Dare a Verdi quel che è di Verdi: Rigoletto al Ponchielli di Cremona


di Andrea Zepponi

27 Dic 2017 - Commenti classica, Musica classica

Ci sono delle regie che colgono in pieno la verità nascosta all’interno di capolavori del teatro lirico dotati di tradizione interpretativa consolidata ma pur sempre aperta a nuove letture proprio per la loro ricchezza polisemica. Quanto più la regia legge nella profondità del testo musicale e letterario, tanto più innova e risulta trasparente al pubblico. È il caso del Rigoletto verdiano cui ho assistito al Teatro Ponchielli di Cremona lo scorso 10 dicembre in pomeridiana. Uno spettacolo dove precise scelte di regia gettavano luci ulteriori sul tessuto teatrale ispirato al prototipo della wundekammer cinquecentesca: qui il tema del collezionismo e dei mirabilia si intrecciava alla concezione del destino tragico dei personaggi. In questa chiarezza di intenti riverberanti anche sulla qualità della ricezione musicale, la regista Elena Barbalich ha costruito la metafora teatrale del destino artificialmente prescritto proprio come quello per cui il collezionista predispone oggetti nella sua camera delle meraviglie in una serialità che è, in un caso, volontà di potenza e di morte nell’altro: ecco schiudersi nel primo atto un palazzo di Mantova dove erano esposte delle figure di donna praticamente nude in una atmosfera museale con molteplici riferimenti iconografici: in questo caso dalle chiome e dalle dita di diverse Dafne senza Apollo spuntavano germogli arborei prefiguranti il destino di morte insito nella dimensione di Rigoletto e della sua casa dove alberi racchiusi in teche illuminate e protetti dal mondo esterno, come Gilda lo è dal padre, richiamavano la metafora quasi ossessiva che la regia ha desunto dal testo Le roi s’amuse di Victor Hugo, origine del Rigoletto verdiano e riecheggiante anche nel libretto di Francesco Maria Piave: quella che attiene al mondo vegetale con le parole “pianta, fiore, foglie, rami”, elementi  naturali destinati ad un ferreo ciclo vitale vanamente scongiurato da una cura maniacale. Questa sembra la vera colpa di Rigoletto – più che la sua tracotanza verso Monterone – che sfocia nella consapevolezza tragica, proprio come Edipo, di aver avviato gli eventi verso la catastrofe nel modo stesso con cui voleva evitarla. Il marchingegno metaforico poteva scattare a più livelli se si pensa al senso museale e di reperto archeologico che nel panorama musicale odierno si attribuisce all’opera come genere; metafore sceniche accompagnate da intuizioni notevoli che, seppure innovando, approfondivano le ragioni intime della vicenda: una per tutte, il quartetto Bella figlia dell’amore durante il quale Gilda si rivelava a un Duca ormai irretito da Maddalena, e viveva una maggiore delusione nel constatare che il libertino le preferisce un’altra e la congeda con una carezza consegnandola ad un maggior senso di perdita e delusione. Un altro tratto saliente di questa geniale lettura scenica è riservato alla figura femminile nell’opera, Contessa di Ceprano e Maddalena comprese, che, nel presentarsi in pose rigide da manichino e adagiate tutte poi supinamente, rendevano ben visibile quale immagine della donna fosse insita nella mentalità di un Duca ed anche di Rigoletto stesso: un oggetto vivo da collezionare o da costringere ad una vita non sua. Le figure maschili, nella visione registica, rendevano visibile una condizione universale, al di là del ruolo storicamente determinato, con i costumi dalla allusiva ambivalenza dello scenografo Tommaso Lagattolla dove la doppia collocazione temporale cinquecento-odierna esibiva una potenzialità e un raggio di azione superiore a quello delle figure femminili: il Duca è un narcisista insicuro anche del suo amore per Gilda e fa addirittura il galante con una prostituta, Rigoletto in realtà non ha la gobba, che diventa mera protesi buffonesca, ma il suo vero handicap è la frustrazione e il risentimento. La valenza interpretativa della regia rendeva organico anche il discorso scenografico dispiegato su nudità funzionali all’unità tragica del luogo in cui si compie la vicenda: ciò che è del Duca appartiene anche a Rigoletto nella misura in cui ambedue agiscono sull’elemento femminile, ma, infine anche quello viene tolto a Rigoletto e la sua vera casa è la dimensione coscienziale – lacerto di monologo interiore è la frase Riedo!… perché? – per cui nel terzo atto nella taverna di Sparafucile si realizzava l’esplosione di questa dimensione domestica con suppellettili sospese in una acronia simbolicamente motivata. In questa profondità di lettura i cantanti trovavano un giusto risalto e un ottimo rilievo senza unilateralità di vedute registiche, come purtroppo spesso avviene in altri spettacoli dove si assiste al violentamento del testo e al pervertimento delle volontà dell’autore da parte della regia che abbandona in troppi casi gli artisti a sé stessi. Non in questo caso in cui il cast validissimo era ben diretto e, sebbene il baritono Angelo Veccia nel title-rȏle si sia fatto annunciare febbricitante, il pubblico cremonese ha ascoltato una interessante esecuzione musicale e vocale del capolavoro verdiano. Onore al merito di Veccia, che ha sostenuto la parte con grande sensibilità gestuale ed esemplare competenza tecnica: il suo collaudato Rigoletto è giovane, parla ad un pubblico odierno e incarna una condizione universale. La Gilda del soprano di Lucrezia Drei era perfetta nell’emissione e aveva il giusto spessore anche nelle frasi più drammatiche con una presenza scenica toccante. Felice l’interpretazione del Duca di Mantova del tenore Matteo Falcier dalle capacità più che notevoli – l’opera non presentava puntature acute di tradizione ed era filologicamente assestata – il quale ha dimostrato ottima padronanza nei momenti di belcanto: ad esempio nella cadenza del duetto con il soprano E’ il sol dell’anima – indi notevole espansione nei punti più distesi: Parmi veder le lagrime e cabaletta senza ripresa. Applaudissimo anche nella Donna è mobile, si è rivelato artista con le carte in regola per una carriera tenorile importante. Intenso e nel contempo ben interiorizzato è parso lo Sparafucile del basso Alessio Cacciamani insieme al mezzosoprano Katarina Giotas in Maddalena, entrambi credibili in senso attoriale e ben sbalzati vocalmente. Meno forte purtroppo il comprimariato costituito da Matteo Mollica in un deludente conte di Monterone sfocato e stimbrato e dalle voci acaratteriali di Giuseppe Distefano in Matteo Borsa, Guido Dazzini in Marullo e Giuseppe Zema nel Conte di Ceprano. Quasi inesistenti
il Paggio di Luisa Maria Bertoli e l’Usciere di Giacomo Archetti. Buon riscontro vocale invece quello di Anna Bessi nella Contessa di Ceprano ed anche in senso scenico quello di Nadiya Petrenko in Giovanna.
Efficacissimi suonavano i tempi tenuti dal M° Pietro Rizzo alla guida dell’Orchestra I Pomeriggi Musicali, che hanno impresso al capolavoro verdiano il dovuto ritmo drammatico compatibile con lo stile vocale dato da Verdi ai personaggi e tutta la compagine strumentale che respirava anche in senso dinamico-timbrico con quanto succedeva sulla scena. Ottimo il Coro di OperaLombardia, diretto dal M° Massimo Fiocchi Malaspina, ha contribuito a raggiungere la cosiddetta tinta verdiana. Alla fine un pubblico intelligente e soddisfatto ha compreso e applaudito con entusiasmo ed emozione un’opera così difficile da gradire se non viene realizzata attingendo al sublime.
Teatro Amilcare Ponchielli di Cremona
Rigoletto
Melodramma in tre atti. Libretto di Francesco Maria Piave.
musica di Giuseppe Verdi

Personaggi ed Interpreti
Rigoletto Angelo Veccia
Gilda Lucrezia Drei
Duca di Mantova Matteo Falcier
Sparafucile Alessio Cacciamani
Maddalena Katarina Giotas
Giovanna Nadiya Petrenko
Conte di Monterone Matteo Mollica
Matteo Borsa Giuseppe Distefano
Marullo Guido Dazzini
Il Conte di Ceprano Giuseppe Zema
Contessa di Ceprano Anna Bessi
Paggio Luisa Maria Bertoli
Usciere Giacomo Archetti

direttore
Pietro Rizzo
regia
Elena Barbalich
aiuto regista e movimenti coreografici Danilo Rubeca
scene e costumi Tommaso Lagattolla
luci Fiammetta Baldiserri
ORCHESTRA I POMERIGGI MUSICALI
CORO OPERALOMBARDIA
maestro del coro Massimo Fiocchi Malaspina
Nuovo allestimento
Coproduzione dei Teatri di OperaLombardia
e Fondazione Pergolesi Spontini di Jesi

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