Marco Paolini e la sua Piccola Odissea Tascabile


di Andrea Ascani

3 Ago 2017 - Commenti teatro

Pesaro (2.08.2017). Siamo tutti Dèi immortali. Composti di atomi di idrogeno, che passano da un corpo all’altro, da un oggetto all’altro. Atomi che all’inizio di tutto, prima del big bang, esistevano in un unico punto, stretti, compatti, uniti. E già esistevano differenze: c’era l’impresario, l’eroe, la famiglia di clandestini, la bellona del condominio. Ma si era in troppi, in troppo poco spazio. Spazio di cui si inizia a sentire il bisogno. Spazio il cui concetto si crea quando la signora in vestaglia decide di stendere la sfoglia delle tagliatelle.
Dallo spazio al tempo è un attimo, e il racconto di Ulisse, U, diventa per Marco Paolini l’esempio perfetto per raccontare l’interazione di questi concetti. Un testo composto 5 lustri or sono, e di tanto in tanto riproposto, rivisitato, aggiornato. Ma ancora attuale come allora.
Ulisse dopo 10 anni di guerra vuole tornare a casa, ma il suo viaggio si intreccia nello spazio e nel tempo con una vasta gamma di “probabilità e imprevisti” che lo portano a vagare per il mediterraneo per altri 10 anni. Quello stesso mare che oggi è teatro di altre Odissee, percorso da immigrati in cerca del loro porto di pace. Ulisse non è un velocista, piuttosto un gregario che giunge al traguardo fuori tempo massimo.
Pesaro stasera è la città meno ventosa della costa adriatica, anche il leggio non ne vuole sapere di stare al suo posto. La corte di Rocca Costanza è una cornice meravigliosa. Le parole di Paolini scorrono libere, la lettura si mischia al canto e all’improvvisazione, il ritmo è incalzante. Le avventure tra Ciclope, Circe, sirene, vengono descritte con un linguaggio leggero, moderno, e rendono il parallelo con le difficoltà della vita frenetica di oggi. Le lunghe soste in compagnia di Calypso e Nausicaa(aaaaaa!) sembrano punti di arrivo, ma lo spirito dell’eroe è quello di continuare il viaggio, non fermarsi mai. Le (dis)avventure di U. non sono solo sfortuna, ma voglia di viaggiare, di vivere: il viaggio è esplorazione, mettersi in gioco. Angeli e demoni ci consigliano e ci tentano nel corso di questo percorso, e in fondo non è importante a chi dei due diamo ascolto: l’Ade non fa distinzione tra buoni e cattivi, l’oblio è uguale per tutti.
Il viaggio non si ferma neppure quando U. torna a casa, dove i proci si contendono il potere del “telecomando” di casa, e “muoiono” dalla voglia di ascoltare, conoscere le storie e le avventure del viaggio che loro sanno di non poter intraprendere mai.

“O frati,” dissi, “che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia

d’i nostri sensi ch’è del rimanente
non vogliate negar l’esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.

Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza”.

Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché de la nova terra un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto.

Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’ altrui piacque,

infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso.

U. riparte, spinto dalla sua irrefrenabile sete di conoscenza, di raggiungere quel porto che teme non esista e che lo costringerebbe a vagare in eterno. E così la morte del nostro eroe non viene più relegata a un semplice naufragio, a un incidente di percorso. La versione di Dante è riduttiva. La maledetta “voglia di vivere” lo costringe a galla, a lottare fino alla fine, tra le onde che lo strascinano e uno sgombro che si prende la briga di morsicarlo. E per quello U. decide allora di nuotare con tutte le forze per raggiungere il fondo del mare, occhi ben spalancati ad ammirare la natura, un branco di sgombri che stavolta lo risparmiano. Una volta giù il corpo non ha più forze, l’istinto di sopravvivenza è vinto. Si torna così atomi di idrogeno, a continuare una vita eterna, come gli Dèi, immortali.

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