Gosford Park di Altman


di Manuel Caprari e altri

11 Mar 2001 - Commenti cinema

Gosford Park
(id.,USA 2001)
Produzione: Robert Altman, Joshua Astrachan, Bob Balaban, Jane Barclay, David Levy
Regia: Robert Altman
Sceneggiatura: Robert Altman, Bob Balaban, Julian Felowes
Fotografia:Andrew Dunn
Musiche: Patrick Doyle
Scenografia: Sarah Hauldren
Costumi: Jenny Beavan
Montaggio:Tim Squyres
Interpreti: Michael Gambon (Sir William McCordle), Kristin Scott Thomas (Lady Sylvia McCordle), Camilla Rutheford (Isobel McCordle), Maggie Smith (Costanza, contessa di Trentham), Charles Dance (Raymond, Lord Stockbridge), Geraldine Sommerville (Louisa, Lady Stockbridge), Tom Hollander (Anthony Meredith), Natasha Wigthman (Lady Lavinia Meredith)
Distribuzione: Medusa
Durata:137′

Recensione di Manuel Caprari

L’intrigo giallo, volutamente dozzinale, si integra naturalmente con tutto il resto delle vicende. Altman è sempre bravissimo a gestire decine di attori e a creare una fitta rete di interrelazioni tra decine di personaggi, non tutte necessariamente risolte o risolvibili all’interno di due ore di film; e lo staff che lo affianca, dal costumista allo scenografo al fotografo e a tutto il cast d’attori, è impeccabile. Ma sono cose dozzinali per Altman, fatte molte altre volte. Il regista è sicuramente in forma, ma non sembra poi così ispirato: i personaggi sono ben tratteggiati ma poco memorabili, poco incisivi; il sarcasmo corrosivo c’è, ma le battute non sono sempre brillantissime; la regia è ottima ma non particolarmente ricca di trovate intriganti. Un film che sa di manierato, piuttosto trascurabile nella filmografia del grandissimo regista; l’ambientazione inglese e i riferimenti al giallo stile Agatha Christie, insoliti per Altman, non bastano a dare un tocco di novità ad un lavoro complessivamente poco esaltante. Peccato.

Recensione di Sebastiano Lucci (sentieriselvaggi.net)

Celebrazione stilistica e allo stesso tempo opera celebrale, Altman tinteggia e rielabora con leggerezza, una profonda crisi collettiva. Gosford park , opera delicata e corposa, si illumina di luce propria in un affascinante e straordinario ritratto di un mondo illuminato dalla sapiente regia di un maestro che osserva e che racconta grande rigore e spigliata ironia. Nella personale rielaborazione compiuta da Altman di uno spaccato della società inglese e di un epoca vengono messi in luce i vizi, i segreti, in un panorama comportamentale dove all’iniziale tranquillità si fa mano mano strada un profondo disagio collettivo che investe un malessere di vita.
Celebrazione stilistica e allo stesso tempo opera celebrale, Altman tinteggia e rielabora con leggerezza una crisi collettiva, compiendo la consueta rielaborazione personale attraverso strumenti già sperimentati: lo zoom, le superfici riflesse, lo spazio periferico. Elegante ritratto citazionale in cui al cinema (Charlie Chan) si affianca la letteratura (Agatha Christie), dove il genere popolare incontra il mondo dell’aristocrazia in un girotondo vorticoso di battute feroci e sottili, tra disprezzo e ingenuità , connivenze e orgogli feriti.
Affiorano le luci (così vellutate e soffocate) e le ombre di un mondo sommerso dal dolore e dal rancore, dall’insofferenza e dall’alienazione. Gli stessi colori (così delicatamente sfumati, quasi irreali), rimandano alla consueta sensazione di spaesamento del cinema altmaniano dove l’apparente calma, l’ordine pre-stabilito finisce puntualmente per essere travolto. I ruoli ben ordinati, ben definti, con il quale Altman apre la sua finestra in questo universo, e con la quale i personaggi si presentano alla tenuta dell’eccentrico Sir William McCordle (Michael Gambon) finiscono per invertirsi nell’ormai consueto approccio altmaniano di decomposizione e destrutturazione. Tutto è il contrario di quello a cui assistiamo. Niente è reale. E’ tutta una rappresentazione.
I mondi socialmente e visivamente separati (come ironicamente evidenziato nei titoli di coda al piano di sopra e al piano di sotto ) non sono altro che il riflesso di una separazione superficiale, mentre risultano ben più complessi, duraturi e drammatici i loro rapporti. E in questa disarticolazione progressiva emergono i personaggi outsider , come Mary (Kelly MacDonald), vero anello di congiunzione, testimone oculare e indagatrice, che recupera i pezzi mancanti per ricomporre (e non tanto svelare) un mistero che non ha mai interessato più di tanto..
Opera corale e labirintica che impone una rigorosa attenzione, dove lo sguardo vaga all’interno dell’inquadratura e si diletta a trovare e (ri)scoprire gli elementi ripresi quasi di sfuggita, nel tentativo di ricomporre l’anello mancante, che altro non è che l’ennesimo espediente per sviare l’attenzione dello spettatore, vera vittima e complice del mondo altmaniano. In un’epoca dominata dalle tecnologie ed effetti speciali, il regista di “Kansas City”, si limita a raccontare una sublime storia coinvolgendoci sempre di più nella sua spirale vertiginosa della condizione umana.

Recensione di Ludovica Rampoldi (film.it)

Altman sceglie l’Inghilterra per ambientare il suo ultimo film, candidato a sette nomination all’Oscar anche come Miglior Film e Miglior Regia. Per immergersi in pieno nell’umida e ricca campagna inglese il regista americano si è circondato di attori perfettamente british’ e ha ricreato in modo impeccabile l’atmosfera snob della nobiltà sull’orlo della crisi a cavallo tra le due guerre.
1932. Gosford Park è la ricca tenuta di Sir William McCordle, che con la moglie Lady Sylvia ha organizzato un weekend nella casa in campagna. Il nugolo degli invitati comprende aristocratiche contesse, eroi della prima guerra mondiale, un attore di successo (Ivor Novello, l’idolo britannico delle matinèe) e un produttore americano dei film di Charlie Chan, tutti con un infinito codazzo al seguito di servitù, valletti e cameriere. Tra i piani alti dei nobili e i piani bassi della sudditanza c’è molto più di qualche pregiata scala intarsiata. Altman struttura il suo film salendo e scendendo nella scala sociale: i ricchi con le loro arie annoiate e distanti, la servitù che si fa chiamare col nome dei loro padroni e che ne adotta il linguaggio aulico. Ma i due piani verranno a coincidere e quello ne risulterà sarà un assassinio. O forse due. Una commedia di maniera, un racconto alla Agata Christie, un divertissment in stile Charlie Chan. L’invito a cena con delitto che ci propone Altman dilata la struttura del giallo e finisce per scavare nella profondità dei personaggi, ironizzando sull’aristocrazia inglese, classe sociale in agonia che seppur dotata di titoli, denaro e posizione ha bisogno del valletto per mettersi i calzini. Il punto di vista adottato è quello del sottosuolo della servitù: Altman non ci mostra i piani alti se non attraverso gli occhi dei camerieri, come se non si volesse mischiare con certa gente in uno snobismo al contrario. Gosford Park ha una bellezza sottile, eppure nonostante gli attori bravissimi (un’eccezionale Maggie Smith), i dialoghi brillanti e taglienti, un uso sapiente dell’umorismo british, una perfetta ricreazione delle atmosfere e dei personaggi, c’è qualcosa nel film che non riesce a entrare fino in fondo. Di fronte al film di Altman si rimane come la servitù di Gosford Park, ammaliata da un nobile mondo sontuoso e affascinante con il quale però non riesce a entrare in contatto e nel quale non può essere totalmente coinvolta, e si limita a osservalo da dietro una porta cercando di fare il meno rumore possibile.

ROBERT ALTMAN, AUTORE CONTRO
di Adriano Ercolani (film.it)

Nella storia del cinema americano molti grandi autori si sono schierati, più o meno apertamente, contro il sistema hollywoodiano e la politica commerciale delle grandi Major; soltanto Robert Altman ha però costruito al sua intera carriera all’insegna della de-costruzione e della smitizzazione del cinema e dei generi classici di Hollywood. Il saper improntare le proprie opere ad una costante e feroce de-mitizzazione di eroi e situazioni stereotipate; il costruire storie di personaggi mai retorici e moralmente ambigui; adoperare uno stile di regia completamente anti-spettacolare, dove l’intervento della m.d.p. non è mai casuale o volutamente esposta . Questi, in rapida sintesi, gli stilemi principali dell’opera di Altman, autore che nel corso della sua carriera ha saputo attraversare tutti i principali generi cinematografici americani, minandone dall’interno le fondamenta per farli esplodere, e farli diventare allo stesso tempo opere personalissime: pensiamo ad esempio al suo primo grande capolavoro, Mash (M.A.S.H., 1970), rivisitazione del film di guerra operata in modo amaro ed ironico. Oppure non possiamo citare il grande Il Lungo Addio (The Long Goodbye, 1973), noir chandleriano in cui il detective privato Philip Marlowe non è il duro Humprey Bogart ma lo smidollato e cinico Elliott Gould. Ma il film che forse meglio esemplifica la poetica e lo stile di Altman è Nashville (id.,197), amarissima riflessione sul senso dello spettacolo americano, dove i personaggi, pur con le loro proprie dimensioni interiori, vengono trattati solamente come pedine da muovere per far continuare a funzionare il baraccone dello show business . Durante il concerto country, anche quando alla fine la stellina di turno verrà assassinata dal giovane fanatico, lo spettacolo andrà avanti, a tutto tornerà come prima. Dietro la metafora di Nashville , e di quasi tutti i film di Altman, si nasconde un duro atto di accusa contro le leggi che regolano lo star system ad Hollywood, che infatti non lo ha mai accolto tra le proprie braccia come ha fatto con gli altri grandi registi della sua epoca. Ed infatti la stella di Altman si è eclissata a partire dalla dine degli anni ’70, soprattutto dopo l’insuccesso commerciale del suo Braccio di ferro (Popeye, 1980). Dopo più di un decennio dio opere poco conosciute e di insuccessi, il grande autore è però tornato con due film straordinari, I Protagonisti (The Player, 1992), e America Oggi (Short Cuts, 1993), che lo hanno definitivamente rilanciato nell’Olimpo dei grandi autori americani e mondiali. Da allora Altman ha alternato pellicole più esplicitamente leggere come La Fortuna di Cookie (Cookie’s Fortune, 1998) e Il Dottor T. e le Donne (Doctor T. and the Women, 2000), ad opere più personali e di impatto come il bellissimo e parzialmente incompreso Kansas City (id., 1996). Adesso, con il giallo in costume Gosford Park (id., 2001), ha ottenuto la sua quinta nomination all’oscar, un riconoscimento che la nemica Hollywood proprio non ha potuto negargli.

INVITO A CENA CON DELITTO
di Luca Perotti (fonte: film.it)

Tè alle quattro, cena alle otto, delitto a mezzanotte. Lo slogan di accompagnamento dell’ultimo film di Altman riporta alla mente le atmosfere delittuose ed eleganti dei romanzi di Agatha Christie, soprattutto quel Dieci piccoli indiani più volte adattato per il grande schermo. Un manipolo di ospiti, un intrigo sotterraneo di inganni, un omicidio e la ricerca del colpevole all’interno di un maniero: questi gli ingredienti basilari e i punti cardine del genere.
Tra i precedenti più autorevoli e succulenti c’è quel Invito a cena con delitto del 1976 interpretato da Peter Falk e da Maggie Smith(presente anche nel film di Altman) e scritto dal celebre Neil Simon.
Cinque scrittori di detective story sono invitati in una bizzarra abitazione condita da maggiordomi ciechi e cameriere sordomute, passaggi segreti e false identità per risolvere un’inspegabile mistero. Solitamente la strada verso la soluzione del giallo prevede l’eliminazione fisica degli ospiti e un finale sorprendente che culmina in un colpo di scena e in una sfilza di scheletri nell’armadio che nel corso dell’indagine sono trascinati fuori a colpi di confessioni dettate dallo stress. La parola insospettabile non ha più alcun significato perchè, spesso grazie all’ausilio dell’immancabile indagatore che passa al setaccio presenti e possibili indizi, tutti i partecipanti si rivelano colpevoli di qualche misfatto, dall’assassinio stesso al semplice doppio gioco.
Una rilettura a tinte più leggere è sicuramente Clue del 1985, con Tim Curry (il travestito di Rocky Horror Picture Show ). Un’assortimento di armi, un drappello di sconosciuti, la luce che si spegne e il padrone di casa che muore.
Toccherà al maggiordomo ricreare gli eventi per scoprire l’identità dell’assassino in tre finali differenti mentre altre persone continuano ad arrivare nella dimora maledetta ed essere assassinate.
Uno degli aspetti interessanti del film di Altman è il duplice brulicare di vite e inghippi: da una parte i riccastri stravaganti, dall’altra un esercito di domestici che agiscono nelle retrovie. L’omicidio spezza l’armonia di entrambi i mondi ma nello stesso tempo li mette in comunicazione, li congiunge e offre lo spunto per indagare le somiglianze e le difformità .
L’analisi della contrapposizione della società dei servi a quella dei padroni all’interno di uno spazio limitato come può essere una villa ha un inarrivabile precedente ne La regola del gioco , uno dei capolavori di Renoir perchè i conflitti e le situazioni servono da spunto per aprire una finestra sulla realtà sociale, per rivelare costumi e ideologie che superano i limiti della narrazione.
Nei film in questione, quando i nodi si sciolgono e gli enigmi si chiariscono, rimane solamente una dolorosa aria di sconfitta e di decadenza e si scopre spesso che accanto al morto sfilano le altre vittime, quelle vive ma stravolte da un’esperienza che ha cambiato la loro esistenza e ha tirato giù le maschere.

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