“Andrea Chénier” alla Scala dopo 32 anni per inaugurare la stagione operistica 2018


di Alberto Pellegrino

14 Dic 2017 - Commenti classica, Musica classica

Milano. Il 7 dicembre è andato in scena nel Teatro alla Scala il dramma verista di Umberto Giordano sotto la direzione di Riccardo Chailly, con la regia di Mario Martone e con la scenografia di Margherita Palli. Chailly, che ha diretto l’opera altre tre volte, ha detto che 32 anni sono un periodo troppo lungo per mettere in scena un’opera che ha esordito alla Scala nel 1896, che è amata dal pubblico in tutto il mondo e che rappresenta una prova molto impegnativa per musicisti e cantanti: “Chi guarda al Verismo con sufficienza– ha detto Chailly – dimentica che è un linguaggio difficile, fatto di sinfonie audaci e di lavoro d’insieme intenso”. Il direttore ha chiesto al pubblico di non applaudire dopo le sei arie dell’opera per non interrompere il “flusso musicale” ed anche per rispettare la volontà dell’autore che ha lasciato scritto di eseguire l’opera senza interruzioni.
Il regista Mario Martone, che per la terza volta affronta un dramma storico (Morte di Danton in teatro e Noi credevamo al cinema) ha affermato che «Ogni rivoluzione reca con sé una contraddizione tra slancio vitale e conclusione tragica, da quella russa alla primavera araba. Noi non guardiamo alla rivoluzione in maniera reazionaria: non lo fanno né Illica né Giordano. Ma Gérard è un legno storto: prima un servo che si ribella, poi un capo pronto alla violenza sulle donne».
La scenografia di Margherita Palli è come un’enorme giostra montata su una piattaforma girevole che permette di fare cambi veloci di scena senza interruzioni fra il primo e il secondo quadro, poi fra il terzo e il quarto. C’è il salone delle feste con una parete di specchi, il caffé Hottot con il busto di Marat che riprende quello esposto al Carnevalet, il museo dedicato alla storia di Parigi, c’è la grande bandiera francese con la scritta “Liberté, Egalité, Farternité”, c’è la carretta che porta i condannati al patibolo, c’è un ponte a grandezza naturale che ricorda il Pont Neuf, il primo ponte in pietra costruito a Parigi prima della Rivoluzione. Nel finale troneggia in alto, contro uno sfondo bianco ghiaccio, la ghigliottina (la stessa che Martone aveva usato nel film Noi credevamo e nello spettacolo teatrale Morte di Danton di Georg Buchner) affiancata in modo statuario dal un boia incappucciato, da Chenier e Maddalena. Tutto è stato realizzato dai laboratori della Scala e ci sono voluti una tonnellata e 230 chili di stucchi, 630 metri di tela, quattro quintali e mezzo di colori, trecento chili di terra, 50 mila graffette, 13.500 viti, 90 lastre di polistirolo, 370 chili di poliestere, 1.780 metri di tubolari, 300 metri di plastica in rotoli. Una scenografia, unita ai bei costumi di Ursula Patzak, molto funzionale a una regia abbastanza tradizionale rispetto a quelle precedenti di Martone, che tuttavia “legge” l’opera in modo diverso, perché rifiuta ogni romanticheria del passato e si attiene rigorosamente al Verismo. La sua è una regia essenziale e dai ritmi serrati, che interpreta alla perfezione il realismo documentario del libretto di Illica, muovendo con maestria le masse e accentuando gli aspetti sociali con alcune aperture spettacolari.
Del resto Andrea Chénier ha una collocazione storica così precisa e cosi intimamente legata al racconto che non è possibile mettere i personaggi in doppio petto grigio e le signore in minigonna o ambientare il tutto nei bassifondi parigini.
L’azione dell’opera si svolge in due precise fasi della Rivoluzione francese: nella prima parte siamo nel 1789 poche ore prima della presa della Bastiglia; nelle altre tre parti siamo nella sua fase rivoluzionaria più tragica, durante il Regime del Terrore che ha cambiato il mondo, ma che ha avuto una conclusione tragica. Il protagonista Andrea Chénier (Costantinopoli 1762) è un poeta-soldato realmente esistito, appartenente al partito dei Fogliardi e condannato al patibolo il 25 luglio 1794, solo due giorni prima della caduta e della morte di Robespierre. Sullo sfondo della Storia e della critica sociale, Luigi Illica (1857-1919), uno dei maggiori librettisti dell’epoca post-verdiana, si è ispirato al romanzo Andrea Chénier di François-Joseph Méry (1849) e ha collocato la vicenda in una dimensione romanzesca che ha come protagonista, al fianco di Chénier, la nobile Maddalena di Coigny, la quale prima riesce a salvarsi dalla furia rivoluzionaria, poi decide di morire per amore al fianco del poeta Chénier, seguendolo sul patibolo dopo aver liberato una prigioniera e averne preso il posto in carcere. Il terzo personaggio della storia è Carlo Gérard (per il quale Illica si è ispirato al rivoluzionario Jean-Lambert Tallien), un servo segretamente innamorato di Maddalena che si scaglia contro gli aristocratici e diventa un capo rivoluzionario duro e violento, reso infine più umano dall’amore per Maddalena e pronto a difendere Andrea Chénier, dopo averlo denunciato per gelosia al Tribunale del Direttorio.
Illica ha scritto un libretto ricco di passaggi poetici, mentre Giordano ha composto una partitura tragica e cupa, piena di virtuosismi e di momenti d’insieme complessi e di grande effetto, con sei celebri romanze che sono entrate nell’immaginario collettivo: nel primo quadro Son sessant’anni, o vecchio (Gérard) e Un dì all’azzurro spazio (Chénier); nel terzo quadro Nemico della patria?! (Gérard), La mamma morta (Maddalena), Sì, fui soldato (Chénier); nel quarto quadro Come un bel dì di maggio (Chénier), con il grande duetto finale tra Chénier e Maddalena Vicino a te s’acqueta, che rappresenta un inno alla morte e all’amore. Illica ha anche introdotto i versi originali di Chénier nelle arie Un dì all’azzurro spazio che s’ispira all’Hynne à la Justice e Come un bel dì di maggio che riprende Comme un rayon.
Riccardo Chailly conduce una direzione magistrale che sa coniugare le finezze musicali delle romanze con la potenza delle scene d’assieme. Egli ha posto al primo posto la musica come protagonista assoluta dello spettacolo, cui ha trasmesso una grande forza comunicativa, riuscendo a conciliare un’interpretazione teatrale e una sinfonica e dando una misura all’insieme senza tradire la vigorosa drammaticità del compositore.
Fra gli interpreti principali, che hanno tutti debuttato nei loro rispettivi ruoli, ha conquistato un posto di primo piano Anna Netrebko, la quale si è impadronita del personaggio di Maddalena sia per la presenza scenica sia per la sicurezza e la naturalezza del fraseggio sia per l’intensità dell’emissione che ne fanno uno dei maggiori soprani del momento.  La sua “Mamma morta” e tutto il quarto quadro sono stati un capolavoro di gusto interpretativo e di coinvolgimento emotivo. Il tenore Yusif Eyvazov ha lavorato duramente per ottenere la vocalità adatta al personaggio di Chénier interpretato nel passato da alcuni grandi artisti come Gigli, Del Monaco, Corelli, Carreras, Pavarotti. Si può dire che abbia superato positivamente la prova (liberandosi anche dell’ombra di essere il marito della Netrebko) con un timbro particolare e un fraseggio non sempre omogeneo, ma con una voce morbida e pastosa anche negli acuti, per cui riuscito a conquistare il pubblico e a convincere anche coloro che lo aspettavano al varco con il dito puntato. Il baritono Luca Salsi ha saputo dare la giusta forza espressiva al grandioso personaggio di Gérad; ironica e ammiccante è stata l’interpretazione di “Un Incredibile” da parte del tenore Carlo Bosi; valida è apparsa la mulatta Bersi interpretata dal mezzosoprano Annalisa Stroppa; molto intensa è stata la breve apparizione del mezzosoprano Judit Kutasi, la quale ha dato uno spessore emotivo alla figura della vecchia Madelon che offre come soldato alla Patria l’ultimo suo giovanissimo nipote.

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