La famosa “Traviata” degli specchi di Svoboda torna allo Sferisterio


di Roberta Rocchetti e Alberto Pellegrino

14 Ago 2018 - Commenti classica, Musica classica

La vita riflessa in uno specchio
di Roberta Rocchetti

Macerata, 11 agosto 2018 – Una vita riflessa in uno specchio, in più specchi, sufficienti a dare una parvenza di realtà a ciò che è soltanto un riverbero, una proiezione, un desiderio di Violetta, desiderio che alla fine come uno specchio si frantuma in mille pezzi, spezzando anche la sua vita.
Questa in sintesi potremmo dire è il legame tra la scenografia di Josef Svoboda, ormai uno dei capisaldi dello Sferisterio riproposta periodicamente dal 1992, e la tragedia della prostituta parigina a cui viene negata l’unica chance di felicità.
La celeberrima Traviata “degli specchi” è tornata sul palcoscenico del Macerata Opera Festival con la regia e le luci di Henning Brockhaus, i costumi di Giancarlo Colis e le coreografie di Valentina Escobar.
Una regia abbastanza deludente, statica e poco partecipe, dove dovendo mettere in scena il melodramma si è deciso di dare certamente molto più peso al melò che non al dramma, se si è deciso di far stramazzare al suolo Violetta praticamente ad ogni scena e così anche Alfredo. Tanto che quando Violetta cade morta all’epilogo ci è tornato in mente il finale del film di Scola Dramma della Gelosia. quando in ospedale un infermiere chiede all’altro, vedendo la protagonista stesa sulla barella per l’ennesima volta: “È di nuovo Adelaide?” e l’altro infermiere risponde: “Si, ma stavolta è morta”.
Arie e duetti snocciolati in gran parte a favor di proscenio senza un vero gesto interpretativo, senza che nulla riuscisse a far passare dagli interpreti al pubblico la tragedia, la disperazione di una donna giovanissima che prende coscienza della propria prossima, inevitabile morte e il rabbioso aggrappamento alla vita che ne consegue. Non per nulla nel romanzo originale di Dumas figlio da cui la vicenda è tratta ad un certo punto Marguerite (poi divenuta Violetta nella trasposizione operistica) decide di mostrarsi a teatro malata e funerea alla fine della propria vita, per far ricadere sui suoi adoratori ed ammiratori di un tempo il peso del proprio mortifero dolore. Non è apparsa verosimile, neanche la gelosia di Alfredo, la sua rabbia, il pentimento, niente è uscito dalla sfera del movimento plastico per entrare nella zona di comunicazione empatica tra interprete e spettatore.
Nella Traviata di Brockhaus sembra che Violetta muoia sana e quasi indifferente, tutti i sentimenti sono all’acqua di rose, sterilizzati, depotenziati, resi innocui seppur enfatizzati da gestualità a tratti eccessive.
Eppure abbiamo ascoltato voci interessanti a partire dalla protagonista interpretata da Salome Jicia, che ha la vocalità adatta per gestire bene i tre atti con le loro diverse necessità, insomma se come si dice per cantare Traviata sono necessari tre soprani Salome Jicia può ben rivestire tutti i ruoli di soprano di coloratura, lirico e drammatico, portando la protagonista dalla sua spensieratezza giovanile, all’espressione della sua profonda passione amorosa, al confronto con la morte. Con un regista in grado di farla anche recitare può dare molto.
Più immaturo l’Alfredo di Ivan Ayon Rivas, sia nell’aspetto fanciullesco che nell’interpretazione, potendo contare comunque su una voce ben impostata che rende soprattutto nel registro più acuto, ma certo c’è necessità di approfondire le varie sfumature e di scavare di più nella propria tavolozza cromatica per rendere l’interpretazione meno monocorde.
Alberto Gazale si è rivelato un ottimo Giorgio Germont, vocalmente solido, fiati ottimamente sostenuti messi al servizio di un volume e un timbro corposo che non perde potenza e bellezza spaziando tra le varie nuances, forte della propria personalità e professionalità acquisita nell’arco della carriera ha ravvivato un personaggio altrimenti destinato ad essere come gli altri una figura emotivamente bidimensionale. Insoddisfacente il Gastone di Silvano Paolillo, gracchiante e dall’intonazione insicura, mentre ci ha colpito molto favorevolmente l’ottima Annina di Marianna Mennitti che con le sue poche battute ha regalato piccoli istanti di recitazione vera, buono anche il Duphol di Lorenzo Grante, bella voce di bronzo liquido elargito senza risparmi. Piacevole la Flora Bervoix di Mariangela Marini. Soddisfacenti gli altri comprimari (Stefano Marchisio come Marchese D’Obigny e Giacomo Medici come Dottor Grenvil)
L’Orchestra Regionale delle Marche guidata da Keri-Lynn Wilson dopo un primo atto reso con un clamore un po’ bandistico, come accade spesso a Verdi e a quest’opera in particolare, e che  in certi momenti ha un po’ prevaricato le voci, ha, dal secondo atto, ammorbidito i propri tratti, pur rimanendo più incisiva e aderente nei passaggi che richiedevano enfatizzazione dei passaggi più drammatici che non in quelli più intimisti a cui sono mancate raffinatezze e scavi del particolare. Ottimo come sempre l’affiatatissimo Coro Lirico Marchigiano guidato da Martino Faggiani e Massimo Fiocchi Malaspina.
Gli specchi del grande scenografo ceco alla fine si sono inclinati in maniera tale da riflettere non più la scena o la buca orchestrale ma la platea e il pubblico che gremiva l’arena, come per avvicinare ogni singola persona seduta ad ascoltare l’immortale musica verdiana con il vissuto della protagonista, per trasportare ogni spettatore sul palco a dolersi per la perdita, per fondere realtà e dramma, per un’immedesimazione di massa. Con una regia meno esangue questa scenografia potrebbe avere ancora molto da dire.
Applausi finali per tutti con un calore particolare riservato a Salome Jicia e Alberto Gazale.

Si può amare uno specchio?
di Alberto Pellegrino

Si può essere innamorati di uno specchio? È la domanda che mi pongo ogni volta che assisto alla Traviata di Svoboda (1992), andata in scena ancora una volta per Macerata Opera Festival 2018. La mia risposta è sempre affermativa, perché dopo 26 anni lo specchio di Svododa rimane affascinante e intrigante, perché non ha perso la sua forza evocativa e coinvolgente nonostante dinanzi a lui siano ormai sfilate diverse generazioni di spettatori che non mancano mai di esserne attratti. La ragione è che lo specchio di Svoboda non ha solo il potere di rimandare l’immagine di una grande storia d’amore, ma ha il potere di catturare e riflettere la vita stessa come una straordinaria metafora esistenziale.
In quello specchio abbiamo visto riflessi il nostro amore per Violetta, abbiamo fatto nostra la sua fugace gioia d’amare (“Godiam, fugace e rapido/è il gaudio dell’amore;/è un fior che nasce e muore,/né più goder si può”), abbiamo provato prima invidia poi disprezzo per Alfredo che, per la sua gelosia e per la sua sostanziale vigliaccheria, non ha saputo vivere fino in fondo un così nobile amore.
Attraverso quello specchio abbiamo deprecato l’ipocrisia di Germont, un padre dall’animo borghese pronto a calpestare i sentimenti di una giovane donna sull’altare dell’onore familiare, nonostante avesse radicalmente trasformato la sua esistenza. Attraverso lo specchio abbiamo vissuto l’umiliazione di Violetta pronta a sacrificare la propria dignità pur di salvare la vita dell’uomo che ama (“Alfredo, Alfredo, di questo core/non puoi comprendere tutto l’amore,/tu non conosci fino a che prezzo/il tuo disprezzo – provato io l’ho”). Abbiamo assistito alla tardiva pietà e al ravvedimento di Germont (“Di sprezzo degno se stesso rende/chi pur nell’ira la donna offende… io sol fra tanti so qual virtute/di quella misera il se racchiude…/io so che l’ama, che gli è fedele;/eppur, crudele, tacer dovrò!”).
Lo specchio crea le giuste atmosfere per accogliere lo struggente Addio al passato di Violetta e ci coinvolge direttamente quando comincia lentamente ad alzarsi per accogliere tutti noi per stringerci in un grande abbraccio intorno a Violetta morente. Lo specchio della Traviata di Svoboda è entrato nel mito dello spettacolo lirico, perché in tanti anni è riuscito a riflettere i nostri amori, i nostri risentimenti, le nostre rabbie, la nostra pietà e soprattutto la nostra commozione per l’estremo sacrificio di un gigantesco personaggio femminile compiuto in nome di “quell’amore che è l’anima/dell’universo intero/misterioso, altero,/croce e delizia al cor”.

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