Black Hawk Down


di Manuel Caprari e Luca Perotti

11 Ago 2013 - Commenti cinema

 

Recensione di Manuel Caprari

Nonostante Black Hawk Down sia probabilmente il miglior film prodotto da Jerry Bruckheimer, e uno dei più dignitosi titoli dell’ultimo Ridley Scott, un senso di perplessità resta, alla fine della visione. Il film è visivamente splendido, con una fotografia di gran classe ma anche corposa, ricca di ombre, controluce e contrasti di chiaroscuri molto suggestivi; ed è anche emotivamente
coinvolgente, duro e tutt’altro che consolatorio, nonostante le continue scene di battaglia risultino a volte un po’ monotone; anche perchè, detto tra noi, dopo aver visto i primi quaranta minuti di Salvate Il Soldato Ryan, la nuova versione di Apocalypse Now e molti altri film di guerra meritevoli di citazione, si è un po’ vaccinati contro l’effetto-shock della crudezza della guerra ricostruita al cinema. Quello che non si capisce è quale tesi il film cerchi di portare avanti. Il fatto vero a cui si riferisce è e resta oscuro; il regista non ne tenta una lettura univoca, e fa bene. Ma invece di spargere dubbi e ipotesi a piene mani li sussurra appena, quasi a margine. Butta là una fugace battuta che sembra incolpare Washington di non aver attrezzato adeguatamente i soldati, cioè di aver sottovalutato la pericolosità della missione. Sembra lasciar trapelare, qua e là , il sospetto che ci siano stati ritardi e tentennamenti nell’organizzazione dei soccorsi, dovuti a qualche lungaggine negli ingranaggi della burocrazia militare. Insinua il dubbio che i marines siano caduti in una trappola bella e buona. Ma tutto questo non è nemmeno una cornice, sono puri accenni, affogati in due ore abbondanti di sparatorie assortite. Alla fine sembra che quello che prema di più sia dare una buona immagine dei marines, di questi giovanotti valorosi che vanno in giro per il mondo a combattere guerre non loro per spirito d’abnegazione o meglio ancora per carattere, non per eroismo, come dice alla fine uno dei personaggi, ma perchè a volte le cose vanno così. Niente di male, intendiamoci: non vogliamo fare il processo alle intenzioni, e non è che bisogna essere per forza
polemici o contestatori per fare un bel film. Ma se poi questi marines sono modellati su uno schema psicologico di una piattezza disarmante persino in confronto ad altri film di Ridley Scott ,che con le psicologie non è mai andato troppo per il sottile, tutto questo a cosa serve? Che poi, a pensarci bene, anche questo aspetto filo-marines è piuttosto en passant, chissà che non sia solo un contentino per Bruckheimer, che sulla retorica più vieta e pecoreccia ha fatto la sua fortuna, ma che nel caso di Pearl Harbour gli si è parzialmente ritorta contro; che il mezzo flop (almeno rispetto alle aspettative) di quel bruttissimo film l’abbia reso abbastanza scaltro da moderare i toni e da affidarsi ad un regista più professionale di Michael Bay? Insomma, alla fin fine, tra tante vie appena accennate, in concreto quale direzione prende Black Hawk Down? Forse è solo un esercizio di stile, tanto ben riuscito quanto dimenticabile. A meno che il fulcro del discorso non sia tutto nella battuta di un soldato che sostiene che quando si è in mezzo alle pallottole la politica e tutte le altre cazzate volano fuori dalla finestra. Se è solo questo, allora il film di Scott può dirsi sostanzialmente riuscito, perchè tutto sommato riesce a farci stare dentro il conflitto. Ma mi sembra un po’ poco per supportare due ore e più di film; anche perchè non è certo il primo ad esserci riuscito, e nemmeno quello che ci sia riuscito meglio.
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Black Hawk Down

Recensione di Luca Perotti (fonte: film.it)

Basato su fatti realmente accaduti, Black Hawk Down è la cronaca serrata di una battaglia svoltasi nel centro di Mogadiscio nell’ottobre del 1993 durante le operazioni di pace dell’ONU, mirate a porre fine alla guerra civile somala. La missione prevedeva un’incursione da parte di due corpi scelti dell’esercito americano (i Rangers e i Delta Force) nel quartiere centrale della città e la cattura di due luogotenenti del terribile Aidid al fine di minare alla base il potere del generale accusato di alimentare brutalmente il conflitto. Ma l’abbattimento di uno degli elicotteri trasformò quello che doveva essere un rapido intervento in un’azione di salvataggio condotta nel mezzo di un’orda di agguerritissimi civili somali che consideravano gli americani come degli invasori, nemici della libertà e venuti a combattere una guerra che non gli apparteneva. Il luogo dell’impatto diviene il punto focale attorno al quale si svolge una guerriglia urbana che smembra la strategia studiata a tavolino da parte dei marines, costretti a subire gli agguati delle rabbiose forze somale legate ad Aidid; la loro coesione viene scompaginata dall’imprevisto e la squadra statunitense si disperde in una trappola, incrementando feriti, necessità di soccorso e percentuale di rischio. Solo l’ordine di non abbandonare mai nessuno, nè vivo nè morto, compatta il gruppo con la forza di uno slogan patriottico e non lo frena dinanzi ad un’inattesa escalation di sangue, orrore e morte. Ridley Scott si svincola da qualsiasi analisi sociale e politica della guerra civile concentrandosi sull’essenza fisica dello scontro, interamente vissuto attraverso un unico punto di vista. Riuscendo nell’impresa di mantenere un ritmo costante e vertiginoso, Scott si colloca al centro dell’inferno, in mezzo alle linee americane dove il martirio corale si asciuga nei dettagli, si puntualizza nella messa a fuoco esclusiva degli spasimi a stelle e strisce mentre gli smilzi’ neri, di cui si percepiscono le vampate furenti, abitano solamente lo sfondo. Ogni dubbio sull’opportunità della presenza in suolo somalo di questo drappello di salvatori della patria altrui viene ingoiato dalla forsennata crudezza dello scontro, malgrado le superflue perplessità del giovane sergente Eversmann, le cui blande utopie si spengono davanti al pragmatismo dei compagni. La portata mitica dei racconti sulla guerra vietnamita sembra morta e sepolta insieme alle sollecitazioni idealiste di quei soldati scaraventati nella giungla. I nuovi patrioti sono poliziotti specializzati che hanno scelto il mestiere e ubbidiscono agli ordini. Gli arcani disegni politici ed economici dietro ogni conflitto non fanno più audience, sono dati per scontati e non rimane che abbandonarsi al vigore muscolare della battaglia, senza un prima nè un dopo nè un perchè.
(Manuel Caprari e Luca Perotti )

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