Finalmente una valida Butterfly alla Sferisterio di Macerata


di Alberto Pellegrino

30 Ago 2017 - Commenti classica, Musica classica

Macerata (12.08.2017). Recentemente il regista Davide Livermore, parlando delle regie liriche, ha dichiarato: “L’opera non può essere un museo, non deve far stare il pubblico comodamente sdraiato nella Jacuzzi o mettere un vetro tra palcoscenico e platea. Deve essere viva e celebrare la nostra società, la nostra intelligenza: serve a capire, a seminare dubbi. Non in modo arbitrario, ma sempre rispettando la musica e il libretto”.
È praticamente quello che ha fatto il regista della Butterfly data allo Sferisterio di Macerata, Nicola Berloffa, che si è messo al servizio della partitura senza bisogno di     mostrare il proprio super ego, ma curando una messa in scena secondo un progetto coerente con il libretto e segnato da una sua logica interiore. Per prima cosa ha fatto una scelta temporale corretta, collocando la vicenda nel Giappone del 1945 appena conquistato dagli americani con un mix tra la cultura giapponese del kimono e quella  statunitense della Coca-Cola. Ha incarnato simbolicamente il sogno di Butterfly di diventare un’americana nel cinema statunitense dell’immediato dopoguerra. Nel primo atto la scena è occupata dalle abitazioni e dal teatro delle geishe, dove i marinai americani arrivano in cerca di facili conquiste e dove arriva con i suoi dollari anche Pinkerton attratto dalla bellezza della quindicenne Butterfly e insensibile ai consigli di prudenza del suo console.
Nel secondo atto lo scenario rimane lo stesso, ma cambia completamente il climax, perché intorno all’abitazione di Cio-Cio-San ci sono case di malaffare abitate da giovani donne giapponesi che hanno sostituito il kimono con abiti occidentali, mentre c’è un continuo traffico di soldati, marinai e civili. La parte centrale della  scena è dominata da un proiettore cinematografico che invia sullo schermo quelle immagini destinate a consolidare la finzione che consente a Butterfly di sopravvivere sospesa fra un mondo che l’ha ripudiata e un mondo che non l’ha accolta come una sposa americana. Questa illusione d’integrazione culturale tocca il suo vertice durante il celebre “coro a bocca chiusa”, quando la regia gioca con coraggio la carta di proiettare le evoluzioni acquatiche di Ester William, star di Bellezze al bagno di George Sidney, un film girato nel 1944 che segna il trionfo mondiale del Kitsch americano. Posta dinanzi alla dura realtà del matrimonio occidentale di Pinkerton e alla consapevolezza di perdere il bambino nato in quella sua unica notte d’amore, Cio-Cio-San avverte di avere toccato il fondo della solitudine e dell’emarginazione. In uno scatto di ritrovato orgoglio, indossa allora il suo abito di sposa, sale sul palcoscenico cinematografico dinanzi a un pubblico di prostitute e, avvolta nel suo abito candido nuziale, compie il rituale del suicidio con eleganti e studiate movenze di danza: le ali della piccola farfalla cessano di battere con grande dignità, facendo passare sulla platea un fremito d’emozione.
Ben sorretta dall’asciutta direzione di Massimo Zanetti, tutta l’opera vede come protagonista assoluta il soprano Maria José Siri, una straordinaria Butterfly per la raffinata tecnica vocale, per l’eleganza e l’intensità interpretativa; al suo fianco una ottima Manuela Custer che indossa i panni di Suzuki e un Alberto Mastromarino che disegna con consumata esperienza un credibile console Sharpless. Un discorso a parte merita il tenore Antonello Palombi che ha già faticato a tenere testa nel duetto d’amore che chiude il primo atto alla grande voce della Siri. Il discorso riguarda però la direzione artistica che, dopo tanto parlare della trasformazione del melodramma in teatro in musica, dovrebbe tenere conto della credibilità del personaggio nella scelta degli interpreti: come è possibile pensare a un aitante ufficiale della marina statunitense con quella fluida chioma da figlio dei fiori che nessun esercito avrebbe tollerato, come accettare quella pancia prominente per coprire la quale la sartoria gli ha dovuto cucire addosso una specie di palandrana blu con bottoni d’oro, solo una pallida parvenza della divisa d’ordinanza di un ufficiale di marina? Possibile che non c’era in Italia un giovane tenore in grado d’indossare una divisa? Non sarà un caso se un giovane tenore napoletano di 25 anni, Vincenzo Costanzo, abbia già interpretato per oltre cento volte la parte di Pinkerton. Era proprio impossibile portarlo allo Sferisterio come credibile partner della Siri?

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