Archivio Bellosguardo in Mostra a Roma, fotografie di famiglia e produzione fotografica


di Giorgio Tassi

23 Dic 2019 - Altre Arti, Eventi e..., Arti Visive

Mostra fotografica dell’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione di Roma sull’Archivio di Bellosguardo, fino al 24 gennaio 2020. Relazione tra passato e presente nelle immagini fotografiche di famiglia e di autori contemporanei.

NOMEN OMEN, nel nome un destino, dicevano i latini. Non poteva che essere Bellosguardo, la cittadina del Cilento, quale luogo per costruire un percorso narrativo per immagini, che metta insieme tradizione e modernità, ricordo ed immediatezza del presente.

Nasce così la mostra che si tiene all’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, in via di San Michele18 – ROMA, fino al 24 gennaio 2020.

Il progetto Archivio Bellosguardo si articola sulla relazione tra passato / presente. Da una parte scorrono le immagini estratte dagli album di famiglia, organizzate in gruppi tematici quali paesaggio, ambienti urbani, ritratti. Immagini di piccole dimensioni, in b/n, a colori, sottratte alla sfera privata, per divenire documento di testimonianza di ciò che vuole essere ricordato. Come spesso sono le foto di famiglia, anche qui ci troviamo di fronte ad una cifra caratterizzata da immediatezza, approssimazione compositiva, legame affettivo che unisce e condiziona la relazione fotografo – fotografato/a.

C’è un’immagine, anzi, non c’è un’immagine, ma il retro della stessa, che in maniera sublime, sottolinea questa prossimità: “questa la fatta michele che la macchina la faceva ballare è non avvenuta tanto vella”.

Sguardi, pose, momenti di felicità, luoghi lontani, in una parola la storia, non condizionata da ideologie, o retorica.

Dentro alle foto degli abitanti di Bellosguardo c’è la storia di una umanità, delle mode che cambiavano con il cambiare dei tempi: il colore, le fogge dei vestiti, le acconciature, le automobili nuove. Foto scattate dall’amico, dal cugino, dal papà, orgoglioso della bambina con il vestito della prima comunione. C’è l’approssimazione di chi fotografava, di chi inseriva inconsapevolmente la propria ombra nell’inquadratura, di chi non tratteneva il respiro e faceva foto mosse, di chi ignorando l’errore di parallasse, tagliava gli scalpi come un novello Geronimo. C’erano le macchine fotografiche, strumenti di tortura verso chi doveva essere ritratto, ma anche per chi doveva scattare: quei numeri impossibili, a cui veniva in soccorso il fotografo, quello vero, quello con lo studio, che si chiamava per le foto del matrimonio, che al pari di un moderno alchimista segnava su un pezzo di carta, da conservare gelosamente nella custodia in pelle, i numeri da regolare, per far sì che la foto …venisse.

Ci sono i luoghi lontani, mai visti prima, le città dell’America, del Canada, dell’Australia, di tutte le mete dell’emigrazione verso cui si riversarono gli abitanti di Bellosguardo, condividendo lo stesso destino di moltissimi connazionali: la fotografia come ready -made, in grado di rendere vicino ciò che era lontano nel tempo e nello spazio.

C’è tutto questo anche nel video, che mostra nella stessa sequenza dell’esposizione le immagini, stavolta ingrandite, permettendo così di cogliere particolari e dettagli altrimenti invisibili.

Il racconto del presente è affidato a cinque fotografi, Alessandro Coco, Valerio Monreale, Nunzia Pallante, Mattia Panunzio e Sara Wiedmann, che nel loro periodo di residenza a Bellosguardo hanno declinato attraverso la propria sensibilità, il loro approccio, nuovi percorsi visivi / narrativi. Cinque scelte differenti, che vanno dal libero vagare senza alcun progetto (ma con sguardo consapevole) di Valerio Morreale, alle Ortipedie di Nunzia Pallante, che pone al centro delle sue immagini la natura / cultura, da Mattia Pannunzio che pone l’accento sul rapporto tra racconto e realtà, alle ri / rappresentazioni di Alessandro Coco, che sceglie di non rappresentare i luoghi, ma di concentrarsi sulle loro rappresentazioni esistenti, un dipinto, la statua di un santo o il cartello del Parco, per concludersi con le assenze da cui prende spunto il lavoro di Sara Wiedmann: l’assenza delle donne negli spazi pubblici, che lei va a scovare nei luoghi di lavoro per restituire loro il giusto peso nella società.

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