza entusiasmo ed è in preda di una stanchezza spirituale. A questo inesorabile percorso verso la dissoluzione finale corrisponde la denuncia di una società in sfacelo, che non ha però le forti connotazioni politiche del teatro brechtiano, ma tende piuttosto verso un tardo romanticismo animato da una fredda disperazione.
Nel secondo dopoguerra Bertold Brecht (1898-1956) mette in scena a Berlino nel 1954 un Don Juan tratto da Molière e la stessa operazione compie Henry de Montherlant (1896-1972) con il Don Juan rappresentato nel 1958. Più originale risulta il dramma Don Giovanni, ovvero l’amore per la Geometria (1953) del commediografo svizzero Max Frisch (1911-1991), opera ambientata nel Rinascimento dove il mito viene analizzato attraverso la lente del dubbio e del sarcasmo: Don Giovanni non è più il grande seduttore, ma un personaggio freddo e razionale che vuole scardinare le tradizioni e che assume un atteggiamento critico nei confronti della società. È sempre amato e desiderato dalle donne, ma ha nei loro confronti un atteggiamento di fuga, perché si rifiuta di entrare nel mito e non accetta il ruolo che il destino vuole imporgli. Egli tuttavia non sa che tipo di rivoluzione deve compiere per sfuggire al “mostruoso spettacolo” della vita e, quando si rende conto che la sua rivolta non ha speranza di successo, decide di sublimare le sue passioni dedicandosi allo studio della Geometria. Secondo Frisch, la fama di seduttore di Don Giovanni “è un equivoco creato dalle donne”, poiché egli è un intellettuale e quello che “lo rende irresistibile per le signore di Siviglia è la sua spiritualità, la sua pretesa di una spiritualità virile, la quale costituisce un affronto, in quanto persegue scopi completamente diversi da quelli che potrebbero essere costituiti dalla donna e pone la donna come un episodio”.
Altre variazioni sul tema riguardano il rapporto del grande seduttore con le donne della sua famiglia: nella commedia La moglie di Don Giovanni (1944) dell’italiano Carlo Terron, si assiste a un Giovanni che è un piccolo borghese dei nostri tempi alquanto sciocco, in balia della moglie Valentina e delle altre donne che incontra; nella pièce Don Juan Ultimo (1992) dello spagnolo Vicente Molina Foix è la mamma del grande seduttore ad essere la protagonista, una matriarca che, con la sua oppressiva educazione, finisce per condizionare irrimediabilmente la vita del suo celebre figlio condannato a cercare nelle altre donne la figura materna.

4. Il mito di Don Giovanni nel melodramma
Il mito di Don Giovanni nel mondo del melodramma dal 1669, con la prima opera  di Alessandro Melani (1639-1703), fino al “Don Giovanni o Il dissoluto assolto”  (2005) di Azio Corghi.

Il mito di Don Giovanni fa il suo ingresso nel mondo del melodramma nel 1669 con la prima opera in musica intitolata L’Empio punito, musicata da Alessandro Melani (1639-1703), compositore e maestro di cappella prima a Pistoia e successivamente a Roma in S. Maria Maggiore e S. Luigi dei Francesi. Nel libretto scritto da Filippo Acciauoli (1637-1700) la vicenda di Don Giovanni è riscritta secondo lo stile tipico del dramma per musica: è ambientata in Macedonia e in Grecia, in un ambiente idilliaco carrate rizzato da versi “molli” ma adatti alla musica.
Sempre nella seconda metà del Seicento, Henry Purcell (1659?-1695) compone l’opera The Libertine Destroyed, quando l’Inghilterra è in piena restaurazione puritana e una rigida morale considera la figura del libertino come un criminale colpevole di violare le norme sociali. Per questo la rappresentazione ruota intorno all’annientamento del peccatore e alla sua esemplare punizione con un coro dei diavoli che nel finale del terzo atto attendono l’arrivo della sua anima dannata.
A partire dal secondo Settecento sono molte le opere ispirate alla figura del grande seduttore: il primo è un “balletto d’azione” intitolato Dom Juan ou bien du ‘Festin depierre’ (1761) con il libretto scritto da Ranieri de’ Calzabigi (1714-1795) e le musiche composte da Christoph W. Gluck (1714-1787), andato in scena a Vienna ad opera del grande coreografo italiano Gaspero Angiolini (1731-1803). A proposito di quest’opera dice una testimonianza del tempo che si è trattato di uno spettacolo “nella sua tristezza lugubre, sconvolgente all’estremo”.
Seguono Il Convitato di Pietra, o sia il Dissoluto (1776), libretto di Nunziato Porta (?) con musiche di Vincenzo Righini (1756-1812); Il Convitato di pietra (1777) di Giuseppe Calegari (1750-?); Don Giovanni ossia il Dissoluto (1783) di Gioacchino Albertini (1748-1811), compositore operante nel Teatro di Varsavia; Il Convitato di pietra (1783), libretto di Giovanni Battista Lorenzi (1721-1807) tratto dal Convitato di Pietra del Perrucci con musiche di Giacomo Tritto (1753-1824), un’opera che contiene elementi tratti dalla tradizione napoletana come il duello al buio tra Don Giovanni e Pulcinella, la Tarantella eseguita da Pulcinella e dalla sua Sposa; Il Nuovo Convitato di pietra (1787) di un librettista anonimo con musiche di Francesco Gardi (1760?-1810?); Don Giovanni o sia il Convitato di pietra (1787) scritto da Giovanni Bertati (1735-1815) e musicato da Giuseppe Gazzaniga (1743-1818), un’opera in cui diversi studiosi hanno visto la fonte d’ispirazione di Lorenzo da Ponte per il suo Don Giovanni.
Sulla scia del successo che nel Settecento ha goduto il grande seduttore, arriva nel 1787 il capolavoro assoluto di Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791), quel Don Giovanni composto sullo straordinario libretto di Lorenzo Da Ponte (1749-1838). Il compositore salisburghese scrive un’opera geniale e rivoluzionaria, scabrosa e intrigante, ritenuta persino “pericolosa” dalla società del tempo, perché questo Don Giovanni non è soltanto l’ateista fulminato, il dissoluto punito, il profanatore di fanciulle virtuose, il tentatore della sacralità del matrimonio, ma è anche il libero pensatore, l’uomo nuovo annunciato dall’Illuminismo che non piega la fronte dinanzi all’autorità paterna, politica e religiosa. Sembra che a Praga, in occasione del debutto dell’opera, fra gli spettatori vi sia stato Giacomo Casanova (1725-1798), l’avventuriero collezionista di donne, giocatore e baro, ateo e servitore dell’Inquisizione, politico e agente segreto, scrittore e filosofo che per circa un secolo ha incarnato nella realtà il personaggio di Don Giovanni, una figura che con la sua complessa personalità ha probabilmente influenzato Da Ponte e Mozart che, prendendo come punto di riferimento sia il Don Giovanni di Molière, sia l’avventuriero veneziano, hanno creato “un uomo che non conosce viltate e sperpera il suo coraggio, la sua giovinezza, vuole solo soddisfare il suo prepotente, inestinguibile bisogno di amare, di amare”, superando le barriere delle caste, della nobiltà del sangue, della virtù e dell’onore tradizionali (Giovanni Macchia, Vita, avventure e morte di Don Giovanni).
Mentre Molière si allontana dalla religiosità medioevale a favore dello scetticismo illuministico del suo personaggio, la musica di Mozart e la scrittura di Da Ponte danno vita a un personaggio sanguigno, pieno di fuoco e di gioia di vivere, la cui forza tutta terrena si fonda su ciò che è reale, materiale, credibile e per questo non arretra e non cede di fronte al sovrannaturale, conservando la sua tragica grandezza. La geniale intuizione di Mozart consiste nell’aver posto il libertino impenitente sullo stesso piano del Commendatore (il Convitato di pietra della tradizione) in uno scontro senza pietà che ha come posta la vita stessa. Don Giovanni in questa lotta feroce esce sconfitto, ma con l’onore delle armi: assassino a causa delle circostanze, ingannatore e seduttore, egli non appare mai un personaggio odioso o ripugnante, ma diventa l’emblema della straordinaria creatività drammatica di un Mozart che sa conciliare il sorriso e il pianto, la gioia di vivere e il terrore della morte in un’opera dove il comico e il tragico sono fusi in perfetto e inimitabile equilibrio, determinando il definitivo superamento dell’opera buffa settecentesca.
“La grandezza del Don Giovanni sta proprio nella miracolosa coesistenza di comico e tragico. Lasciativi sfuggire la misura sovrumana del dramma, e non avete capito niente. Ma lasciatevi sfuggire la comicità della natura formale, e non avete capito niente lo stesso. Guai a privilegiare una delle due facce. La corsa di Don Giovanni comincia con lo stacco del Molto allegro nell’ouverture e finisce solo con l’apparizione del Commendatore al banchetto” (Massimo Mila, Lettura del Don Giovanni di Mozart).
Dello stesso parere è Guido Davico Bonino quando sostiene che “l’apparente limpidezza e fluidità del libretto dapontiano trovano riscontro in una partitura musicale a sua volta (apparentemente) lineare, in realtà di una complessa serigrafia espressiva, in cui si fondano in un amalgama perfetto, eppure ogni volta sorprendente, i registri più disparati, il giocoso e il patetico, il burlesco e il tragico” (Storie di Don Giovanni, p.10). A sua volta lo scrittore Gesualdo Bufalino sottolinea l’aspetto innovativo e rivoluzionario dell’opera, quando ricorda che nel 1787 la Rivoluzione francese sta già bussando “alle porte del futuro” e che non si può “negare il presagio di catastrofe che incombe dal principio alla fine sull’opera”, tanto che si può parlare di un “redde rationem, non d’un individuo, ma d’un secolo intero…Quando Don Giovanni sprofonda sottoterra, è un mondo intero che sprofonda con lui” (Dialogo d’un arcidiavolo e d’un arcangelo nel foyer di un teatro a una “prima” del “don Giovanni”, introduzione al Don Giovanni, Teatro Bellini di Catania, 1994).
Nell’Ottocento, probabilmente intimoriti dal capolavoro mozartiano, non sono molti i compositori che si confrontano con il mito giovanneo. Se si escludono alcune composizioni su temi mozartiani di Chopin (Variazioni su “Là ci darem la mano”, 1831), di Liszt (“Reminiscenze di Don Giovanni”, 1841) e di Mahler (Tirso de Molina Lieder, 1880/83), soltanto Giovanni Pacini (1796-1867) scrive nel 1832 una farsa in due atti intitolata Don Giovanni ossia il convitato di pietra, che segue il tradizionale canovaccio del Burlador de Sivilla con la differenza che Leporello diventa Ficcanaso e tutta l’opera è incentrata sull’importanza del cosmo femminile e sul rapporto generazionale tra padre e figlio. Bisogna arrivare al 1899 per trovare il poema sinfonico Don Juan di Richard Strauss (1864-1949), ispirato al dramma di Lenau liberamente riletto, perché questo Don Giovanni non è un antieroe ormai sulla via del tramonto, ma un personaggio animato da un’esaltazione febbrile che lo spinge alla conquista dell’Assoluto femminile.
Nel Novecento Igor Stravinskij (1882-1971), certamente il maggiore operista del secolo, compone nel 1951 il melodramma La carriera del libertino, su libretto del poeta Wystan H. Auden (1907-1973), che si è ispirato alle celebri acqueforti (1732) di W. Hogarth. Si tratta di un’opera “neoclassica” per la presenza di arie, duetti, terzetti, quartetti, cavatine, cabalette e recitativi al clavicembalo, dove viene rappresentata la progressiva distruzione di un giovane (Tom), il quale si lascia trascinare nei vizi della società elegante, manipolato da un individuo diabolico (Shadow) che lo spinge alla conquista delle donne e lo stordisce tra i piaceri di una Londra postribolare. Tom si trova a vivere in un mondo dominato dal sesso, dove non esiste la bellezza, né la libertà e tanto meno l’amore (“Amore, questa preziosa parola è come un carbone ardente. Mi brucia le labbra e mi riempie l’anima di terrore”), dove conta soltanto la conquista, il disprezzo dei sentimenti, l’esaltazione del denaro. Quando Tom-Don Giovanni tenta di riscattarsi dalle sue colpe e di ribellarsi a questa vita inutile e vuota, costruisce una macchina che trasforma le pietre in pane, ma questo progetto lo porta al fallimento finanziario e alla rovina sociale. A questo punto Scadow- Mefistofele aggiunge beffa alla beffa e gli offre la possibilità di rifarsi con il gioco delle carte in cambio dell’anima ma, dopo aver vinto, il libertino perde la ragione e il manicomio, dove viene internato, diventa il suo inferno sulla terra. Trasformato in un martire, Tom muore fra le braccia di Anna, l’unica donna che l’ha sempre amato e che ha cercato di salvarlo. Nel finale i personaggi vengono alla ribalta e invitano il pubblica a trarre la morale da questa rappresentazione: “Sempre, sotto la luna e sotto il sole, da quando Eva partì con Adamo, il diavolo trova lavoro da fare, lavoro, egregio signore, per voi, lavoro, gentile signora, per lei”.
Ultima in ordine di tempo è arrivata l’opera Don Giovanni o Il dissoluto assolto (2005) di Azio Corghi (1937), autore di diverse composizioni strumentali, per orchestra e di alcune opere liriche come Blumunda, Divara, La morte di Lazzaro, tutte composte su testi dello scrittore José Saramago, Premio Nobel per la Letteratura 1998. Corghi fa ancora una volta ricorso a un libretto di Saramago, riuscendo a fondere la tradizione operistica con forme musicali del tutto nuove. Saramago, dopo essersi confrontato con tutte le precedenti opere sul grande seduttore, ha “cominciato con l’argomentare che sulle male arti di Don Giovanni si era detto tutto, che non valeva la pena di ripetere ciò che gli altri avevano fatto meglio” e ha scritto un vero e proprio testo teatrale dove ha voluto rappresentare un “Don Giovanni (che) non poteva essere tanto cattivo come nel tempo lo avevano dipinto…né Donna Anna e Donna Elvira delle creature tanto innocenti, per non parlare del Commendatore, puro ritratto di un onore sociale offeso, né di un Don Ottavio che a stento riesce a dissimulare la vigliaccheria”. L’autore parte dal Don Giovanni mozartiano che, rifiutando di pentirsi, afferma un’etica della dignità e della responsabilità, ma affronta anche il tema della crudeltà e dell’immoralità di quanti circondano Don Giovanni: la malvagità di Donna Elvira, che ruba all’uomo il catalogo con la lista delle sue amanti; la perfidia di Donna Anna che accusa il celebre libertino di essere sessualmente impotente; l’ostinazione del Commendatore che lo esorta al pentimento. Di fronte a questo misero spettacolo, Don Giovanni mantiene la calma e sceglie la candida e onesta Zerlina che rappresenta la soluzione salvifica dell’amore, perché è l’unica persona capace di farlo uscire dallo stato di solitudine e di abbandono in cui è caduto. È infatti la ragazza a far emergere la semplice natura umana del grande seduttore ed a mandare in frantumi la statua del Commendatore, liberandolo dall’ombra ingombrante del padre e dalle sue ossessioni sessuali. Di fronte all’amore di Zerlina, “Don Giovanni” diventa finalmente “Giovanni”, l’uomo a cui la ragazza rivolge queste parole conclusive: “Non sono venuta per ridere di te. Sono venuta perché eri stato umiliato, son venuta perché eri solo, son venuta perché Don Giovanni era divenuto all’improvviso un pover’uomo cui era stata rubata la vita e nel cui cuore altro non sarebbe rimasto se non l’amarezza di aver avuto e non avere più…È tempo che io ti conosca e tu conosca me…Non amo Masetto, io amo te”.
A consolare il mancato sposo di Zerlina rimane Leporello, il quale convince il giovane che è inutile cercare di tenere accanto a sé una donna quando essa ha deciso di fare una determinata cosa; così come è inutile cercare di vendicarsi di lei: “Non ne vale la pena, Masetto, non perdere il tuo tempo. Dio e il Diavolo son sempre d’accordo nel volere ciò che la donna vuole”.

5. Il mito di Don Giovanni nella letteratura
Tra Ottocento e Novecento la letteratura s’impadronisce della figura di Don Giovanni con varie interpretazioni che vanno dal primo Romanticismo al Decadentismo.

Tra Ottocento e Novecento la letteratura s’impadronisce della figura di Don Giovanni con varie interpretazioni che vanno dal primo Romanticismo al Decadentismo. Il primo autore è Ernst T. A. Hoffmann (1776-1822), il quale scrive il racconto Don Giovanni. Avventura favolosa di un viaggiatore entusiasta, che fa parte della raccolta di racconti Pezzi di fantasia alla maniera di Callot (1815). In questa storia non sappiamo se Hoffmann sogni o sia desto quando gli compare l’affascinante Donna Anna che gli parla di Don Giovanni come di un angelo decaduto, una specie di Satana umanizzato e impegnato a realizzare il paradiso sulla terra attraverso l’amore. Una volta divenuto consapevole che questo ideale è irraggiungibile e quindi irrealizzabile, egli nasconde la propria delusione dietro di disprezzo e la burla, cerca di curare la sua disperazione passando da una donna all’altra, godendo della loro bellezza per poi abbandonarle, per ritrovarsi alla fine ingannato dai suoi stessi fantasmi. Soltanto Donna Anna è la donna ideale che avrebbe potuto salvarlo dalla disperazione, ma Don Giovanni ha contagiato anche lei con il fuoco infernale della seduzione. L’uccisione di suo padre per mano del suo amante, il matrimonio con Don Ottavio, un uomo che non ama, il ricordo del suo cedimento al seduttore rendono la donna consapevole che potrà trovare la pace solo dopo la morte di Don Giovanni, ma che questa sarà anche il prologo alla sua morte.
Il grande poeta George Byron (1788-1825) compone tra il 1819 e il 1824 il poema Don Juan, nel quale la figura del seduttore diventa l’occasione per creare un altro eroe che assomiglia a se stesso (“Voglio un eroe: ed è un voler bislacco/se a ogni gobba di luna uno s’accampa/che, fatto dei giornali il suo bivacco,/mostra d’avere, più che zucca, zampa./Contando, uno così, meno di un ciacco,/scelgo Don Juan per mio eroe a stampa”). Il Don Juan di Byron è un giovane che cerca la poesia e l’amore, per poi ampliare il suo orizzonte alla guerra e alla politica, alla religione e alla scienza, alla libertà e all’educazione, alla letteratura e ai ricordi personali. Non è un seduttore diabolico, un individuo che invece di sedurre finisce per essere sedotto; non è un superuomo; non è un persecutore, ma piuttosto una vittima della società, dalla quale tuttavia si difende con l’ironia, rifiutandosi di impiegare le regole tradizionali della società stessa. Perdute le speranze della giovinezza, Don Juan non crede più nella passione che suscitano le donne, non ha più ambizioni, non ritiene che la fama consista soltanto nell’imbrattare dei fogli, (“Ormai ho trent’anni, e ho grigio…/anche il cuore. Bruciata tutta quanta/la mia estate già a maggio, ora ogni scorno/o torto lascio perdere. Si ammanta/di morte la mia vita, ed è impensabile/credermi ancor – come già fui –indomabile…/Non più, non più, oh mai più, mio cuore,/potrai essermi il mondo, l’universo./Già cupo, un tempo, o pieno di fervore,/non sei (per pene o gioie) or più diverso./Ma disilluso, sei, e al disamore/incline (benché al bene non avverso)./E c’è, al tuo posto, la “maturità” – /che Dio soltanto sa cos’è, o sarà”).
Nel pieno della stagione romantica diventa una specie di moda parlare di Don Giovanni e una specie di “furore letterario” prende un grande numero di scrittori. Fra questi ricordiamo Honoré de Balzac, che pubblica nel 1830 L’elisir di lunga vita, dove Don Giovanni è un personaggio grottesco, perfido, animato da un sadismo lascivo; seguito da Alfred De Musset che nel 1832 dedica al personaggio una parte del suo poema Namouna. Racconto orientale.
La scrittrice George Sand critica e demitizza la leggenda di Don Giovanni nel romanzo Léila (1833), dove la protagonista dopo il fallimento del suo amore per Sténio (Don Giovanni) diventa la badessa di un convento, nel quale s’introduce Sténio travestito da donna per impartire degli insegnamenti religiosi alle suore. Egli racconta loro la leggenda del libertino Don Giovanni che si converte e si purifica grazie all’intervento di un angelo trasformato in donna, ma Léila presenta una sua versione della leggenda: l’angelo mutato in donna viene sedotto da Don Giovanni e trascinato nel mondo del vizio, tanto che alla fine Don Giovanni, tormentato dai rimorsi per il male compiuto, morirà di dolore. La Sand riprende successivamente il tema di Don Giovanni nel romanzo Le Chateau des Désertes (1851).
Altri autori, che parlano di Don Giovanni, sono Prospero Mérimée nel racconto Le anime del purgatorio (1834); Charles Baudelaire nella composizione Don Juan aux enfers (1846); Gustave Flaubert che scrive un progetto di romanzo intitolato Una notte di Don Giovanni (1851), ma mai realizzato; Jules Barbery d’Aurevilly è l’autore del romanzo Il più bell’amore di Don Giovanni (1874); Pedro Antonio de Alarcon parla del grande seduttore nel romanzo L’ultima avventura (1881); Paul Verlaine che scrive una lunga composizione poetica intitolata Don Giovanni ingannato (1884). Infine I. K. Huysmans con L’abisso (1891), Remy de Gourmont con Il segreto di Don Giovanni (1894) e l’italiano Fernando De Giorgi con La fine di Don Giovanni (1895) completano il quadro letterario dell’Ottocento.
Nel XX secolo il primo autore a occuparsi del mito giovanneo è Rainier M. Rilke con due composizioni intitolate Infanzia di Don Giovanni e Elezione di Don Giovanni. Seguono Guillaume Apollinaire con Le trois Don Juan, Giovanni Papini con Colui che non poté amare (1906), Aleksander Blok con la poesia I passi del Commendatore (1910), José Martinez Ruiz con Don Juan (1922), Pierre Drieu La Rochelle con Homme covert de femmes (1925), Paul Morand con Lo specchio a tre facce (1925), Joseph Delteil con Saint Don Juan (1930), Karel Capek con La confessione di Don Juan (1932). Nella seconda metà del secolo si possono segnalare le opere di Pierre-Genri Roché (Don Giovanni e la passante, 1953), di Torrente Ballister (Don Juan, 1963), di Albert Cohen (Belle du Seigneur, 1968), di Carlos Fuentes (Terra Nostra, 1975), di Gilbert Cesbron (Don Juan en automne, 1975), di Pierre-Jéan Remy (Don Juan,1982).
Nel Novecento sono soprattutto tre i romanzi che reinterpretano secondo modalità diverse il mito del grande seduttore. Nel 1918 Arthur Schnitzler scrive Il ritorno di Casanova, privilegiando il personaggio che ha rappresentato in Europa la reale incarnazione di Don Giovanni. L’avventuriero, letterato e filosofo veneziano è sulla via del tramonto e cerca di ritornare, dopo vent’anni di esilio, nella sua città natale. Lungo la strada chiede ospitalità ad una sua “vecchia” amante e qui incontra la ventenne Marcolina che suscita in lui l’avida concupiscenza di un vecchio, ma il suo interesse provoca “negli occhi della giovane un improvviso stupore, una protesta, addirittura un’ombra di disgusto”. Allora l’anziano seduttore s’impegna in una disperata battaglia per riconquistare la gioventù perduta; infatti per sedurre Marcolina usa il travestimento (un vecchio trucco di Don Giovanni), sostituendosi al suo sposo nella prima notte di nozze. Al mattino purtroppo la sua “vittoria” si trasforma in qualcosa di vergognoso e umiliante di fronte al disprezzo della giovane: “Quel leggeva negli occhi di Marcolina non era quello che avrebbe mille volte preferito leggere: ladro – dissoluto – farabutto -; lesse solo una parola…che era per lui la più terribile di tutte, poiché esprimeva la sentenza definitiva: vecchio”. La dissoluzione finale del “personaggio” Casanova procede in letteratura di pari passo con la crisi della vecchiaia che finisce per rimettere in discussione il mito di Don Giovanni. Del resto è lo stesso Casanova a rappresentare la vecchiaia come una fase terribile e umiliante dell’esistenza, quando nella sua ultima opera, intitolata Le lettere a un maggiordomo, si scaglia contro un crudele domestico che sta al suo servizio dal 1785 al 1793 (Casanova muore nel 1798) e che lo sottopone a ogni forma di umiliazione. L’avventuriero-scrittore è stato espulso dalla Francia, dall’Inghilterra, dalla Polonia, da Vienna e da Venezia e, dopo una lunga serie di peregrinazioni, ha finalmente trovato un rifugio in Boemia nel Castello di Dux, dove svolge le funzioni di bibliotecario. Tormentato dall’odio del suo cameriere, afflitto da un complesso di persecuzione, Casanova è ormai soltanto l’ombra del grande avventuriero d’un tempo che non sa rassegnarsi all’impotenza derivante dalla vecchiaia e che non sopporta di essere un intellettuale ormai in disarmo, spesso deriso dagli ospiti del castello. Dopo avere esercitato in tutta l’Europa una vasta gamma di mestieri (avvocato, ecclesiastico, ufficiale, storiografo, romanziere, giornalista, agente segreto e spia, direttore di lotteria, fabbricante di tessuti, segretario di ambasciatori e bibliotecario), si rende conto di non avere più la forza e il carisma del seduttore, per cui non gli resta altro che affidarsi alla memoria del suo affascinante passato per superare il dolore, la paura, il senso di impotenza, la consapevolezza di non avere più un futuro e per aspettare la fine nel modo più dignitoso possibile. Si tratta della dissoluzione di un mito come ha messo in evidenza anche Federico Fellini nel suo film Casanova (1976), quando nel finale il protagonista muore abbracciato al suo ultimo amore, una bellissima bambola meccanica a grandezza naturale. L’uomo, che ha ridotto la propria esistenza a una continua caccia alle donne, dichiara il proprio fallimento con questo ultimo accoppiamento meccanico, una specie di coito mentale con una donna computerizzata. Siamo così di fronte allo sbocco conclusivo dell’applicazione del principio di Don Giovanni che vive per compilare e allungare continuamente il “catalogo” delle sue conquiste femminili, proprio perché il “catalogo”rappresenta l’unica sintesi dei valori in cui egli si riconosce: i binomi uomo = pene, donna = vagina, amore = sesso. Quando saltano questi punti fermi, le esistenze di Don Giovanni e di Casanova si chiudono nella frustrazione e nell’emarginazione secondo una visione impietosa di un personaggio tutto da reinventare, dato che “anziché nei panni vitalistici dell’infaticabile conquistatore, io lo penso – dice Fellini – come un vecchio goffo, disfatto e disadattato, anche un po’ burattinesco…un mitomane che non ha mai provato autentiche passioni…la sua vita infatti è stata una spirale di apparenze e dissipazioni, sicché alla fine ha un suono sordo e senza echi”.
Questa presenza di Casanova come alter ego di Don Giovanni fa venire in mente che il grande seduttore di Siviglia non ha mai goduto di molta popolarità nel mondo del fumetto, dato che lo troviamo presente soltanto in qualche pubblicazione di tipo pornografico. Al contrario il personaggio di Casanova ha suscitato l’interesse di alcune tra le migliori firme del fumetto d’autore europeo, come dimostra una raccolta di graphic novel pubblicate nel volume Casanova. Tutti gli autori hanno visto, in queste storie, in Casanova un personaggio destinato al successo, una specie di superman del sesso, dotato di un fisico eccezionale (le cronache sostengono che era alto un metro e novanta e che era “piantato come un Ercole”), ma anche in possesso di una spiccata intelligenza e di un irresistibile fascino, abituato a frequentare e a sfruttare i luoghi del potere senza essere ossessionato dal possesso del denaro e della sete di dominio. La vicenda biografica di Casanova ha come prologo l’ultima fase della sua vita, quando egli è ormai un vecchio bibliotecario chiuso nel Castello di Dux in Boemia (Dino Battaglia). Si ritorna quindi all’infanzia (Cinzia Ghigliano) e all’adolescenza (Lorenzo Mattotti), alla sua educazione sentimentale (Enric Siò) per arrivare ad alcuni episodi che si sono verificati nel corso della piena giovinezza e che riguardano il suo soggiorno a Venezia (Maurizio Bovarini), i viaggi per l’Europa (Ro Marcenato), la carriera ecclesiastica (Gianni Peg) e una serie di avventure a sfondo sessuale, rappresentate in maniera ironica da Miguel Piva, Altan, Oski, Renato Calligaro e dall’ultimo episodio di seduzione, intitolato La monaca e disegnato da Guido Crepax con il consueto, algido erotismo.
Nel 1941 Vitaliano Brancati scrive il romanzo Don Giovanni in Sicilia, dove il mito del seduttore si straforma in un’amara parodia: Giovanni Percolla vive a Catania coccolato da tre premurose sorelle, dedito al cibo, alla pennichella, ai dettagliati discorsi sulle donne che danno “maggior piacere che le donne stesse”. Le cose si complicano quando a quarant’anni egli incontra l’amore nella persona della bella e giovane marchesina Ninetta di Marronella. Decide di sposarla e si trasferisce a Milano, dove si dedica a una rigorosa cura dimagrante, a una vita attiva, a qualche avventura extraconiugale, dalla quale però ricava uno scarso piacere. Un giorno i coniugi decidono di ritornare a Catania per una breve visita, ma quando Giovanni ritrova le servizievoli sorelle, i loro pasti abbondanti, il suo comodo letto dove potersi abbandonare all’ozio di un tempo, tutto lascia pensare che difficilmente egli farà ritorno a Milano.
Nel 1942 lo scrittore tedesco Franz Zeis pubblica il romanzo Don Juan Tenorio, dove si narra una storia ambientata nella Spagna medievale e dominata dalla truce figura di Don Pedro, re di Castiglia e Leon. Il narratore è Don Giovanni in persona che ha compilato un diario ritrovato dall’autore, ma il vero protagonista è lo spietato Don Pedro che viene ucciso nel 1369 dal fantasma di Don Giovanni che ha assunto le sembianze di un cavaliere mascherato per annientare il suo nemico. Prima di ucciderlo, Don Giovanni elenca tutti i delitti commessi nel Regno di Castiglia da Pedro il Crudele, che ha ucciso la regina Blanche de Bourbon sua legittima sposa; la regina Leonor di Aragona sua zia; Jana e Isabel de Lara, sue cugine; la nobildonna Blanca de Villena per impadronirsi delle sue proprietà; i suoi tre fratelli don Fabrique, don Juan e don Pedro; l’infante di Aragona, suo cugino; lo stesso Don Giovanni Tenorio e i suo fratelli, don Alfonso e don Garcia. Inoltre il re apprende di essere stato tradito dalla sua favorita, Maria de Padilla, che è stata l’amante di Don Giovanni. In questa storia il mostro spietato non è Don Juan, ma Don Pedro che rappresenta il Male assoluto con la sua aberrante e violenta concezione del potere. Il grande seduttore rappresenta invece una faccia completamente diversa del potere: “Io, don Juan Tenorio, non fui un semplice don Juan, un seduttore demoniaco, che cercava nella femmina la realizzazione della sua irrequietezza senza trovarla. Io, don Juan Tenorio, fui l’ultimo cavaliere di Spagna in un tempo in cui aristocrazia e teocrazia rendevano succube la cavalleria di Castiglia”.
Lo scrittore italiano Orazio Bagnasco (1927) sceglie la strada dell’esaltazione dell’avventuriero, del seduttore e dell’intellettuale, ambientando il romanzo Vetro (1998) nella Venezia della metà del Settecento, dove Giacomo Casanova è il personaggio più popolare del momento e proprio per questo mette a confronto l’avventuriero veneziano con lo stesso Don Giovanni Tenorio, giunto in città in compagnia del suo servitore Leporello. L’affascinante scontro fra i due grandi miti ha come sfondo la società veneziana dell’epoca con i suoi costumi alquanto permessivi; le donne aristocratiche e popolane facili all’amore e alla trasgressione sessuale; le fantasiose cerimonie religiose per il Natale arricchite dalle musiche di Galluppi; gli spettacoli teatrali come La diavolessa di Goldoni ancora con le composizioni del Galluppi; le feste orgiastiche celebrate senza scrupoli durante il periodo natalizio sulla “peota sollaziera”, una grande barca da pesca trasformata in luogo deputato per gli incontri sessuali tra aristocratici e popolani celati dietro le celebri maschere della Commedia dell’Arte (Arlecchino e Florindo, Colombina e Corallina, Rosaura e Mirandolina, Pierrot e Pulcinella, Brighella e Pantalon de Bisognosi); le cene di carnevale che si trasformano in uno scontro sessuale tra i due celebri seduttori. Intorno a Casanova ruotano personaggi storici come Giorgio Baffo, magistrato e poeta erotico, amante della madre di Casanova la bellissima attrice Giovanna Farussi; Donna Domitilla, moglie del Procuratore di San Marco M. A. Giustinian; il reverendo Lorenzo Da Ponte che fa da guida a Don Giovanni; l’Abate Joachin François de Bernis, ambasciatore di Francia a Venezia e il conte di Rosemberg, ambasciatore d’Austria a Venezia. La vicenda, che è un groviglio di intrighi politici, azioni spionistiche, agguati e tradimenti, prende l’avvio dal fatto che il conte di Rosemberg vuole donare in segreto un prezioso servizio da tavola in vetro di Murano a Madame Pompadour, la celebre favorita del re di Francia Luigi XV. Per realizzare questo disegno, egli chiede aiuto a de Bernis, che si rivolge al suo intimo amico Casanova, fedele compagno di scorribande sessuali. Questi conduce l’amico a Murano per fargli conoscere il più grande maestro vetraio dell’isola, Giovan Battista Mazzolà, il quale però si rifiuta di eseguire il lavoro. A questo punto Casanova fa ricorso alla figlia Zerlina, sua amante segreta, affinché possa convincere il padre in cambio di una ricca dote con la quale potrà finalmente sposare il suo Masetto, un giovane maestro vetraio, il quale “non è geloso, perché sono una “puta onorada”, ma è furioso perché le nozze si rimandano sempre”. Convinto dalla figlia e dallo stesso fidanzato, Mazzolà si mette al lavoro e confeziona in breve tempo il più splendido servizio da tavola che si possa immaginare, sistemandolo impacchettato nel proprio magazzino pronto per essere spedito in Francia. Ma sullo sfondo della vicenda vi sono gli intricati rapporti internazionali tra la Francia e l’Austria da una parte, la Spagna e la Prussia dall’altra, per quali lavora Don Giovanni Tenorio, che ufficialmente si presenta come un giovane diplomatico spagnolo, ma che è in realtà agente segreto al servizio del migliore committente. Bagnasco a questi punto trasforma l’incontro tra i due grandi seduttori in una sfida dai risvolti tenebrosi e persino mortali, affermando che “in ognuno di noi c’è un po’ di Casanova, un po’ di Don Giovanni. Dal loro confronto e dall’equilibrio che ne deriva resta condizionato per sempre il nostro rapporto con l’altro sesso”. Fin dal primo momento Don Giovanni ha mostrato nei confronti di Casanova un astio che confina con l’odio e che lo porta a sedurre la sua amante Dominilla e la stessa Zerlina, di cui si servirà per strappare informazioni su quanto sta avvenendo a Murano nella fabbrica di suo padre. Don Giovanni riesce a penetrare nottetempo nel magazzino del maestro vetraio e a distruggere il prezioso servizio da tavola, ferendo a morte il povero Masetto accorso a difendere il lavoro del suocero. Subito sopraggiunge Casanova, che ha intuito quali sono le trame del suo rivale, con il quale si scontra in un feroce duello nel corso del quale il veneziano viene ferito a una gamba, per cui Don Giovanni darsi alla fuga per evitare di essere a sua volta ucciso. Qualche giorno prima fra i due c’era stato un altro scontro, questa volta verbale, nel corso del quale “il giovane cavaliere tenebroso” aveva sfidato Casanova a sedurre sette giovani donne (una nobile, una cittadina, una straniera, un’attrice, una suora, una vergine e una popolana). Nella stessa occasione si era svolta una disputa sulla diversa visione filosofica della vita e sulla diversa concezione dell’amore che divideva i due cavalieri: da un lato emerge la lacerata personalità di Casanova, a cui le donne rimproverano di saper amare con i sensi ma non con il cuore (“Vi è qualcosa di strano nel vostro modo di amare, che frena il cuore delle donne e che può rendere dubbiose coloro che hanno il privilegio di essere scelte da voi…Da voi traspare la sensazione che stiate sempre cercando un rapporto che vi manca e che mai riuscirete a trovare” gli dice una sua amante prima di abbandonarlo); dall’altro lato si manifesta la oscura personalità di Don Giovanni che si atteggia a uomo dei tempi nuovi, sostenendo di credere “solo nel dio della Ragione, dell’intelligenza, nel dio di Cartesio e del Signor di Voltaire… Ragione e conoscenza sono i miei lumi e in nome loro vivo libero e senza remore moralistiche”. Lo spagnolo si presenta come un superuomo anche del campo dei sentimenti: “È una prerogativa degli uomini superiori, che hanno sconfitto le barriere della morale e del facile dogmatismo, raggiungere i propri fini, realizzate con il solo ausilio della mente e del raziocinio…Anche nella conquista di quei risibili organi che sono chiamati “cuori femminili”, quando ci si libera da ogni sentimento e da ogni scrupolo superstizioso, rappresenta di per sé un eccitante diletto e una sfida a molti pregiudizi”. Di fronte a queste argomentazioni appare debole la replica di Casanova che fa appello all’amore: “Mi rendo conto, dalle vostre affermazioni, che della vera essenza del piacere voi ben poco conoscete! Prima di tutto, dalle vostre labbra non ho mai sentito uscire la parola amore. Naturalmente non è necessario che l’amore sia eterno e nemmeno che duri anni o mesi. Può durare un’ora o appena un minuto, ma è importante che ci si squassi il cuore, anche solo per quei brevi istanti. Che per un attimo ci alteri il respiro e la ragione, perché solo così si può godere fino in fondo dell’offerta che facciamo e che riceviamo. Senza di ciò resta solo l’esercizio fisico, accompagnato dall’acido gusto della conquista o da quello ancora più miserevole della violenza”. È una sfida che Casanova, di fronte al razionale cinismo dell’avversario, è destinato a perdere, sconfitto sul piano della seduzione e dell’intrigo politico, come risulterà perdente nel duello finale quando, invece delle parole, s’incrociano le spade.

6. Il mito di Don Giovanni nel cinema
Nel cinema il personaggio di Don Giovanni non ha mai goduto di eccessiva fortuna; tolte alcune rare eccezioni, esso è stato quasi sempre al centro di film d’avventura o di storie d’amore nel segno dell’erotismo.

Nel cinema il personaggio di Don Giovanni non ha mai goduto di eccessiva fortuna; tolte alcune rare eccezioni di cui ci occuperemo più avanti, esso è stato quasi sempre al centro di film d’avventura o di storie d’amore nel segno dell’erotismo. Nel periodo del cinema muto s’inizia con Don Juan Tenorio (1906) di Ricardo De Bonos, ma bisogna arrivare al 1926 per trovare il film Don Juan. Don Giovanni e Lucrezia di Alan Crosland, ambientato nel Quattrocento alla corte dei Borgia, con il quale s’inaugura il genere di “cappa e spada” con il protagonista John Barrymore che distribuisce circa 190 baci e sostiene un numero quasi uguale di duelli.
Con l’avvento del cinema sonoro vengono prodotti diversi film; Le ultime avventure di Don Giovanni (1934) di Alexander Korda; un modesto Don Giovanni italiano del 1942, diretto da Dino Falconi; Le avventure di Don Giovanni (1948) di Vincent Sherman, che riscuote un grande successo di pubblico grazie alla presenza del divo Errol Flynn. Nel secondo dopoguerra compare il film Don Juan. La spada di Siviglia (1950) dello spagnolo José Luis Saenz De Heredia e il film Gli uomini non pensano che a quello (1953) del francese Yves Robert, seguiti da Il grande seduttore (1956) di John Berry.
Nel 1960 anche il grande Ingmar Bergman realizza L’occhio del diavolo, che presenta un Don Giovanni sul viale del tramonto e che non è uno dei film migliori del maestro svedese. Negli anni Settanta si girano Le calde notti di Don Giovanni (1971) di Alfonso Brescia e Don Juan 73 (1973) di Roger Vadim, un film che cerca di sfruttare il mito divistico di Brigitte Bardot con lo slogan “Se Don Giovanni fosse una donna sarebbe B. B.”, senza tuttavia ottenere un grande successo. L’ultimo in ordine di tempo è la commedia Don Juan De Marco maestro d’amore (1995) di Jeremy Leven, con Johnny Depp e Marlon Brando, storia di una psichiatra impegnato a curare un giovane schizofrenico che crede di essere il più grande amatore del mondo e va in giro per New York vestito da Zorro.
Le opere cinematografiche di rilievo incentrate sul personaggio del seduttore di Siviglia sono soltanto due. La prima è un film italiano intitolato Don Giovanni (1970), diretto e interpretato da Carmelo Bene che trae la sceneggiatura dall’opera del drammaturgo cattolico Barbey D’Aurevilly (Il più bell’amore di Don Giovanni) per stravolgerne, come suo abitudine, i contenuti. Don Giovanni è stanco di facili conquiste e, per placare l’angoscia di una conquista quasi impossibile, cerca con l’aiuto di una sua vecchia amante di sedurne la figlia, una brutta giovinetta dominata da manie religiose a sfondo mistico. Per conquistarla Don Giovanni le fa dono di varie immagini sacre ed infine assume lui stesso le sembianze del Crocifisso. Si tratta di un film allucinato, parodistico e barocco, dove l’autore ricorre all’impiego di marionette, bambole e immagini sacre, attraverso il quale Carmelo Bene esalta la sua complessa cultura, il suo delirante esibizionismo nel segno di una dissacrante ironia.
Un vero capolavoro cinematografico deve essere considerato il Don Giovanni (1979) di Johseph Losey, che riporta fedelmente sul set l’opera di Wolfgang Amedeus Mozart, realizzando un’operazione culturale di alto livello attraverso il felice connubio di una delle massime espressioni dell’opera lirica con l’architettura cinquecentesca del Palladio, tenendo d’occhio sia il marchese De Sade che Bertold Brecht. Si tratta di un film-opera che rappresenta una eccezionale lettura poetica di un mito, poiché l’autore, attraverso magistrali invenzioni registiche e una splendida fotografia, ottiene una calibrata fusione tra realismo e teatralità al fine di esaltare la figura di un eroe freddo e pericoloso come l’acciaio. Di solito fare un film partendo dalla colonna sonora finisce per limitare le capacità creative del regista, costretto a “modulare” la scrittura filmica sullo sparito. Al contrario Losey riesce a rispettare la musica preesistente e nello stesso a ricrearla attraverso la ricerca di spazi sia architettonici (la Villa La Rotonda e il Teatro Olimpico del Palladio a Vicenza) che naturali (l’ambiente lacustre e la campagna veneta). Egli riesce a conciliare una prospettiva teatrale con quella cinematografica; fa confluire nel personaggio di Don Giovanni sia una tristezza di fondo (facendone un “grande perseguitato”), sia un ribelle anarcoide in continuo scontro con la sua classe sociale per difendere i suoi privilegi di libertà morale e sessuale attraverso la massima esaltazione dell’individualismo borghese.
Nello stesso Losey colloca non a caso in apertura del film una frase di Gramsci: “Il vecchio muore e il nuovo non può nascere; e in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati” e sceglie di ambientare la vicenda in un periodo storico che precede la Rivoluzione francese. Egli non fa di Don Giovanni il protagonista della rivoluzione stessa, ma lo presenta come il veicolo di una rivolta personale al centro di una crisi di transizione che prepara la morte di un’epoca, diventando “l’interregno della sconfitta”. Il regista non sottovaluta il fatto che l’opera mozartiana sia stata composta due anni prima del fatidico 1789 ed afferma che “Don Giovanni è quasi una figura tragica: dico “quasi” perché Don Giovanni non riesce a esserlo del tutto, ad avere la grandezza di un eroe da tragedia, seppure negativo…Don Giovanni è un personaggio compassionevole, e invece impone a se stesso di apparire gaio, pieno di frenetico desiderio di vivere, di conquistare donne, di divertirsi; ma in realtà riesce a godere ben poco di tutto questo. Nell’intimo è un’anima perduta, ma nella vita un privilegiato…qualsiasi cosa abbia potuto pensarne Mozart, e a dispetto di tutto, Don Giovanni è una figura di ribelle, di anarchico rivoluzionario seppure ricco e pieno di privilegi”.
In armonia con il personaggio mozartiano, Don Giovanni non è per Losey un libertino scettico che crede solo alla realtà dei sensi; al contrario egli rappresenta l’orgogliosa negazione del pentimento di un uomo che rimane fedele agli ideali dell’Illuminismo, che rifiuta ogni costrizione della volontà per affermare la libera scelta del proprio destino. In questa scelta risiede gran parte dell’oscuro fascino che emana la sua figura, poiché al termine di una vita travagliata si risveglia in Don Giovanni una coscienza tragica che lo rende consapevole di una gigantesca sfida accettata virilmente e con nobiltà d’animo.

7. Bibliografia
Bibliografia essenziale di riferimento.

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F. Zaise, Don Juan Tenorio, Editore Sellerio, Palermo, 1992

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